Campagna egiziana di BDS contro Israele

Il Cairo. Una voce fa tremare le pareti: «Palestina Libera, boicotta Israele!» «Palestina Libera, boicotta Israele!», le fa eco gran parte del pubblico, nella sala conferenze, gremita, della sede del sindacato dei giornalisti egiziani, al Cairo. Qui, oggi, lunedì 20 aprile, si inaugura la campagna egiziana di Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni (BDS) contro Israele. Agli interventi si alternano canti, poesie accompagnate da strumenti tradizionali e cori di protesta, questi ultimi scanditi da Haitham, attivista dei Socialisti Rivoluzionari e “urlatore” di punta durante le manifestazioni di Piazza Tahrir.

Più tardi, sulla terrazza di un albergo, davanti a una birra Stella, Haitham confessa che era da più di due anni che non perdeva la voce in questo modo. Come i suoi compagni, sembra molto soddisfatto dell’incontro di oggi, a cui hanno partecipato più di 300 persone. Divisi su molte questioni, i promotori dell’iniziativa sono riusciti finora a raggiungere un’intesa sulla solidarietà con il popolo palestinese e la determinazione a combattere lo stato sionista con gli stessi mezzi “di resistenza civile e nonviolenta che negli anni ’90 hanno portato alla fine del regime di apartheid in Sudafrica”, sottolineano i loro comunicati.

I sostenitori della campagna provengono da tutte le forze di opposizione del paese: dai liberali ai socialdemocratici, dai comunisti ai fuoriusciti dai Fratelli Musulmani, dall’ordine dei medici ai sindacati operai e studenteschi, fino ad artisti e personaggi pubblici come Bassem Youssef, popolare comico epurato dalla TV poco dopo la deposizione di Morsi. L’ultimo dialogo tra queste forze politiche risale a più di due anni fa, prima del governo di Al-Sisi.

La campagna, sperano gli attivisti, non sarà limitata soltanto al Cairo, ma si diffonderà in tutte le province del paese, attraverso iniziative di informazione capillare che cominceranno soprattutto a partire dalla vasta rete organizzativa delle unioni degli studenti universitari. Un grande ruolo potrebbe essere anche quello del movimento operaio. Non a caso, ci racconta Haitham, le prime città a cui punta la campagna sono cinque tra i maggiori centri industriali dell’Egitto: Suez, Ismailiya, Port Said, Damietta, Alessandria.

La storica solidarietà degli operai egiziani verso la causa palestinese si è manifestata anche recentemente, per esempio nel 2008, quando i lavoratori di un’industria di fertilizzanti hanno scioperato in massa dopo aver saputo che alcuni componenti della loro produzione venivano esportati in Israele e usati per realizzare bombe al fosforo. «Inoltre», continua Haitham, «queste sono città portuali, dove alcune grandi compagnie Israeliane attraccano quotidianamente le loro navi cargo che esportano spesso prodotti israeliani. Allo stesso tempo sono città in cui la mobilitazione operaia è ancora molto alta e questo ci aiuterà nella campagna».

Anche il sindacato dei lavoratori della Egypt Gas Company ha aderito: tra i primi bersagli dell’iniziativa, infatti, potrebbe esserci l’accordo sull’acquisto di gas naturale firmato dall’Egitto con Israele, citato più volte negli interventi durante la conferenza. Giustificato da ragioni di sicurezza energetica dopo anni di penuria che hanno messo in ginocchio l’industria egiziana, l’accordo sancisce di fatto un profondo legame di dipendenza tra il regime militare egiziano e lo stato di Israele.

La campagna punta anche a colpire Mobinil, la prima compagnia di telecomunicazioni in Egitto,   posseduta al 100% dal colosso francese Orange, che gestisce le telecomunicazioni nelle colonie israeliane in Cisgiordania.

In generale, soprattutto nelle fasi iniziali, secondo Tarek, dell’ordine dei medici, «sarà importante lo studio approfondito delle imprese, nazionali o multinazionali, che operano in Egitto, e dei loro legami diretti con l’occupazione israeliana».

Il movimento BDS, lanciato nel 2005 da centinaia di organizzazioni della società civile palestinese, ha raccolto sempre più consensi in tutto il mondo, fra organizzazioni, corpi accademici e personalità pubbliche. L’anno scorso, secondo quanto riportato dal sito della campagna, la multinazionale francese Veolia avrebbe perso più di quattro miliardi di dollari dopo una massiccia campagna d’informazione sulla fornitura d’infrastrutture alle colonie illegali. Inoltre, il fondo pensione olandese PGGM ha annunciato il ritiro di decine di milioni di euro da cinque  banche israeliane a causa delle loro implicazioni nei crimini di Israele. Questi sono solo alcuni dei più eclatanti tra i risultati del BDS. Persino l’allora ministro della giustizia israeliano Tzipi Livni ha dichiarato, l’anno scorso, che: «Il boicottaggio si diffonde e si espande in maniera uniforme ed esponenziale», secondo quanto riportato dal sito d’informazione israeliano Ynet.

