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Da sempre al centro dell’attenzione mondiale per motivi geopolitici e per la difficile convivenza nel contesto mediorientale, Israele è anche oggetto di interesse nell’economia internazionale in quanto pioniere delle start-up, neo-imprese dove sono ancora in corso i processi organizzativi (struttura, logistica, negoziazioni). Sono in pratica la culla dei processi di base che faranno di una piccola azienda una grande impresa. Nascono da semplici idee, ritenute innovative e potenzialmente idonee a competere sui mercati. In Israele se ne contano circa 12.000 negli ultimi venti anni, ovvero da quando il governo ha diretto parte della sua attenzione verso l’industria civile, prima di allora concentrata al 100% su quella bellica. Il settore che si pone alla guida di questa vera e propria incubatrice di innovazione è sicuramente quello delle biotecnologie, seguito da tanti altri. Secondo le statistiche del Central Bureau of Statistics di Israele, c’è una start-up ogni 1.800 abitanti, su circa 8 milioni di abitanti. Un’economia, quella israeliana, che nasce con un impianto neo-socialista trasformatasi poi negli anni ‘90 in una perfetta economia capitalista, premiata dall’OCSE, che dal 2010 la annovera tra i paesi membri.

Le start-up in Israele sono realtà che sono riuscite ad attecchire grazie soprattutto all’alto livello di istruzione che il paese vanta e che è alla base del suo sviluppo. Esempi di successo sono  la ReWalk, un’impresa che opera nel settore delle c.d. science life, che attraverso la ricerca in biotecnologie ha sviluppato un sistema che permette a persone affette da disabilità di poter camminare nuovamente. Oppure SodaStream, leader mondiale per la preparazione domestica di bevande gassate. Altro esempio ancora di eccellenza, nel mondo accademico, è sicuramente l’idea che hanno sviluppato tre studenti grazie anche al supporto delle strutture universitarie e dei loro docenti, che consiste in un sistema di rilevazione degli ostacoli attraverso una telecamera Kinect 3D e un telefono Android il quale segnala con un messaggio audio quando la persona sta per incappare in un ostacolo, invenzione molto utile per chi presenta disabilità visive.

Ma com’è riuscito un paese così piccolo e privo di risorse naturali a sostenere una crescita economica costante e di tale portata?

Le risposte sarebbero molteplici. Senza perderci in digressioni storiche, riteniamo sia doveroso accennare a una necessità che lo Stato di Israele ha da sempre dovuto affrontare: difendersi. Dalla sua fondazione nel 1948 (attraverso una risoluzione dell’ONU), Israele non venne mai accettato dagli stati arabi confinanti, da qui la costante necessità di doversi difendere, di creare un sistema di autodifesa efficiente ed efficace alle aggressioni e che fungesse anche da deterrente per i propri nemici. La strada percorsa sin da subito dai vari governi di questa giovane Repubblica parlamentare è stata quella di dare slancio alla ricerca e allo sviluppo dell’industria bellica, che usufruisce di quasi la metà degli investimenti dallo Stato. In questo settore di eccellenza Israele ha ereditato importanti realtà già esistenti nella Palestina pre-bellica, come l’ARO (Agricultural Research Organization), il Technion di Haifa (nato nel 1924), l’Università di Gerusalemme (nata nel 1925 e oggi una delle realtà accademiche più prestigiose al mondo).

La svolta arriva negli anni ‘50 quando Israele si fa pioniere non tanto di tecnologia, quanto del suo commercio. Viene costruito il primo modello di TT (Transfer Technologies), diretto a trasferire come una vera e propria merce il prodotto dell’attività intellettuale, la proprietà intellettuale appunto, come un brevetto di un software informatico. Il modello israeliano viene successivamente mutuato dagli USA negli anni ’80 e dal Giappone negli anni‘90.

La seconda ragione a cui Israele deve la sua nomea di paese in cui investire è senza dubbio il suo sistema politico ed economico. Il paese vanta un sistema politico e partitico piuttosto solido: dalle elezioni del 2009 è al Governo l’attuale premier Benjamin Netanyahu. In quelle elezioni politiche il Likud (partito di Netanyahu) era arrivato secondo, dietro Kadima di Tzipi Livni, ma i vincitori non erano riusciti a trovare una maggioranza per formare il governo ed ecco allora la formazione del governo del Likud. In precedenza Netanyahu era stato ministro delle finanze nel governo Sharon, dal quale si era dimesso per protesta contro il piano di ritiro dalla striscia di Gaza.

