“Avevamo troppa paura di stare sulla nostra terra”

Gaza – PchrDal 2007 le autorità israeliane hanno unilateralmente e illegalmente istituito una “zona cuscinetto” lungo il confine, che ufficialmente si estende per 300 metri all’interno della Striscia di Gaza. Tuttavia, in realtà essa si estende fino a 1500 metri dalla recinzione, e viene fatta rispettare con l’uso della forza letale. Quest’area comprende circa il 35% dei terreni agricoli della Striscia di Gaza, e vi si può accedere a proprio rischio e pericolo, in quanto gli attacchi israeliani possono provocare morti o feriti tra i civili. Questo lede gravemente le capacità di sussistenza degli agricoltori che lavorano nella zona di frontiera.
Dopo il cessate il fuoco del 21 novembre 2012 è stato riferito che alla popolazione di Gaza sarebbe stato permesso nuovamente l’accesso all’area lungo la frontiera. Ma gli attacchi ai civili sono continuati. Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco 4 civili palestinesi sono stati uccisi e altri 67, dei quali 14 bambini, sono stati feriti. I gazawi sono riluttanti a investire tempo e denaro nella loro terra, rischiando di vedere il proprio lavoro distrutto ancora una volta, e, soprattutto, di essere attaccati dalle Forze israeliane.
Ahmed Sa’id Khamis Hamdona, 32 anni, ha affittato con altri familiari, dal 2005, 30 ettari di terreno agricolo a Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza, a soli 200 metri dal confine. Egli ci spiega come la sua famiglia abbia dovuto affrontare molte sfide nel tentativo di lavorare la terra: “A causa delle molte restrizioni l’agricoltura sulla mia terra è troppo difficile. Abbiamo problemi legati all’accesso al terreno e a cosa poter coltivare. Possiamo seminare solo fragole e patate, non ci è permesso piantare ulivi o limoni, perché troppo folti, e le Forze israeliane vogliono che la terra sia sgombra per poter vedere cosa stiamo facendo. Abbiamo provato a piantare angurie, ma la piantagione ci è stata distrutta a colpi di arma da fuoco”.
Ahmed e la sua famiglia producono fragole di qualità da esportazione, ma è loro quasi impossibile accedere al mercato straniero, ci spiega Ahmed: “L’associazione di produttori di fragole cerca di far passare il confine ai nostri prodotti, per poterli esportare. Facciamo in modo di curare al meglio le piantagioni di fragole, per ottenere un raccolto di qualità che possa soddisfare l’export. Tuttavia, dal 2009 nessuna delle nostre fragole è stata esportata. Di volta in volta il numero di carichi consentiti per l’esportazione o viene ridotto o semplicemente annullato, e noi non riusciamo a raggiungere i mercati oltre confine. Potrei guadagnarci 15-20 Nis al chilo, esportando le fragole. Ma dovendo venderle a Gaza ne ricavo solo 4 al chilo. Ciò significa rimetterci, in quanto solo per l’affitto annuale del terreno dobbiamo pagare 50 mila Nis”. L’esportazione di fragole da Gaza è drammaticamente calata dal 2007: precedentemente al blocco si esportavano 1500 tonnellate di fragole all’anno. Nel 2012 l’esportazione è calata a sole 357 tonnellate.
Questa riduzione del reddito ha avuto effetti negativi sulla vita di Ahmed e della sua famiglia,e, cosa ancora più grave, il terreno è stato ripetutamente attaccato dalle Forze israeliane: “A causa della guerra nel novembre scorso abbiamo subito molte perdite; il nostro terreno è stato bombardato, e i raccolti danneggiati gravemente. Ci è costato tempo e denaro rendere la terra nuovamente lavorabile. Abbiamo dovuto seminare nuovamente, in quanto tutte le fragole e le patate che avevamo piantato poco prima sono andate distrutte. Già dopo la guerra del 2009 le Forze israeliane non ci permisero di lavorare il terreno nel pomeriggio, sparando a chiunque cercasse di accedere ai terreni. In certi giorni si poteva lavorare solo 2 ore, avevamo troppa paura di stare sui campi più a lungo: temevamo di essere il prossimo bersaglio. Ne risultò un calo considerevole dell’intero processo agricolo e solo molto tempo dopo siamo riusciti a reinserirci nel mercato. Producevamo 20 tonnellate di fragole all’anno, ma dal 2009 non ne produciamo che 3 tonnellate. Ciononostante Ahmed spera in un futuro migliore: “Nutro ancora delle speranze: dalla fine della violenza del novembre scorso siamo riusciti a lavorare sulla nostra terra più a lungo, sebbene non oltre il pomeriggio. Eppure, non so quanto ci vorrà per sbarazzarci di tutti i problemi. Spero che il blocco finisca e che ritorni la pace. Vogliamo solo poter lavorare in sicurezza”.
Gli attacchi ad Ahmed, alla sua famiglia e alla terra che è la loro fonte di sostentamento fanno parte di uno schema più ampio di aggressioni effettuate dalle Forze israeliane, posizionate ai confini tra la Striscia di Gaza e Israele. Il blocco della Striscia di Gaza, attuato da Israele come forma di “guerra economica” costituisce una punizione collettiva, ed è esplicitamente vietata dall’articolo 33 della Quarta convenzione di Ginevra. Anche il regime di chiusura viola una serie di disposizioni del diritto internazionale, tra cui l’obbligo, ai sensi dell’articolo 43 del Regolamento dell’Aia, del mantenimento delle condizioni materiali nelle quali vive la popolazione sotto occupazione. Inoltre, la negazione della libertà di movimento agli agricoltori, che si traduce nella mancanza di accesso alla loro fonte di sostentamento, viola il diritto di questi lavoratori all’alimentazione, oltre a una serie di diritti garantiti dal Patto sui diritti economici, sociali e culturali, in particolar modo dagli articoli 6 e 7. La povertà della Striscia di Gaza e il bisogno di aiuti internazionali della sua popolazione dimostrano chiaramente che la politica di Israele viola anche gli obblighi che gli derivano dalle leggi internazionali sui diritti umani, atte a garantire la progressiva realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali nella Striscia di Gaza.
Traduzione per InfoPal a cura di Stefano Di Felice