Intervista al prof. Campanini: “Mediterraneo e Medio Oriente, tra cambiamenti e nuove strategie’

Intervista al prof. Campanini: “Mediterraneo e Medio Oriente, tra cambiamenti e nuove strategie’

L’inchiesta della nostra redazione sulle dinamiche geo-politiche in corso nel Vicino e Medio Oriente continua con l’intervista al professor Massimo Campanini, orientalista e storico, docente di Storia contemporanea dei paesi arabi e di Storia dell’Islam Contemporaneo. 

Di Angela Lano.

La Turchia odierna, erede dell’Impero Romano d’Oriente e di quello Ottomano, che posizioni  prenderà, secondo lei, nell’eventualità di una guerra contro l’Iran? Si alleerà, in quanto membro della Nato, con gli Usa e con Israele?

“La nuova Turchia dell’Akp e di Tayyip Erdogan ambisce a svolgere un ruolo predominante nel Medio Oriente, da potenza regionale. Ciò la pone in inevitabile contrasto con l’Iran che nutre le stesse ambizioni. Questo conflitto potenziale potrebbe di fatto giustificare, nel caso di una guerra capitanata dall’Occidente contro l’Iran, un’alleanza della Turchia con gli Usa. Tuttavia, sono convinto che la dirigenza turca non si presterà facilmente ad un ruolo subordinato. Da una parte, l’attuale governo turco, islamista moderato, è molto meno favorevole e compiacente nei confronti di Israele di quanto lo fossero i precedenti esecutivi. In secondo luogo, deve tenere conto delle reazioni possibili degli altri Paesi dell’area e dell’opinione pubblica araba per non compromettere la posizione di leadership che sta faticosamente cercando di conquistare. Pertanto, non sono sicuro che la Turchia obbedirebbe automaticamente agli obblighi che la vincolano alla Nato, e anzi credo che assumerebbe una posizione tendenzialmente autonoma”.

Israele, cioè una parte della Palestina storica, era una regione del territorio ottomano, sottratto dalla Gran Bretagna per il controllo di tutta l’area mediorientale e di Suez. Può la Turchia trovare nell’alleanza con Usa e Israele, e stati arabi amici, una propria collocazione e un equilibrio di forze?

“Come si deduce dalla risposta alla domanda precedente, credo che gli attuali interessi turchi saranno meglio serviti da una politica più consapevole e autonoma della Turchia rispetto agli egoismi statunitensi e israeliani. In gioco è il credito che la Turchia sta cercando di guadagnarsi come potenza regionale, e ciò implica inevitabilmente una strategia internazionale di potenza meno succube alle alleanze tradizionali e più dinamica”.

Questione siriana: si leggono molte notizie, spesso contrastanti: quali sono le dinamiche reali e le prospettive nel prossimo futuro?

“La questione siriana è difficile da decrittare. Le forze di opposizione sembrano aver avviato una protesta spontanea e trasversale simile a quella che ha condotto al rovesciamento di Ben ‘Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto. Tuttavia non mancano elementi di ambiguità che sembrano far propendere per una situazione di tipo libico, dove la lotta contro Gheddafi è risultata evidentemente eterodiretta ed appoggiata dalle potenze occidentali. Non mancano segnali di coinvolgimento indiretto di agenti stranieri infiltrati a sostenere l’esercito siriano libero ed altre forze di opposizione. La stessa dirigenza del Consiglio nazionale siriano, il cui maggior esponente è Burhan Ghalioun, opera dall’estero e quindi ci si potrebbe chiedere quale sia il suo effettivo peso sulle dinamiche interne della lotta civile e quale sia il suo effettivo consenso presso la popolazione in rivolta. D’altro canto, non vi è dubbio che la particolare situazione interna siriana (con le complesse interrelazioni settarie che la caratterizzano) favorisca la resistenza di Bashar al-Asad, il quale, evidentemente, gode di appoggi, per esempio nell’esercito e nelle strutture del partito Ba’th, e del consenso di almeno una parte della popolazione che gli consentono di prolungare la resilienza del suo sistema. Altrimenti non sarebbe rimasto in sella così a lungo. È evidente che l’atteggiamento molto più prudente dell’Occidente riguardo alla Siria di quello che aveva assunto riguardo alla Libia, oltre alle perplessità o addirittura allo schieramento pro-siriano di importanti paesi come la Russia e la Cina, contribuiscano ulteriormente a supportare, non si sa fin quando, la posizione di al-Asad. È pertanto difficile prevedere come evolverà la situazione. Certamente una soluzione definitiva non è alla portata di mano e probabilmente molto sangue dovrà ancora scorrere. I rivoltosi potrebbero non avere la forza sufficiente, soprattutto militare se non politica, per sferrare al regime una spallata decisiva; il regime potrebbe arroccarsi in una difesa, costi quel che costi, delle proprie posizioni contando anche su un clima maggiormente favorevole delle relazioni internazionali”.

