Analisi: la complicità dei donatori nelle violazioni ai diritti palestinesi da parte degli Israeliani

Ma’anAl-Shabaka è una ONLUS indipendente che si propone di istruire e promuovere un dibattito pubblico sui diritti umani dei palestinesi e sull’auto-determinazione nel quadro del diritto internazionale. 

L’artefice di questa sintesi programmatica è Nora Lester Murad, scrittrice e attivista, oltre che co-fondatrice dell’Associazione Dalia, che intende incentivare la formazione di una società civile viva, responsabile e indipendente attraverso azioni filantropiche. 

I palestinesi hanno il diritto a chiedere aiuti internazionali, e i donatori l’obbligo di fornirlo.

Le modalità con cui gli aiuti vengono erogati, però, possono contribuire alla violazione dei diritti dei palestinesi secondo le norme del diritto internazionale. L’incapacità degli attori internazionali di agire nel rispetto del loro ruolo di terze parti e di attori non statali, consente il perpetuarsi dello status quo; in questo modo, gli artefici delle donazioni finiscono per essere in parte responsabili delle violazioni in atto.

In effetti, l’attuale sistema internazionale di aiuti umanitari concorre, per una molteplicità di fattori, alle violazioni dei diritti del popolo palestinese.

In particolare: 1) I donatori definiscono la situazione dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana una “emergenza”, che si reitera anno dopo anno, dando luogo a interventi a breve termine che si concentrano sugli effetti e non sulle cause; 2) Le politiche tese ad evitare lo scontro con Israele indipendentemente dalle sue azioni, vengono recepite come un consenso sul piano internazionale, che contribuisce alla sua impunità; 3) La mancata attribuzione di responsabilità a carico dello stesso sistema di aiuti ha contribuito all’isolamento dei palestinesi e alla loro marginalizzazione.

Che questo sia sufficiente, da un punto di vista legale, a ritenere i donatori internazionali “complici”, è una questione che dovranno dirimere gli esperti di diritto. E qualora fosse vero, ci auguriamo che tali esperti suggeriscano anche ai Palestinesi le strategie più efficaci per ottenere giustizia per via legale o in ambito politico.

Porremo quindi otto domande sul sistema di aiuti internazionali così come è strutturato attualmente.

  1. Gli aiuti erogati al popolo palestinese aiutano Israele a sottrarsi agli obblighi previsti dalla Quarta convenzione di Ginevra?

Vista la prolungata dipendenza dei palestinesi dagli aiuti internazionali, si può sostenere che le donazioni in favore dei territori occupati sollevano, di fatto, Israele, in quanto potenza occupante, dall’obbligo di proteggere i civili palestinesi e assicurare il soddisfacimento dei loro bisogni primari, come previsto dall’Articolo 60 della Quarta Convenzione di Ginevra. Gli aiuti, inoltre, sovvenzionano l’occupazione, liberando fondi che finiscono per finanziare le violazioni israeliane e aiutano in modo diretto Israele a eludere i suoi obblighi di protezione della popolazione.

Peraltro, quando Israele arreca danni a progetti finanziati dalla comunità internazionale, per mezzo di demolizioni, bombardamenti o altri tipi di aggressione, i donatori reagiscono solo raramente e con timide obiezioni.

Nessuno ha mai intrapreso azioni sistematiche per invocare risarcimenti o indennizzi da parte di Israele. Al contrario, si continua a finanziare la ricostruzione, sollevando Israele dalla responsabilità per le azioni che commette.

  1. La comunità internazionale “rende effettivo” il blocco illegale di Israele su Gaza adattandosi a procedure che ostacolano l’assistenza umanitaria?

Secondo le conclusioni della prima seduta internazionale del Tribunale Russell sulla Palestina, adattarsi alle condizioni del blocco israeliano sulla Striscia di Gaza per fornire assistenza umanitaria (e/o per giustificare l’impossibilità di fornirla) può, nel lungo periodo, “rendere effettivo” tale blocco, in violazione dell’Articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta ogni forma di punizione collettiva (cfr. Articolo 19.9 delle conclusioni del Tribunale).

Questo va ad aggiungersi a quanto decretato dalla Corte Internazionale di Giustizia, secondo cui il Muro dell’annessione eretto in Cisgiordania e il regime che ne consegue, creano una situazione che potrebbe diventare permanente e coincidere di fatto con un’annessione.

Effettivamente, uno studio condotto a Gaza nel 2011 ha evidenziato come le organizzazioni internazionali non incidono a sufficienza sul contesto politico in cui operano. Altri studi hanno dimostrato come i donatori abbiano ottemperato in ogni modo possibile alle richieste di Israele, anche quando queste condizionavano in modo significativo la fornitura di servizi umanitari.