Paradossalmente, però, il movimento si è radicato più in Europa e negli Stati Uniti che nel mondo arabo, dove la causa palestinese raccoglie da sempre un vastissimo consenso popolare. L’Egitto è il quarto paese arabo, dopo Libano, Marocco e Giordania, a dar vita ad una campagna di questo tipo.

Secondo Hatem Tallima, docente universitario di chimica, e membro dell’ufficio politico dei Socialisti Rivoluzionari, il ritardo dei paesi arabi, e in particolare dell’Egitto, è dovuto, in parte, a una minore libertà di espressione, in parte ai problemi di politica interna che hanno costretto molti attivisti a lasciare in secondo piano la solidarietà internazionale.

L’Egitto è da decenni il massimo garante degli interessi strategici di Israele e Stati Uniti nella regione, ma il regime attuale si sta rivelando il più anti-palestinese di sempre. Al-Sisi ha promosso una massiccia propaganda anti-Hamas, considerata vicina ai Fratelli Musulmani, nemico numero uno del regime. Nel Sinai è in atto da quasi due anni una campagna militare contro i tunnel sotterranei che rifornivano Gaza dall’Egitto, sigillando l’unico confine della striscia non controllato da Israele, sotto il pretesto che il movimento palestinese sia dietro l’ascesa dei gruppi jihadisti del Sinai che stanno mettendo a dura prova le forze armate e di sicurezza egiziane.

«Alcuni egiziani» ci spiega Hatem, «hanno assorbito questo discorso, e […] ci sono state anche aggressioni contro rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria. Il regime e la maggior parte dei media dipingono oggi i palestinesi come una della cause del disordine in Egitto, rappresentandoli come i nemici, senza spendere una parola sui crimini sionisti. Questa campagna serve anche a ricordare agli egiziani che il vero nemico non sono gli yemeniti [in polemica con la campagna militare avviata in Yemen dall’esercito egiziano, ndr] o i palestinesi, ma lo stato di Israele in quanto espressione dell’imperialismo nella regione, al pari dell’Arabia Saudita nel Golfo».

Anche se,  come sottolineato dal professor Atef Said dell’Università dell’Illinois, il movimento egiziano di solidarietà pro-Palestina rischia di restare impantanato tra gli schemi ideologici delle forze partecipanti, gli attivisti confidano nel coinvolgimento di soggetti nuovi ed estranei alla vecchia politica.

La stragrande maggioranza degli egiziani sostiene, almeno a parole, la causa palestinese, che già in passato è servita a catalizzare il dissenso interno verso il potere e mettere insieme varie forze di opposizione.  Negli anni 2000 ad esempio, il Comitato Popolare di Solidarietà con l’Intifada Palestinese ha rappresentato un’opportunità di aggregazione del variegato mondo della società civile, laica e religiosa, liberale e di sinistra, contraria al regime di Mubarak.

In questa coalizione ampia, anche se poco strutturata, si aprì per la prima volta un dialogo tra forze politiche molto diverse tra loro. Le stesse, quattro anni dopo, diedero vita al movimento di “Kifaya!” (“Basta!”), attivo contro la corruzione e le violazioni dei diritti umani che dilagavano sotto il governo di Mubarak. Sebbene limitato a una ristretta cerchia di attivisti, il movimento fu il primo a dichiararsi apertamente anti-Mubarak, iniziando a diffondere una cultura della protesta decisamente inedita per quegli anni e inaugurando quella stagione di fermento sociale e politico culminata nella rivolta del 2011 che ha deposto il raìs.

«La causa palestinese ci dà una strada da seguire per metterci insieme e poi rivolgerci verso il fronte interno. Kifaya fu il prodotto del Comitato per l’Intifada, in un processo simile a quello iniziato oggi. E noi ci aspettiamo che il BDS Egitto possa essere oggi il fulcro di un fronte egiziano per un movimento democratico», spiega Hatem: «Abbiamo una severissima legge sulle proteste di piazza, e uno spazio politico molto chiuso. Ma abbiamo fatto una scommessa, puntando a una causa che è molto difficile da reprimere per il regime. Non puoi arrestare un attivista perché sta dicendo di boicottare Israele. Ci proveranno. Perché odiano l’aggregazione di forze che ha partecipato alla conferenza. Ma qualunque forma di repressione colpirà il movimento costituirà una fonte di imbarazzo per il regime».

(F.d.L. e G.B. F.)