E’ possibile che la Turchia voglia “controllare” uno di quelli che furono i suoi territori durante l’epoca ottomana? In fondo, non fa mistero di pensare con nostalgia al proprio passato di grande Impero, la cui influenza si estendeva su vaste aree del Mediterraneo e del Medio Oriente…

“Che la Turchia miri ad annettersi la Siria, mi sembra fantapolitica. Che la Turchia miri invece, come già detto, a svolgere un ruolo di potenza regionale e quindi potenzialmente a influenzare i destini di una nuova Siria, liberata dagli Asad, mi pare invece del tutto possibile e ragionevole. Non penso comunque che sia in gioco l’indipendenza della Siria”.

Possiamo parlare di “Asse turco-iranico”?

“Francamente non capisco in cosa questo asse turco-iranico potrebbe consistere. Allo stato attuale delle cose, gli interessi geopolitici della Turchia e dell’Iran sono divergenti. Inoltre un asse turco-iranico potrebbe o dovrebbe avere dei caratteri anti-arabi in una regione, come il Vicino Oriente, in cui gli arabi sono maggioranza. Di loro bisognerebbe comunque tenere conto”.

Come analizza la posizione di Hamas in Siria?

“Hamas non è un fattore decisivo nella politica siriana, nemmeno in quella degli Asad. È piuttosto la Siria ad essere stata un fattore importante, forse decisivo, ma ci vorrebbero dei distinguo, nella politica di Hamas e più in generale nel conflitto israelo-palestinese. Non vedo come Hamas possa condizionare gli sviluppi della situazione in Siria, mentre è molto probabile che un cambiamento di regime a Damasco potrebbe avere ripercussioni importanti sul conflitto israelo-palestinese e quindi su Hamas”.

Possiamo parlare di svolta di real-politik del movimento di resistenza islamica?

“Da quando Hamas ha vinto le elezioni palestinesi nel 2006 la sua politica è sempre stata improntata a un certo pragmatismo, pur nella conservazione di un atteggiamento di fermezza nei confronti di Israele. Credo che gli interessi predominanti dei palestinesi oggi consistano nella sospensione delle ostilità tra Hamas e Fatah e nella formazione di un coerente fronte comune che sappia rispondere alle chiusure e all’intransigenza israeliana”.

Dia un suo giudizio sulle Primavere arabe, e qualche cenno alle varie differenze da un Paese all’altro.

