Una donna palestinese in esilio

PIC. Di Tsneem Mohammad. Come una triste sinfonia, essere in esilio compone una nota straziante. Uno straniero può decidere di tornare nel proprio Paese quando vuole, ma chi è in esilio non dispone di questa scelta.

Esule è una dicitura affibbiata ai rifugiati palestinesi costretti ad abbandonare la loro terra natia nella Diaspora del 1948. Sprovvisti di documenti, sono stati sparpagliati nel Mondo in attesa di avere il diritto di fare ritorno.

Purtroppo, i palestinesi che vivono in paesi arabi hanno vissuto questa “separazione” o ghurba,(parola araba che potremmo tradurre con nostalgia dell’esule, ndT) nel modo più duro. Il termine esiliato (in arabo al-moghtaribin) è stato inventato per i palestinesi residenti in quei Paesi dove vengono tormentati con sentimenti negativi come alienazione e isolamento.

In tali Paesi arabi, un palestinese può vivere e lavorare ma anche venire licenziato senza preavviso e a quel punto non potrebbe fare altro che preparare le valige e andare via perché sarebbe considerato un immigrato illegale. Avere la residenza in uno stato come in un altro conta meno della nazionalità, senza considerare i cittadini di quello stato: si è subordinati ed emarginati per il fatto di essere palestinesi.

Essere Palestinese significa non avere uno Stato, un governo e nessuno che difende la tua condizione. Significa essere soli.

Quale donna esiliata dalla mia terra natale, la Palestina è più di un concetto complicato che un dolore.

E’ un concetto inventato esclusivamente per i palestinesi, composto di varie frasi ciascuna con la sua lezione da trarne. Essere esule dalla propria terra natia plasma una donna in un’esperta della vita. Qualche volta è un’insegnante generosa, altre una tosta; una saggia e talvolta una vana.

Da bambina sono cresciuta in un paese straniero dove la gente non parlava la stessa lingua dei miei genitori, un paese dove le donne si vestivano in modo diverso rispetto a mia nonna e i cui abitanti ci guardavano in maniera differente. E’ stato lì che il germoglio dell’esilio e dell’alienazione è cresciuto dentro me giorno per giorno.

Sin dal primo giorno di scuola sono stata etichettata come “l’esiliata”, cosa che ha prodotto un effetto spaventoso. E tutte le ragazze che condividevano questa etichetta si frequentavano tra loro. Il nostro punto d’incontro era un ulivo, nel cortile. Sotto quell’albero ci sedevamo per supportarci e darci forza l’una con l’altra. Raccoglievamo delle olive, le schiacciavamo e le mangiavamo per avvertire il sentore e il sapore della nostra madrepatria, la Palestina.

Crescendo, abbiamo provato a mettere insieme dei pezzi incongruenti del nostro paese di origine. Nelle nostre menti conservavamo immagini di un posto chiamato Palestina che provavamo ad assemblare, per formare un puzzle.

Quelle immagini venivano dai racconti dei nostri genitori, dalle lettere che ricevevano da casa, dalla salvia che ci era stata spedita, dalle storie delle nostre nonne e dalle foto di famiglia. Era un puzzle impegnativo, eppure tentavamo in tutti i modi di mettere insieme quei pezzi per vedere come era fatta la nostra patria, la Palestina.

Delle volte sprizzavamo di gioia ed entusiasmo, altre eravamo sconvolte. Alla fine riuscimmo a mettere insieme quei tasselli e l’immagine che ne venne fuori era la cosa migliore che un occhio potesse ammirare.

Ne memorizzammo ogni frammento e con orgoglio raccontavamo la nostra storia agli altri. Come bambini spaventati, la ripetevamo finché non venivamo sopraffatte dalla nostalgia. La Palestina aveva conquistato i nostri cuori, come aveva fatto l’esilio: esso ci aveva reso più forti, ci aveva dato un senso di identità, ci aveva dato speranza, orgoglio e trepidazione.

“Quando torneremo in Palestina, vedremo le cose più belle mai viste. Vivremo in pace e i nostri sogni saranno sempre più grandi”. Questo mi diceva la mia mente di bambina. Fui entusiasta quando la mia famiglia decise di fare ritorno in Palestina. Non tornammo nella nostra città di origine, Isdud. Andammo a Gaza dopo la firma degli Accordi di Oslo, quando la prima Intifada palestinese fu interrotta con la forza.

Con mio grande sgomento, non ero pronta a vedere la scioccante realtà che trovai al mio ritorno, una forma di esilio più dura di quella che mi ero lasciata alle spalle. La mia patria era un uccello abbattuto. Dissi a mia madre: “Se ci avessero dato anche solo un pezzo, un’ala o altro, avremmo potuto riportarlo in vita. Perché non ci hanno dato anche solo un’ala, mamma?” Mia madre rimaneva in silenzio e lasciava che le lacrime parlassero per lei. Allora non fui capace di capire a fondo quelle lacrime, ma il passare dei giorni e le tante altre lacrime versate furono sufficienti a fornirmi una spiegazione di cui avevo disperatamente bisogno per capire cosa non ero riuscita ad afferrare prima.

Questa è la storia di come siamo diventati stranieri nella nostra stessa terra. La mia mente si rifugiò ai giorni di esilio fuori dalla Palestina. In qualche modo desideravo tornare lì. Il quadro perfetto che mi ero creata era stato ridotto a brandelli. Mentre i misteri della vita si manifestavano dinanzi a me, la mia nostalgia di casa si intensificava sempre di più. Nell’infanzia era fantasia, durante l’adolescenza patria, da adulta un pesante fardello!

Da adulti, quando si è alienati dalla propria terra natale, la si porta nel cuore ovunque si vada. Esiste solo dentro te. La vedi negli occhi degli altri esuli, che restano uniti per preservare un senso di casa. La vedi nelle menti degli esuli che combattono per la resistenza, la senti nelle canzoni che inneggiano alla libertà e la senti nell’empatia degli altri. In esilio la casa era più dura da comprendere; se prima era più affascinante, poi diventava un fardello; prima un posto inestimabile, poi sempre più distante, eppure immacolato.

In esilio, la patria si estendeva fino a raggiungere ogni angolo dell’anima. Sembrava s’incarnasse nella kuffiya palestinese o nella bandiera che ci avvolgevano attorno. Nel nostro esilio forzato, la nostra patria smise di farsi sentire così duramente.

Non avvertiamo l’ingiustizia del mondo che ci circonda, e la tirannia del mondo svanisce. Sentimenti pittoreschi si impossessano del nostro cuore e siamo orgogliosi di resistere e diventiamo ossessionati dal nostro esilio, all’apparenza meraviglioso. Amiamo incondizionatamente la nostra patria e i valori di onore e orgoglio che ci hanno trasmesso i nostri genitori.Sfidiamo il tempo aggrappandoci ai ricordi.

– Tsneem Mohammad è nata nel 1985. E’ una rifugiata palestinese, originaria di Isdud. Ha lavorato come sceneggiatrice e producer per il canale satellitare Al Aqsa. Scrive anche articoli sulla Palestina, pubblicati su Aljazeera e a livello locale, scrive per una rivista intitolata “Al Saada”.

Traduzione di Ada Maria De Angelis