Dal punto di vista economico: dai dati diffusi dalla Bank of Israel relativi ai principali indicatori macroeconomici possiamo notare che nel 2013 rispetto all’anno precedente il PIL ha subito una flessione dell’1,9 %, dovuta al calo della domanda interna, un ISU (Indice di Sviluppo Umano) pari a 0,9; 700 accessi internet ogni 1000 abitanti, il PIL procapite pari a 31.296 $, il tasso di disoccupazione al 6,9%.  Il debito pubblico nell’ultimo anno è in calo dal 72% al 69% del PIL, gli IDE (Investimenti Diretti Esteri) sono in crescita costante negli ultimi quattro anni, da 5,2 mld $ a 10,4 mld $, con un picco di investimenti nel 2011 di 11,4 mld $.

In base a questi dati, il Consiglio Esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, nella sua periodica analisi della politica macroeconomica israeliana, ha espresso notevole apprezzamento per l’efficacia delle policyeconomiche delle autorità israeliane e per le prospettive di crescita che il paese è in grado di offrire. Standard’s&Poor, la nota agenzia internazionale di rating, ha premiato Israele con una “A+” (buone possibilità di rispettare gli obblighi finanziari sebbene sia suscettibile alle circostanze e condizioni economiche degli obbligati che hanno un rating migliore) per il suo impegno credibile nella riduzione del debito e per le prospettive di investimento, fiduciosa anche delle politiche economiche messe in atto dalla Banca Centrale israeliana, ovvero l’aumento dall’8% al 9% della base di capitale degli istituti di credito, rafforzando al contempo le fonti di investimento e le riserve finanziarie. Elementi che nel loro insieme, sono considerati tra i migliori vettori per la crescita economica di un paese.

Come noto, tra molti economisti è opinione diffusa che nessuna crescita tecnologica possa avvenire senza un adeguato supporto dello Stato, capace di creare un modello nel quale si premia la “buona idea”, facendo da sostegno alla ricerca, allo sviluppo e poi infine alla sua nascita concreta. In questo contesto il governo israeliano ha creato un modello di finanziamento in grado di attrarre Venture Capital (capitali di ventura, ovvero quel capitale che si investe nel “nuovo”) e IDE.

Nel 1968 viene creato l’OCS (Office of Chief Scientist) in diversi Ministeri: Industria, Agricoltura, Comunicazioni, Difesa e Salute, con il compito proprio di promuovere la R&S (Ricerca e Sviluppo) civile nei rispettivi settori di competenza. L’OCS diventa così motore dell’economia israeliana, vengono liberalizzati il mercato del capitale e del lavoro fornendo la spinta necessaria, attraverso tassi di cambi favorevoli, per la trasformazione che porterà Israele ad esportare ben 8 miliardi di dollari in High-Tech, i cui effetti verranno analizzati più avanti.

Ma queste start-up israeliane riescono ad ottenere finanziamenti? Iniziamo col dire che il quadro normativo è stato modellato proprio per essere un sostegno valido e non un limite specioso al progresso civile del paese.  Una legge del 1985 obbliga il governo israeliano a investire ogni anno in R&S attraverso l’OCS, codificando pertanto la volontà di crescere ed essere sempre più competitivi nel mercato internazionale, affidando alla cultura d’impresa la crescita socio-economica del paese.

L’OCS ha un ruolo che noi definiremmo “burocratico”, ma nel senso positivo del termine. Ad esso gli imprenditori e le start-up sottopongono i progetti attraverso procedure di partecipazione molto snelle e questi vengono valutati nel merito della loro potenzialità effettiva. Successivamente esso assume il ruolo di investitore neutrale, finanziando il progetto per l’85% fino a un massimo di 50$K diretti alla realizzazione di prototipi, business plan e tutto il complesso di strategie di marketing per la creazione della start-up; al contempo verifica la conformità degli investimenti privati alle leggi vigenti in materia fiscale. L’azione dell’OCS accompagna il processo naturale di nascita e crescita di una start-up, dallo stadio di proprietà intellettuale a vera e propria realtà competitiva nel business world.

