Ciò che l’ISIS dice quando parla di Palestina. Perché dovremmo preoccuparci

Ciò che l’ISIS dice quando parla di Palestina. Perché dovremmo preoccuparci

foreignaffairs.com. Di Samar Batrawi

Un mese fa lo Stato Islamico (Isis) ha rilasciato un video messaggio rivolto ai palestinesi. Nel video, in cui membri dell’Isis chiedono ai palestinesi di avere pazienza durante la lotta per il califfato, si fa un raro riferimento pubblico a scontri avvenuti nei primi mesi dell’anno a Gaza tra sospetti membri dell’Isis e membri di Hamas. Gli scontri furono innestati da una serie di fattori, tra i quali il continuo assedio di Gaza, l’accresciuto isolamento di Gaza dall’Egitto e gli scarsi risultati governativi di Hamas. Con la violenza in aumento nei territori palestinesi – che ha indotto alcuni osservatori a parlare di possibilità di una terza intifada e di vuoto governativo -, la questione delle reali intenzioni dell’Isis nella regione non è mai stata più urgente.

La Palestina nella storia

La Palestina è da molto tempo al centro di uno dei più accesi e importanti dibattiti a livello globale. Storicamente molti gruppi hanno ritenuto di parlare a nome dei palestinesi, e di difenderne i diritti. Prima della sconfitta araba del 1967 per mano israeliana, la Palestina era principalmente una questione panaraba. Gruppi come il marxista-leninista Fronte popolare per la liberazione della Palestina avevano addirittura collegamenti con la Repubblica popolare cinese e con l’Unione Sovietica. Apparendo così pervasiva, la questione della Palestina sembra importante per dei jihadisti salafiti quali sono i membri dell’Isis. Due studiosi del jihadismo salafita, Thomas Hegghammer e Joas Wagemakers, hanno dichiarato che «negli anni posteriori all’11 settembre […] la questione di ‘al-Qaida e la Palestina sorgeva regolarmente durante conversazioni a cena o nelle domande e risposte successive a conferenze pubbliche sul jihadismo».
Il jihadismo salafita ha avuto una relazione complessa, seppur limitata, con la Palestina. I jihadisti salafiti non hanno mai avuto un ruolo chiave nel conflitto palestinese, che storicamente è secolare e ha visto solo di recente un’impennata nell’islamismo. L’appoggio a gruppi jihadisti salafiti sembra molto scarso tra i palestinesi, ma alcuni sondaggi indicano delle impennate in seguito a avvenimenti significativi come l’11 settembre – avvenuto al culmine della seconda intifada palestinese – e, più di recente, nelle conseguenze della guerra su Gaza dell’estate del 2014, quando, secondo le statistiche, il 24% dei palestinesi si espresse positivamente nei confronti dell’Isis.

Da parte sua, al-Qaida non ha mai avuto una relazione chiara con la Palestina. Il gruppo terrorista ha sicuramente incluso da molto tempo la Palestina nella sua retorica. In una dichiarazione del 1998 la Palestina risultava essere la terza giustificazione per il jihad contro gli Stati Uniti. La dichiarazione apparì nel primo video di reclutamento di al-Qaida del 2001, e Khaled Sheikh Mohammed, l’organizzatore dell’11 settembre (secondo la narrativa ufficiale, ndt), motivò l’attacco con l’aiuto fornito dagli Stati Uniti a Israele.

In modo simile, ideologi di alto livello come Osama bin Laden e Ayman az-Zawahiri dedicarono tempo e attenzione all’argomento, il secondo riferendosi alla Palestina come alla «nostra preoccupazione, e preoccupazione di tutti i musulmani».
Ma mentre al-Qaida sosteneva di parlare per i palestinesi, essa manteneva le distanze da Hamas, gruppo interno palestinese. Anzi, la sua relazione con Hamas è stata sempre improntata alla competizione. Fondamentalmente al-Qaida vedeva Hamas come una falsa rappresentazione di gruppo islamico, che non aderiva alla metodologia e alla dottrina jihadista salafita, e che aveva perso le sue ultime vestigia di carattere islamista partecipando a delle elezioni democratiche.

