Area C: si rischia spostamento di villaggi per mancanza d’acqua

Zionist entity steals Palestinian water but still needs more from AfricaMasafer Yatta – Ma’an. Di  Charlie Hoyle“La vita è dura, ma non lascerò il villaggio”, dice Zahira al-Jundi, nonostante la pioggia invernale abbia dipinto delle chiazze verdi sulle colline meridionali di Hebron, i 145 residenti di Tuba affrontano una lotta quotidiana per accedere alla quantità di acqua necessaria alla sopravvivenza. Come il 70% delle comunità palestinesi nell’Area C, Tuba non è collegata alla rete idraulica.

E’ veramente un sollievo per gli abitanti vedere le cisterne di acqua, che settimanalmente affrontano il terreno roccioso del colore della sabbia, ma è solo una misura temporanea per limitare l’impatto umanitario di una seria mancanza di acqua.

Situato in 30 mila dunams di terra e definite da Israele come una zona militare chiusa, o Firing Zone 918, l’Amministrazione Civile Israeliana proibisce qualsiasi costruzione a Tuba. Gli abitanti del villaggio vivono in caverne e tende, dipendendo interamante dalla cisterne e dall’acqua immagazzinata nei serbatoi per le necessità quotidiane.

“Queste comunità vivono in condizioni simili a quelle di una situazione post disastro, come un terremoto o uno tsunami”, spiega a Ma’an Alex Abu Ata, Ufficiale della Task Force per la Difesa di EWASH.

“Le persone colpite da disastri naturali sono costrette a vivere in tende e ad avere accesso limititato all’acqua al cibo. Sostanzialmente hanno solo ciò che è fornito loro tramite gli aiuti”.
Le ONG internazionali implementano progetti umanitari sulle colline Hebron meridionali, ma non possono ottenere l’autorizzazione di Israele a costruire infrastrutture idriche per il lungo termine. “Possono solo posticipare il problema, senza nemmeno risolverlo”, dice Abu Ata.

Tra il 2009 e il 2011, in Cisgiordania, l’esercito israeliano ha distrutto 173 strutture idriche ed igienico-sanitarie, 40 pozzi, 57 cisterne di raccolta dell’acqua piovana e almeno 20 gabinetti e lavandini, afferma l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA).

Nel 2012, dozzine di agenzie umanitarie inernazionali hanno presentato un appello collettivo ad Israele perché cessi “la distruzione mirata e continua” delle cisterne nell’Area C, definendo le demolizione come una “chiara violazione” del diritto umanitario internazionale.

“Se le comunità dell’Area C fossero autorizzate a sviluppare delle reali infrastrutture, a quest’ora avrebbero l’acqua, come tutti gli insediamenti israeliani vicini”, afferma Abu Ata.

La società dell’acqua israeliana, Mekorot, ha posizionato tubature sulle colline Hebron meridionali, per rifornire gli insediamenti, gli avamposti e le industrie agricole, ma i villaggi palestinesi, ad eccezione di al-Tuwani, non sono stati autorizzati a collegarsi alla rete.

“La politica di Israele in Cisgiordania è quella di fare pressione sulle comunità dell’Area C per costringerle ad andarsene. La demolizione delle infrastrutture idriche è uno dei mezzi di disturbo. Israele fa pressione sulle comunità vulnerabili, le comunità più povere in uno sforzo per dislocarle”, racconta Abu Ata.

La differenza tra il consumo di acqua tra i Palestinesi e i coloni Israeliani in Cisgiordania è molto grande. EWASH stima che circa 9400 coloni Israeliani nella Valle del Giordano godono della stessa quantità d’acqua disponibile ad un terzo dell’intera popolazione di 2,5 milioni di Palestinesi.

Gli Israeliani, compresi i coloni, hanno accesso 300 litri di acqua al giorno, secondo EWASH, mentre in Cisgiordania la media è di circa 70 litri, al di sotto del minimo di 100 litri raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per condizioni di sanità, igiene ed idratazione basilari. Nelle colline Hebron meridionali, la media del consumo di acqua varia dai 10 ai 69 litri al giorno, avvicinandosi ai livelli dell’Africa sub-sahariana o Haiti.

A circa 10 km sud-ovest da Tuba, il villaggio di Imneizil affronta sfide simili per accedere all’acqua necessaria alla sopravvivenza.
Molte delle 14 cisterne di acqua, costruite dalle ONG internazionali, hanno ricevuto ordine di demolizione, mentre la scuola del villaggio ha ricevuto ordine di fermare i lavori a gennaio 2012.

I pannelli solari, che forniscono l’energia necessaria per far funzionare le pompe delle cisterne d’acqua, hanno ricevuto ordine di essere demoliti e un’unità sanitaria per ragazzi ha ricevuto quello di fermare i lavori nel 2012, mettendo pressione sulla comunità di 500 persone.

“Il nostro lavoro è veramente limitato, e lo facciamo con una visibilità ridotta poiché altrimenti non otterremmo il permesso da Israele”, racconta a Ma’an l’ingegnere idrico palestinese Fadi Shamisti.
A Imneizil, il punto più vicino per il rifornimento dell’acqua dista 12 km, afferma Shamisti, ciò significa che se le cisterne del villaggio fossero demolite, i residenti dovrebbero sopportare un enorme peso, fisico e finanziario, per avere accesso all’acqua sufficiente alla loro comunità.
“L’acqua è un bene essenziale per la gente, e perciò diventa uno strumento di pressione per evacuare l’area dalla sua popolazione, e per creare difficoltà economiche”, aggiunge Shamisti.

Mentre l’acqua delle autobotti costa dagli 8 ai $12 per metro cubo, l’acqua raccolta durante l’inverno dura raramente più di qualche mese, perciò nel caso in cui vengano eseguiti gli ordini di demolizione delle infrastrutture idriche, la comunità sarà costretta a trasferirsi.

“La soluzione è semplice”, dice Shamisti. “Un insediamento israeliano dista solo un chilometro da entrambe le comunità, Tuba e Imneizil, al momento impossibilitate a collegarsi alla rete idrica”.

Fadwa Baroud, un dirigente addetto alla comunicazione della Commissione Europea, ha dichiarato a Ma’an che le comunità dell’Area C sono a rischio di “trasferimento forzato”, dovuto alla difficoltà ad ottenere permessi da Israele per lo sviluppo di infrastrutture idriche.
Con i progetti umanitari internazionali in via di demolizione e con le politiche idriche di Israele nell’Area C, chiaramente mirata ad escludere le comunità palestinesi, gli abitanti conoscono bene la loro vulnerabilità.
“Qualunque cosa cercheranno di fare, noi staremo qui. Questa è la nostra terra”, afferma un residente di Tuba, Ibrahim al-Jundi. “Questo è il luogo dove siamo stati cresciuti, non abbiamo altro posto dove andare”.

Traduzione per InfoPal a cura di Cinzia Trivini Bellini