Caso rifugiati palestinesi in Calabria: ‘Una triste storia di menzogne e meschinità’

Di Angela Lano, da Reggio Calabria. “Pure del mafioso mi sono beccato…”. Domenico Lucano, sindaco di Riace e storico attivista calabrese per i diritti degli immigrati, si porta le mani alla faccia, quasi volesse contenere incredulità e indignazione.

Sì, a Riace e Caulonia, la gente è indignata, e con un gruppo particolare: i rifugiati palestinesi provenienti dal campo profughi di at-Tanf, tra Siria e Iraq, e ospitati in questi due paesini dal dicembre del 2009 al maggio del 2011, su richiesta dell’Unchr e decisione del nostro ministero degli Interni, e fuggiti in Svezia prima della fine del progetto di accoglienza.

Sindaci, operatori sociali, volontari, cittadini rigettano le gravissime accuse di aggressioni personali, violenze sessuali, persecuzioni su base razziale, e altro ancora e le rimandano al mittente. “Si sono inventati tutto – raccontano Maria Paola Sorace e Giovanni Maiolo, operatori del consorzio Goel di Caulonia -, e lo sanno bene. L’unico fatto reale è che non volevano venire in Italia, e che sono finiti, per giunta, in paesini della Calabria. Per il resto sono menzogne. Non ci sono state violenze fisiche, sessuali, razzismo o altro. Li abbiamo accolti con entusiasmo. Abbiamo preparato ogni dettaglio dell’ospitalità, dalle case al personale che li avrebbe seguiti, alla scuola, all’assistenza sanitaria. Dopo tutto il lavoro svolto per loro, queste accuse ci sono sembrate inverosimili”.

“Ho scritto ai palestinesi fuggiti in Svezia  – spiega il sindaco di Caulonia, Ilario Ammendolia – per capire perché abbiano raccontato tante bugie. E uno mi ha risposto dicendomi: ‘Ti vogliamo bene, ma noi dobbiamo costruire il nostro futuro’. E qui ho compreso che avevano architettato un piano, prima per andarsene dalla Calabria, poi per convincere la Svezia e l’Unchr a non rimandarli indietro in Italia”.

Anche le famiglie di palestinesi rimaste a Riace negano decisamente: “Ma quali violenze! Qui nessuno ci ha maltrattato – afferma Hisham al-Shaban, spiegando bene i termini della questione -. I nostri problemi sono pratici: non ci troviamo bene, vogliamo andare in Paesi dove possiamo avere assistenza a vita, assegni di disoccupazione, pensioni di invalidità e vecchiaia. Un futuro, insomma”. 

E' una vicenda triste, di materialismo pratico e giornaliero, che va dai condizionatori d’aria nuovi, ai computer, agli abiti da sposa da grandi firme, alle auto, ai comprensibili timori e aspettative per un “domani” che l’Italia non garantisce né ai rifugiati né agli immigrati in genere né ai propri cittadini.

Questo hanno tentato di spiegare al gruppo di profughi sia le autorità locali sia gli educatori, ma senza grande successo. “Eravamo abituati agli standard in Iraq, sotto Saddam, dove avevamo privilegi e stavamo bene”, è stata la risposta di molti.

“Persino nella tendopoli di at-Tanf, stavamo meglio che in Italia”, aggiunge Hisham. Peccato che i report che arrivavano da quell’area, nel 2008, raccontavano tutt’altro.

Segue…

 

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