Come Israele tratta realmente i cristiani palestinesi

22/12/2011: cristiani palestinesi lasciano il terminal di frontiera di Erez, nel nord della Striscia di Gaza, diretti verso la città cisgiordana di Betlemme per festeggiare il Natale. L'esercito israeliano rilascia circa 500 permessi ai cristiani di Gaza a questo scopo. (Reuters/Ibraheem Abu Mustafa)

di Fida Jiryis

Ma’anIn un editoriale pubblicato recentemente dal Wall Street Journal, “Israel and the plight of Mideast Christians” (“Israele e le condizioni difficili dei cristiani in Medio Oriente”), l’ambasciatore israeliano negli USA Michael Oren presenta Israele come una democrazia tollerante e pacifica: un’immagine smentita dai fatti.

Io sono una di quei cristiani palestinesi che vivono all’interno d’Israele e ai quali si riferisce Oren, e in nessun momento della mia vita ho mai percepito il “rispetto e apprezzamento” da parte dello Stato ebraico, di cui invece Oren si vanta in modo così brillante.

La minoranza cristiana in Israele è emarginata al pari di quella musulmana o, al limite, tollerata in silenzio. Soffriamo delle stesse discriminazioni dei musulmani palestinesi, quando cerchiamo un lavoro, andiamo negli ospedali, chiediamo un prestito alla banca o saliamo sull’autobus.

Israele basa le sue fondamenta sull’essere uno stato razzista eretto per i soli ebrei, e alla maggior parte della popolazione ebraica non interessa molto di che religione siamo, se non siamo, appunto, ebrei. Così, nei miei rapporti quotidiani con lo Stato, percepisco atteggiamenti rudi ed apertamente sprezzanti.

La dichiarazione di Oren secondo cui “l’estinzione delle comunità cristiane in Medio Oriente è un’ingiustizia di dimensioni storiche” è insomma un forte shock, per chiunque abbia anche solo un minimo di familiarità con la storia della fondazione d’Israele.

Vorrei dunque ricordare ad Oren e ad altri che tale fondazione, nel 1948, comportò l’espulsione di migliaia di cristiani palestinesi dalle loro case e il loro trasferimento forzato, il che o li costrinse a fuggire al di là del confine o li trasformò in profughi interni. Anche la pulizia etnica dei palestinesi – che fu utilizzata nella fondazione d’Israele – è un’ingiustizia di dimensioni storiche. Chi vive in una casa di vetro – così come in una casa rubata ai palestinesi – dovrebbe fare molta attenzione quando getta delle pietre.

Il marito di mia cugina, Maher, proviene da Iqrith, un paesino a qualche miglio di distanza dalla Galilea. La sua famiglia – insieme a tutti gli abitanti di Iqrith – venne espulsa dal suo villaggio nel 1948 e Iqrith fu raso al suolo dalle forze israeliane alla vigilia di natale del 1950, una sorta di “regalo natalizio” speciale per la sua gente. La data scelta per questa distruzione porta quindi a meditare sul messaggio che s’intendeva lanciare.

Maher nacque anni dopo che la sua famiglia ebbe trovato rifugio a Rama, un villaggio nei pressi della Galilea. Oggi, lotta per trovare un posto dove costruire una casa e vivere con sua moglie e i suoi figli. Le politiche israeliane, che limitano rigidamente le zone edificabili nelle città e nei paesi arabi, danno infatti come risultato una scarsità di terreni, che impedisce la naturale espansione della popolazione. Il fatto che venga limitato l’uso della terra agli abitanti di quella stessa città o paese rappresenta una grave discriminazione ai danni dei profughi interni palestinesi, per quel che riguarda il loro diritto a costruire abitazioni.

D’altra parte, il ritorno di persone come Maher viene reso impossibile da Israele, che rifiuta di trattare sul diritto dei rifugiati a ritornare nelle loro terre d’origine. Se Oren è tanto preoccupato per i cristiani palestinesi, sarebbe così gentile da concedere il via libera al ritorno dei profughi cristiani originari di Iqrith, Birim, Tarshiha, Suhmata, Haifa, Jaffa e decine di altre città e paesi arabi palestinesi dai quali si videro espellere nel 1948?

La risposta – ve lo assicuro – è no. Molti di questi rifugiati vivono in campi profughi negli stati confinanti, dove Israele e Oren sono felici di lasciarli.

I terroristi ai quali si riferisce lo stesso ambasciatore, quando afferma che “Israele, nonostante debba salvaguardare i suoi confini dai terroristi, concede ai cristiani di Gaza e Cisgiordania di accedere alle chiese di Gerusalemme”, sono in realtà cristiani palestinesi che vivono nelle terre che Israele ha occupato – contravvenendo in modo clamoroso a tutte le dichiarazioni dei diritti umani – e dalle quali si rifiuta di ritirare i suoi soldati e i suoi coloni abusivi.

Elogiare Israele perché concede il permesso di muoversi attraverso quello che per legge è il proprio paese, questo è il colmo dell’arroganza.

Quando poi sostiene che “a Gerusalemme, il numero di arabi – tra i quali vi sono anche cristiani – è triplicato dal 1967, anno in cui Israele riunificò la città”, il diplomatico si dimentica di parlare delle instancabili politiche israeliane di repressione che vengono portate avanti in quella stessa città: insediamenti senza fine; un Muro di separazione che la taglia giusto nel mezzo, dividendo le famiglie, i quartieri e le attività commerciali, e dunque colpendo duramente l’economia araba; espropriazioni di terreni ed espulsione delle famiglie arabe che li abitano da generazioni; e revoca della cittadinanza per ogni palestinese residente che rimanga all’estero per un periodo troppo lungo.

Immaginate lo scalpore che si verrebbe a creare se un cittadino USA viaggiasse due anni in giro per il mondo e, al ritorno, scoprisse che la sua cittadinanza è stata revocata e che ha perso la sua carta d’identità e passaporto USA!

Ai funzionari israeliani non importa se i palestinesi che discriminano siano cristiani o musulmani. È comunque vero che le lotte inter-religiose sono in aumento, in una regione geopolitica tormentata a lungo da condizioni di povertà – per le quali l’Occidente ha sulle spalle responsabilità significative, avendo dato il suo aiuto ai molti dittatori che vi governano.

Insomma, nessuno si fa imbrogliare dalla falsa tolleranza di Oren e dalle sue lacrime di coccodrillo per la difficile situazione dei cristiani. Se fosse sincero, allora lo esorterei a guardare da vicino le politiche di occupazione e di discriminazione razziale messe in atto da Israele.

Come disse Gesù in Matteo 7:3, “perché guardi tu il fuscello che è nell’occhio del tuo fratello, e non scorgi la trave ch’è nell’occhio tuo?” 

Fida Jiryis è una scrittrice palestinese della cittadina araba di Fassuta in Galilea, Israele. È l’autrice di “My Return to Galilee” (“Il mio ritorno in Galilea”), di prossima pubblicazione, che racconta il suo ritorno in Israele dopo l’inizio della diaspora.