Conseguentemente, essi non hanno assolto appieno l’imperativo umanitario di intervenire, prefigurato dal Codice di Condotta Internazionale per il Disaster Relief, anche quando la crisi a Gaza si acuiva. Va notato in questa sede che, in virtù dello Statuto di Roma, impedire volontariamente l’arrivo dei soccorsi preveduti dalle Convenzioni di Ginevra, può, in casi estremi, essere considerato un crimine di guerra. (Article 8(2)(b)(xxv)).

  1. La fornitura di aiuti militari a Israele, usati per violare i diritti dei palestinesi, può essere considerata una violazione dell’Articolo Comune 1 della Quarta Convenzione di Ginevra?

Gli Stati Uniti e i paesi dell’Unione Europea forniscono armi e aiuti militari per le aggressioni israeliane. Gli aiuti militari fanno parte delle azioni di politica estera intraprese da questi governi, esattamente come gli “aiuti umanitari”.

Un esempio lampante è costituito dalla decisione presa il 1 agosto del 2014 dal Congresso Statunitense, che destinava altri 225 milioni di dollari al sistema di protezione Iron Dome, a soli due giorni dal sesto attacco contro le strutture dell’ONU da parte di Israele (nella fattispecie, il bombardamento del rifugio nel campo profughi di Jabaliya), che gli alti funzionari ONU avevano definito una “grave violazione del diritto internazionale”.

Pur ammettendo che gli aiuti fossero destinati solo a scopi difensivi, erogando sovvenzioni che favoriscono le violazioni, si contravviene al diritto interno e internazionale. Il Presidente degli Stati Uniti Barak Obama, esperto di diritto costituzionale, deve averlo considerato, visto che, dopo poco tempo, ha ritardato la consegna di un missile promesso a Israele.

Un altro esempio è costituito dall’esportazione di armi o di componenti di armi dagli stati membri dell’UE a Israele, alcune delle quali sono state usate durante il conflitto a Gaza nel dicembre 2008 e nel gennaio 2009 e che probabilmente sono state impiegate per commettere crimini di guerra e crimini contro l’umanità. In effetti, nonostante le obiezioni poste dalla Gran Bretagna in merito al modo in cui Israele condusse quell’attacco, la vendita di armi dal Regno Unito a Israele ha registrato un incremento, in violazione del diritto dell’Unione Europea; allo stesso modo, Israele ha presumibilmente ricevuto aiuti militari anche durante l’attacco del 2014 ai danni di Gaza.

Oltre all’obbligo di garantire il rispetto dei diritti dei palestinesi, gli stati hanno anche quello di assicurare che le armi e le munizioni che essi vendono non vengano impiegate per commettere violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, come previsto dall’Articolo Comune 1 della Quarta Convenzione di Ginevra, che obbliga le Alti Parti contraenti a rispettare e a far rispettare le norme internazionali e i principi del  Trattato sul commercio delle armi, recentemente approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

  1. L’adozione da parte dei donatori di politiche antiterrorismo discriminatorie a livello nazionale costituisce una violazione del principio umanitario di imparzialità?

L’attuazione di cattive politiche antiterrorismo che prevedono azioni discriminatorie verso i partner e i beneficiari, esclusivamente sulla base di presunte affiliazioni politiche, sembra in palese contrasto con il principio umanitario di imparzialità. Si può, di conseguenza, ritenere che i donatori o le ONG internazionali che favoriscono o che non si oppongono a queste politiche, violino il loro mandato umanitario; molte norme antiterrorismo mancano di una logica solida, e questo lascia spazio all’interpretazione arbitraria e all’abuso.

Come evidenziato dalle conclusioni del Tribunale Russell, è del tutto illogico che l’UE sospenda le relazioni con Hamas mentre continua a intrattenere rapporti con Israele, stato che viola il diritto internazionale in modo ben più esplicito. (cfr Articolo 27).

Inoltre, delle ricerche condotte a Gaza hanno evidenziato che, soprattutto a causa delle politiche antiterrorismo, l’intervento della comunità internazionale ha alimentato la spaccatura tra Fatah e Hamas, determinando una maggiore corruzione, militarizzazione e una diminuzione della responsabilità.

  1. Gli aiuti erogati all’ANP contribuiscono alla negazione dei diritti ai danni della popolazione palestinese?

Gli esperti di diritti umani sono concordi nell’affermare che gli Accordi di Oslo e il Protocollo di Parigi hanno contribuito notevolmente al peggioramento dei diritti dei palestinesi, per una duplice ragione: in primis, perché hanno legalizzato le restrizioni che gravano sulla popolazione e in secondo luogo per la tipologia di aiuti che ne deriva, incentrata sul concetto di compromesso politico.