L’accesso al credito in questo quadro è un aspetto importante da considerare con maggiore meticolosità. L’Ambasciata d’Italia in Israele ha elaborato i dati forniti dalla BM (Banca Mondiale), indice “doing business”, mostrando un quadro di sintesi sull’accesso al credito delle PMI (piccole e medie imprese) e sulla reale possibilità di fare impresa in Israele. Le PMI sono il motore della crescita economica del paese; rappresentano il 96% di tutte le aziende israeliane, il 50% del PIL e impiegano il 60% dei lavoratori nel settore privato, ma nonostante ciò hanno un limitato accesso al credito, ricevendo dal settore bancario nel suo complesso solo il 23% delle risorse, con un 2,8% in più di tasso d’interesse rispetto al resto del settore imprenditoriale tradizionale. Questo è un problema che la Banca d’Israele intende risolvere in breve tempo, diminuendo quindi il costo del capitale e attuando una politica bancaria che favorisca la reale concorrenza tra i dieci istituti bancari presenti nel paese, cinque dei quali coprono il 95% del mercato retail (famiglie e PMI).

Questa concentrazione indebolisce la concorrenza sulla concessione del credito, colpendo il guadagno sociale anche in termini di occupazione. Ma questo è l’aspetto più prettamente economicistico. C’è però un altro elemento accennato poc’anzi con riferimento al processo di nascita di una start-up: la burocrazia.

Tema dibattuto spesso in negativo nel nostro paese, come ben sappiamo, diventa in Israele invece motivo di eccellenza. I dati estrapolati dai questionari somministrati agli imprenditori di Tel Aviv e forniti dalla BM all’interno del report “doing business”, mostrano come, sebbene l’accesso al credito sia limitato, la burocrazia fornisce più di un motivo per investire: in questa  classifica su 185 paesi presi in esame, Israele è al 35° posto per velocità di avvio di un’impresa (circa 34 giorni) con un dispendio di 4.500 Shekel (costi di registrazione e certificazione legale) e cioè poco meno di 1000 Euro;  al 103° per permesso di costruire e allacci per la fornitura di energia, al 13° per l’accesso al credito, al 6° per la protezione e la tutela degli investitori, al 10°  per le procedure di commercio e al 35° per la soluzione delle insolvenze (con un tempo medio di 2 anni e un costo relativamente basso), in fine al 22° posto nella classifica ETI per efficienza doganale.

Laddove ancora il paese presenta delle lacune (ad es. scarsa concorrenza degli istituti bancari) il gap è colmato da un sistema burocratico fondato sulla cultura d’impresa, che tende ad agevolare piuttosto che ad ostacolare gli investitori che, nel complesso, si sentono tutelati grazie alla bassa inflazione, ad una seria e determinata protezione del diritto di proprietà che favorisce nel concreto l’autonomia contrattuale dei privati e ad una giustizia efficiente. Nel 2013 era al 36° posto su 177 paesi che formano la classifica stilata ogni anno da Transparency International (una ONG con sede a Berlino), che elabora una classifica all’interno della quale vengono menzionati, su una scala da 1 a 10, gli abusi di potere percepiti nel settore pubblico. Elementi questi ultimi che certo non sono indicatori economici, ma ne influenzano l’andamento in modo apprezzabile e penetrante, in particolare nelle scelte di chi deve fare impresa ed investimenti.

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Tema fortemente interessante, che mette sotto i riflettori un paese spesso sconosciuto da questo punto di vista e noto all’opinione pubblica internazionale per le vicissitudini politiche regionali più che per queste enormi enormi potenzialità economiche, scientifiche e culturali. Potenzialità che andrebbero approfondite con studi, ricerche e scambi internazionali mirati a cogliere tutto l’enorme patrimonio scientifico e il  know howche in questi anni (per motivi anche militari) il paese della stella di Davide è stato in grado di realizzare e sviluppare in vari settori: ricerca scientifica, innovazione tecnologica, difesa, università e tanto altro ancora.

Pietro Stilo è dottorando di ricerca in Scienze economiche e metodi quantitativi all’Università di Messina.
Dalila Ribaudo è dottoressa in Scienze dell’amministrazione e della cooperazione allo sviluppo.