E allora, che cosa spiega l’atteggiamento duplice di al-Qaida sulla Palestina? Una risposta potrebbe indicare l’opportunismo politico: del resto, ogni movimento che cerchi legittimazione in Medio Oriente dovrebbe partecipare a uno dei dibattiti più accesi della regione, che, opportunamente, include due dei soliti sospetti: gli ebrei e l’America. E anzi, osservando le dichiarazioni di bin Laden si nota che egli, nella sua retorica, si riferisce alle lamentele politiche palestinesi più spesso che ad argomenti di tipo religioso. Tutto sommato, al-Qaida ha visto la Palestina più come opportunità di mobilitazione di risorse e aiuti che come priorità religiosa e ideologica. Ma è difficile dire se tale retorica ha funzionato, poiché è virtualmente impossibile separare tali variabili dal più ampio quadro che motiva e ispira gli aiuti a al-Qaida.
Hegghammer e Wagemakers si riferiscono a questo chiamandolo l’«effetto motivazione palestinese», che si può notare tra un ampio tipo di jihadisti salafiti, particolarmente durante le operazioni israeliane su Gaza, ad esempio durante l’Operazione Piombo fuso del 2008-09 e l’Operazione Barriera protettiva del 2014. E ora, con opportunismo o con sincerità, l’Isis ha trovato nelle sofferenze della popolazione di Gaza un’opportunità d’oro di sdegno morale e di pretese di superiorità.

Lamentele

Il jihadismo salafita, per il suo carattere e per la generale mancanza di interesse nei confini nazionali, parla di terra palestinese in riferimento alle lamentele dei palestinesi o alle preoccupazioni per i luoghi santi attualmente occupati da non musulmani. La terra palestinese non è preziosa per i jihadisti salafiti come lo è per i palestinesi. Anzi, il simbolismo dei jihaditi salafiti si concentra solo su siti importanti, come la moschea al-Aqsa e il monte del Tempio. Ciò non vuol dire che i palestinesi non attribuiscano importanza a questi siti, ma la loro importanza fa parte di una richiesta più vasta di territorio. I jihadisti salafiti riformulano ciò che è essenzialmente una lotta nazionalista in chiave religiosa, ignorando la popolazione non musulmana che pure soffre in Palestina.

La diversa importanza attribuita da salafiti e palestinesi alla terra è forse illustrata in modo eloquente da una fatwa emessa nel 1993 da un importante sceicco salafita, Mohammad Nasiruddin al-Abani, nella quale egli ordinò ai palestinesi di abbandonare la propria terra se lì non fossero stati in grado di praticare la loro religione sotto un governo non islamico, citando esempi storici di musulmani migrati in territori di fede islamica.

La fatwa fu considerata in maniera controversa anche nella comunità salafita, ma essa dimostra le tensioni esistenti tra alcuni elementi della dottrina salafita transnazionale e l’identità palestinese. Quelle tensioni forse spiegano perché, tra i musulmani conservatori in Palestina, le organizzazioni islamiche nazionaliste come Hamas siano prosperate, mentre quelle salafite transnazionali vacillino.

Pur stando così le cose, i gruppi transnazionali premono – e questo potrebbe essere un problema per tutti. I luoghi sacri sono i simboli più evidenti per questi gruppi, e la loro liberazione è vista come necessaria. I governi palestinesi «infedeli» di Fatah e Hamas sono accusati per la mancata liberazione di questi luoghi sacri, per mancare di rivolte popolari e per il tipo di governo non islamico.

In un recente video dell’Isis, un combattente spiega che l’Isis non fa differenze tra il governo di Israele e il governo dei murtadin (apostati, reietti; nello specifico, Fatah e Hamas). Il combattente afferma esplicitamente che la causa dell’Isis non riguarda la terra, ma il governo islamico in Palestina. Il primo passo per arrivare a questo, egli dice, sta nel reclamare la narrativa palestinese scomparsa sotto gli slogan del panarabismo e del nazionalismo secolare. L’Isis non parla semplicemente della Palestina, parla di cambiare radicalmente e attivamente il senso di essere palestinese.
Ciò pone l’Isis in una posizione relativamente semplice: in quanto critico sia della governance araba che di quella israeliana (per non parlare del coinvolgimento internazionale in Palestina), esso sfrutta essenzialmente una profonda indignazione su una questione irrisolvibile a breve termine. Esso ha la capacità di sfidare tutte le parti sul terreno politico e ideologico, senza sporcarsi le mani occupandosi di nulla in maniera pratica né costruttiva, solo simbolica. In quanto oppositore inesorabile, l’Isis sarà un ulteriore ostacolo che andrà ad aggiungersi alle lamentele palestinesi. Se il mondo non inizierà a perseguire dei cambiamenti reali che vadano oltre la non-pace degli ultimi decenni in Israele e in Palestina, i palestinesi resteranno una figura efficace sulla scacchiera dei jihadisti salafiti.

Traduzione di Stefano Di Felice