La comunità internazionale è spesso concorde nell’affermare che non può sostenere i diritti dei palestinesi in modo più deciso rispetto alla stessa Autorità Palestinese. Questo potrebbe essere vero nel caso in cui l’ANP fosse indipendente da qualsivoglia influenza esterna; in realtà, però, la sua stessa esistenza dipende dagli aiuti internazionali. La situazione che ne consegue è irragionevole: l’ANP riceve aiuti dalla comunità internazionale, ma poi viene usata dai donatori come scusa per essere sollevati dall’obbligo di garantire il rispetto dei diritti del popolo palestinese.

In effetti, secondo gli Articoli 7 e 8 della Quarta Convenzione di Ginevra, gli accordi internazionali non devono pregiudicare le protezioni garantite dalle norme internazionali sui diritti umani. Inoltre, poiché l’ANP limita costantemente i diritti dei palestinesi in virtù del suo ruolo di mediatore con la potenza occupante, viene a crearsi la situazione per cui gli aiuti internazionali erogati all’ANP, che dovrebbero rappresentare una risposta ai bisogni della popolazione, in realtà contribuiscono alle violazioni israeliane della Quarta Convenzione di Ginevra.

  1. Le politiche in materia di appalti, che consentono a Israele di trarre vantaggio dai soprusi ai danni dei Palestinesi, possono incoraggiare ulteriori violazioni?

Gli attacchi israeliani costituiscono un vantaggio per Israele. Le politiche in materia di appalti, che consentono a Israele e alle ditte israeliane di fare profitto, anche a quelle che si sono macchiate di infrazioni alle norme internazionali sui diritti umani, in realtà incoraggiano ulteriori violazioni.

Ad esempio, nel maggio 2012, sembra che il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia avesse accettato di ricevere un’offerta da parte di una ditta israeliana per i lavori su un impianto di dissalazione a Gaza, scatenando la minaccia di boicottaggio da parte dell’Unione Palestinese degli Imprenditori. Inoltre, nel gennaio del 2014, l’UNDP ha siglato un contratto da 5,1 milioni di dollari con la Mifram, ditta israeliana che costruisce i check-point per l’esercito israeliano.

Secondo le conclusioni del Tribunale Russell sulla Palestina, le violazioni alle norme internazionali sui diritti umani, comprese quelle di cui si è macchiato Israele durante l’attacco del 2008-2008 a Gaza, la costruzione di insediamenti illegali e del Muro, costituiscono crimini di guerra e/o crimini contro l’umanità.

Peraltro, il Tribunale Russell ha sottolineato che tali crimini sono stati commessi con armi, materiali, attrezzature e servizi forniti da compagnie come la Elbit Systems, la Caterpillar, e la Cement Roadstone Holdings. Queste imprese possono essere considerate “ree di complicità nei crimini e nelle violazioni del diritto internazionale”.

Invece di assumersi la responsabilità di fronte al diritto internazionale, molti donatori hanno preso pubblicamente le distanze dal movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. Alcuni hanno minacciato più o meno direttamente delle ONG palestinesi, colpevoli di aver promosso il BDS.

  1. L’inosservanza dei principi umanitari da parte della comunità internazionale lancia il messaggio secondo cui i palestinesi non hanno diritti e gli israeliani non hanno doveri? 

Esistono varie tipologie di indennità di guerra, come l’istituzione di una commissione, il congelamento dei beni o il pignoramento dei proventi, ma nessuna di queste è stata applicata in seguito alle violazioni israeliane ai danni dei palestinesi.

Le fonti di diritto internazionale che obbligano l’autore del danno a sostenere e assistere le vittime sono elencate in una recente pubblicazione della Clinica Internazionale dei Diritti dell’Uomo dell’Università di Harvard e comprendono: Principi di Base e linee guida della giustizia per le vittime, lo Statuto di Roma, i Principi in caso di danni transfrontalieri, i Principi e le linee guida non vincolanti sul diritto alla riparazione per le vittime di crimini internazionali e di violazioni delle norme internazionali sui diritti umani, adottati dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005.

Le conclusioni più recenti in merito alle riparazioni, che fanno capo direttamente alle violazioni israeliane ai danni dei Palestinesi, riguardano il muro illegale: la Corte Internazionale di Giustizia ha infatti stabilito che tutte le persone fisiche e giuridiche che hanno ricevuto un danno hanno diritto a ricevere un’indennità. Giacché si trattava di un parere consultivo non vincolante, una successiva risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (A/ES-10/294, 13 gennaio 2005) chiedeva a Israele di conformarsi con il parere consultivo e istituiva un registro dei danni correlati al Muro, per eventuali future richieste di risarcimento.

Dopo l’aggressione del 2008-2009 ai danni di Gaza, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha deliberato che Israele dovrebbe versare un’indennità per i danni subiti dai palestinesi, ma, anche in questo caso, il tutto si è risolto in un nulla di fatto.