“È difficile rispondere a questa domanda in poche righe. Il risveglio politico arabo che ha portato alla caduta dei regimi di Ben ‘Ali, Mubarak, Gheddafi e ‘Abdallah Saleh e che sta minacciando i “troni” di Asad e del sovrano del Bahrein è stato indubbiamente un avvenimento epocale che in qualche modo cambierà il volto del Medio Oriente nel prossimo futuro. Indietro non si tornerà, sebbene le prospettive del domani non siano sempre chiare. Spesso le masse – la moltitudine secondo una categoria politologica moderna – sono state protagoniste delle rivolte o rivoluzioni e hanno rivendicato dignità, giustizia, libertà, trasparenza, partecipazione, rispetto dei diritti umani. Questa partecipazione pratica della moltitudine alle rivolte punta evidentemente verso nuovi modelli politici, verso nuove forme di democrazia che, da un lato, sostituiscano le dittature precedenti, ma che, dall’altro, rappresentino anche una novità rispetto al concetto di democrazia liberista come articolato tutt’oggi in Occidente. La moltitudine delle piazze tunisine ed egiziane rivendica una forma di democrazia diretta che però fa fatica ad organizzarsi ed articolarsi in formazioni partitiche e di rappresentanza che incanalino in maniera produttiva le energie delle masse. Questo carattere acefalo di parte importante delle proteste di piazza potrebbe avere una conseguenza negativa sulla loro capacità di incidere sulle trasformazioni in atto. D’altro canto, il trionfo elettorale dei partiti islamisti moderati in Tunisia, Egitto, Marocco prefigura uno scenario politicamente molto interessante: saranno capaci i partiti islamisti, per lunghi decenni repressi ed emarginati, di governare? Sapranno svolgere una funzione egemonica in relazione alle masse? Sapranno sperimentare nuove vie di “democrazia islamica” in grado di dare un carattere libertario e di apertura, di origine religiosa, a forme politiche sostanzialmente importate dall’Occidente? Questi quesiti restano tutti sul campo e sarà solo il futuro a dirci dove le primavere arabe sono incamminate. Intanto, i processi sono a più velocità. La Tunisia sembra attualmente il paese più avanzato con un’esperienza di dialettica democratica più spinta, in attesa che il parlamento, controllato dagli islamisti moderati di al-Nahda, formuli la nuova costituzione, garantendo certe conquiste civili che risalgono ancora all’epoca autocratica di Burghiba. L’Egitto sta faticosamente cercando la sua strada in un quadro politico estremamente frammentato in cui le varie forze in campo si oppongono l’una all’altra e in cui soprattutto, l’esercito ha un ruolo da giocare. L’esercito vorrà sorvegliare la transizione e gli spazi di democrazia partecipativa aperti dalla gente di piazza Tahrir, così come rivendicati dai Fratelli Musulmani che dominano il parlamento, potrebbero essere chiusi da un intervento repressivo delle forze armate. Le elezioni presidenziali, previste in Egitto per giugno, diranno molto sulle prospettive future. La Libia è un Paese uscito lacerato dalla guerra civile che ha abbattuto Gheddafi e deve essere ricostruito dalle fondamenta: bisogna realizzare lo stato moderno, che il sistema, pur originale nelle intenzioni, della jamahiriyya aveva per lungo tempo impedito, così come bisogna trovare un equilibrio tra le diverse forze che compongono il quadro politico, in un framework in cui sono importanti le forze tribali (e anche religiose). La realtà tribale e settaria dello Yemen inciderà ancora sicuramente sul processo di trasformazione di quel paese. Della Siria abbiamo già parlato”.

Qual è il ruolo dell’Occidente e la sua relazione con il mondo arabo e islamico dopo la vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto, Tunisia e in altri Paesi?

“L’Occidente deve guardare con simpatia e partecipazione ai processi in atto sull’altra sponda del Mediterraneo e soprattutto deve rispettarli garantendo un’effettiva applicazione della tanto sbandierata democrazia. Sono finiti i tempi – o almeno bisogna farli finire – dell’imperialismo economico e culturale, e in alcuni casi ancora anche politico. L’Occidente deve aiutare i partiti, anche se islamisti, che hanno vinto le elezioni a gestire equilibratamente e democraticamente i loro Paesi e deve deporre le ambizioni di ingerenza neo-imperialista che, per esempio, hanno ancora caratterizzato la sua azione in Libia. Solo così, l’Occidente dimostrerà che la democrazia di cui si fa vanto non è una parola riempita solo dei contenuti che a lui fanno comodo, ma una vera categoria universale che tiene conto delle esperienze originali praticate in altri contesti”.

Quali sono, secondo lei, le prospettive in Egitto, e in relazione alla Palestina, a seguito della vittoria della Fratellanza?

