Assedio alla basilica della Natività: dopo 10 anni, i deportati sono ancora lontani da casa

  Di Jenny Baboun
Betlemme – Ma’an. Dieci anni dopo che Israele esiliò 39 palestinesi che si erano rifugiati nella Basilica della Natività di Betlemme, questi deportati affermano di essere stati dimenticati dai leader palestinesi.
Il 10 maggio 2002, le forze israeliane posero fine a 39 giorni di assedio alla Basilica, dopo aver concluso un accordo con i leader palestinesi per esiliare a Gaza e in Europa le 39 persone rifugiatesi nel santuario.
Quando i carri armati israeliani circondarono Betlemme, il 2 aprile 2002, circa 220 residenti — compresi circa 40 tra preti e suore – trovarono riparo nella basilica. Nei successivi 39 giorni, otto palestinesi furono uccisi dentro la chiesa e 27 altri feriti.
L’assedio nel sito ritenuto il luogo di nascita di Gesù suscitò sdegno in Vaticano, mentre i monaci che si erano rifugiati all’interno chiedevano l’aiuto internazionale.
L’ex governatore di Betlemme, Salah Tamari, guidò la squadra di negoziatori per porre fine all’assedio. Alla Tv Ma’an ha raccontato che l’accordo di deportazione fu raggiunto a sua insaputa.
Egli ha ricordato lo shock quando i dirigenti israeliani gli dissero che i palestinesi sarebbero stati esiliati, e ha aggiunto che egli chiamò l’ufficio del presidente Yasser Arafat per dare le dimissioni da capo-negoziatore.
I dirigenti israeliani avevano chiesto la lista dei nomi di coloro che si trovavano nella chiesa, ha spiegato  Tamari.
“Sin dal primo momento, ci rifiutammo di dare i nomi. Dicemmo (agli israeliani): se avete dei ricercati, comunicateci i nomi, e controlleremo se le loro imputazioni violano le leggi palestinesi, e in quel caso li riterremo responsabili”.
Rafat Obayyat era uno dei 27 palestinesi feriti dagli attacchi israeliani contro la Basilica. E’ su una sedia a rotelle a seguito di quelle ferite.
Ha raccontato a Ma’an che la grotta era il luogo più sicuro nella chiesa, durante l’assedio. Il cibo era scarso e le piccole razioni di pasta erano divise tra tutti.
Dopo dieci anni di esilio, i deportati affermano di essere stati abbandonati dall’Autorità palestinese e da tutte le fazioni politiche. A loro non è stato concesso di far ritorno alle loro famiglie in Cisgiordania.
I deportati avevano programmato di manifestare, giovedì 10 maggio, ma hanno cancellato la protesta per stare a fianco dello sciopero della fame dei prigionieri. E’ quanto ha fatto sapere il portavoce del gruppo, Fahmi Kanan, durante una conferenza stampa svoltasi lunedì.
I deportati faranno tre giorni di sciopero della fame in solidarietà con i detenuti rinchiusi nelle carceri israeliane, ha aggiunto Kanan.
‘Un pericoloso precedente’
L’ex detenuto e ricercatore, Abdul Nasser Farwaneh, ha affermato che l’accordo di deportazione fu una chiara violazione delle leggi internazionali e del diritto umanitario.
L’accettazione dell’accordo sull’esilio, da parte della dirigenza palestinese, rappresentò un precedente pericoloso: nel corso del decennio, Israele ha deportato centinaia di altri palestinesi, ha sottolineato Farwaneh in un comunicato.
Egli ha sollecitato la comunità internazionale a inviare una commissione di inchiesta sull’assedio israeliano a uno dei luoghi più sacri del mondo.
Ha anche chiesto sforzi maggiori per riportare a casa i deportati, e ha aggiunto che il fallimento in corso in tal senso, riflette “l’indifferenza palestinese su questo argomento”.