Solo in un caso, la comunità internazionale ha chiesto a Israele il pagamento delle riparazioni per i danni causati durante il conflitto del 2008-2009 a Gaza. La richiesta di risarcimento non è stata avanzata dalle vittime palestinesi, bensì dall’ONU, per i danni subiti dalle sue strutture. In questa occasione, Israele ha effettivamente pagato.

Non si può sostenere che gli aiuti internazionali equivalgano a una forma di riparazione. Prima di tutto, perché i beneficiari percepiscono la distribuzione dei beni effettuata nell’ambito dei programmi di sviluppo come un diritto di cui godono in quanto cittadini e non in quanto vittime. Inoltre, gli esperti di giustizia di transizione sostengono che le indennità sono “fondamentali in ogni processo di riconciliazione e giustizia” e sono efficaci solo quando l’autore paga per il danno commesso. In ogni caso, la responsabilità di Israele non viene cancellata dagli aiuti internazionali ricevuti dai Palestinesi.

Oltre alle richieste di risarcimento avanzate dai Palestinesi contro Israele, che i donatori internazionali dovrebbero sostenere, le cattive pratiche adottate dalle organizzazioni internazionali potrebbero, già di per sé, costituire una base per le legittime rivendicazioni dei palestinesi, se entrassero in vigore i progetti di articolo sulla Responsabilità delle Organizzazioni Internazionali (A/66/10, para. 87).

Un impulso per contrastare la complicità

In virtù dei principi umanitari e delle norme codificate sullo sviluppo , l’assistenza non dovrebbe esporre i beneficiari a ulteriori danni. Indipendentemente dal fatto che venga riconosciuta l’effettiva responsabilità dei donatori internazionali nell’atto di sostenere e favorire l’aggressore, esistono prove circostanziate del fatto che le pratiche attualmente in uso nei TPO sono nocive.

Purtroppo, la comunità internazionale dei donatori non ha mai fatto un’efficace autocritica e non ha accolto favorevolmente gli appunti dei palestinesi per migliorare i risultati delle pratiche umanitarie e di sviluppo.

La società civile palestinese e i movimenti di solidarietà internazionale dovrebbero cercare nuovi e innovativi meccanismi di attribuzione della responsabilità, per far sì che gli attori internazionali rispondano dinanzi all’ordinamento vigente. Questi meccanismi devono interessare tutte le tipologie di erogatori di aiuti: donatori governativi e non, agenzie multilaterali, ONG palestinesi e internazionali, imprese private, partiti e movimenti politici.

È altresì fondamentale comprendere le opportunità e i limiti dei meccanismi tradizionali. Ad esempio, è improbabile che le corti possano rappresentare una soluzione, visti i complessi limiti di giurisdizione e la disparità di sviluppo tra diritto nazionale e internazionale. Altre tipologie di meccanismi di attribuzione della responsabilità possono offrire soluzioni più veloci e dirette: commissioni per la verità, movimenti per la richiesta di indennità, inchieste pubbliche, dibattimenti in seno alla società civile, oltre che il Tribunale Russell sulla Palestina.

Il movimento BDS ha compiuto significativi passi in avanti nell’intento di giudicare responsabili le imprese coinvolte nelle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, come il ruolo di Veolia nel progetto della metropolitana leggera a Gerusalemme. Sarebbe utile esercitare lo stesso grado di pressione dell’opinione pubblica sui donatori che contribuiscono al perpetuarsi delle violazioni ai danni dei palestinesi.

La società civile internazionale e quella palestinese potrebbero anche collaborare con le organizzazioni internazionali per capire meglio come i codici, le norme e la legislazione attualmente in vigore possano essere applicati in un contesto di prolungata occupazione militare. In particolare, si dovrebbero elaborare domande (e linee guida) per risolvere queste annose questioni.

Dopo quanto tempo dall’inizio di una “risposta umanitaria” si può sostenere che lo stato di “emergenza” viene evocato solo per evitare di risolvere le cause alla radice? Qual è la linea di confine tra il legittimo controllo effettuato da una potenza occupante sugli aiuti umanitari, e gli ostacoli posti agli stessi in violazione del diritto internazionale?

Esiste un tetto massimo per gli introiti ottenuti dai donatori internazionali per conto dei Palestinesi, alla luce del fatto che le organizzazioni locali non sono in grado di competere per l’acquisizione di fondi e in tal modo la sostenibilità locale a lungo termine risulta compromessa?

Una cosa è certa: la teoria del cambiamento che ha ispirato la riforma globale del sistema di aiuti si è rivelata infondata. Così come Israele, i donatori internazionali non modificheranno le loro politiche solo sulla base del diritto o di principi morali. Servono meccanismi di pressione per compensare le disparità affinché, in ultima istanza, i donatori internazionali “non possano fare a meno” di agire correttamente.

Pubblicato su Al-Shabaka’s website il 24 ottobre 2014.

 

Traduzione di Romana Rubeo