“E’ altamente probabile che un eventuale governo maggioritariamente diretto dai Fratelli Musulmani in Egitto assumerà nei confronti di Israele una posizione meno compiacente e filo-americana di quella assunta a suo tempo da Mubarak. Un maggiore dinamismo e una maggiore autonomia della politica estera egiziana è probabile e persino augurabile, per equilibrare la differenza di potenza che esiste tra Israele e i palestinesi. Non credo comunque che sia a rischio la pace dell’Egitto con Israele, né credo che i nuovi dirigenti egiziani abbiano la volontà di riaccendere un conflitto armato con lo stato ebraico. Tocca a quest’ultimo piuttosto dimostrare di volere effettivamente una pace equa coi palestinesi”.

Possiamo parlare di “venti di guerra” contro l’Iran? Qual è lo scenario possibile? Quali dinamiche mondiali e regionali scatenerebbe una guerra contro l’Iran?

“L’Occidente alimenta la tensione contro l’Iran, per altro appoggiandosi agli stati conservatori come l’Arabia Saudita, preoccupati per una eventuale egemonia sciita e non araba in Medio Oriente. La repubblica islamica costituisce una indubbia anomalia nel quadro di un Medio Oriente che, dopo Bush, si vorrebbe normalizzato alla democrazia. D’altro canto, soprattutto per ragioni di politica interna, i dirigenti iraniani alimentano la tensione verso l’Occidente. È naturalmente Israele a nutrire le maggiori preoccupazioni, anche se le tirate anti-israeliane di Ahmadinejad hanno più un fine di politica interna che di minaccia autentica alla distruzione dello stato ebraico. Una guerra contro l’Iran rimane possibile, anche se credo non probabile, e sarebbe comunque un disastro per i difficili equilibri della regione. L’Iran non è debole come lo era l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003. Le convergenze dell’alleanza dello sciismo politico, che vanno dal Libano all’Iraq per arrivare a Teheran, se sollecitate da un avvenimento dirompente come una guerra, cercherebbero di sopravvivere ad ogni costo combattendo con tutti i mezzi. E questo incendierebbe il Medio Oriente attivando automaticamente alleanze e contrapposizioni. Credo che la sicurezza di Israele, se questo è effettivamente l’obiettivo di Tel Aviv e anche degli Usa di Obama, sarebbe minacciata più da una guerra che dai progetti di sviluppo del nucleare in Iran. Una reazione iraniana scatenerebbe un’ulteriore reazione israeliana con conseguenze imprevedibili”.

Il Libano di Hezbollah come entrerebbe in tale scenario?

“Hezbollah è un movimento di resistenza all’occupazione israeliana e contemporaneamente un movimento nazionalista che ambisce a un ruolo decisivo nella politica interna libanese. È un grave errore di prospettiva politica ridurlo a un fenomeno di terrorismo. In quest’ottica, Hezbollah darebbe certamente un contributo pro-iraniano nel caso di una guerra e l’importanza che esso ha in Libano farebbe sì che il fragile e frammentato paese dei cedri rischierebbe una deflagrazione e una frantumazione che scatenerebbe forze altrettanto imprevedibili”.

Un conflitto contro l’Iran potrebbe trasformarsi in una “Terza guerra mondiale”? Oppure in un conflitto tra sunnismo e sciismo, e relativi Paesi sostenitori?

“Da un certo punto di vista, una terza guerra mondiale strisciante è già in atto da tempo. Certo, bisognerebbe sapere come Russia e Cina, interessate a un ruolo non secondario nel Medio Oriente, reagirebbero a una guerra statunitense-israeliana contro l’Iran, e senza dubbio le tensioni internazionali ne verrebbero acuite. Altrettanto, un conflitto tra sunnismo (Arabia Saudita e paesi conservatori del Golfo) e sciismo (Iran) è già in atto, in forma velata, da tempo. In gioco è l’egemonia sulla regione (e abbiamo parlato della variabile turca ispirata a un protagonismo regionale alla luce dell’islamismo moderato) e spesso in Medio Oriente i conflitti, che sono di origine politica ed economica, assumono panni religiosi. Ma la religione è più una sovrastruttura dei conflitti politici, per quanto importante a imporre e selezionare simboli e obiettivi, che un elemento scatenante. È tradizionale del resto, nella prassi del mondo musulmano, una strumentalizzazione del religioso da parte del politico”.