Come l’anguria è diventata un simbolo della resistenza palestinese

Thenationalnews.com. Di Alexandra Chaves. (Da InvictaPalestina.org). Mentre le origini della storia non possono essere verificate, sui social media il frutto ha assunto un nuovo significato.

Rosso, nero, bianco e verde – i colori della bandiera palestinese… e delle angurie. Dopo la guerra dei sei giorni nel 1967, Israele proibì l’esposizione della bandiera palestinese e dei suoi colori a Gaza e in Cisgiordania, e si dice che l’esercito israeliano arrestasse o molestasse chiunque avesse tentato di farlo. Come forma di protesta, si racconta, gli attivisti avrebbero allora portato in giro fette di anguria.

La storia è diventata un po’ un mito contemporaneo, diffondendosi di recente sui social media, con le sue vere origini sepolte in varie rivisitazioni e repost.

Per quanto riguarda i fatti, un ordine militare delle forze israeliane vietava il diritto di riunione e di pubblicazione riguardanti questioni politiche o che avrebbero potuto essere interpretate come politiche, compreso il possesso di simboli nazionali.

Un rapporto del New York Times dell’ottobre 1993, settimane dopo la firma degli accordi di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina – che diedero vita all’Autorità Palestinese e che revocarono anche il divieto sulla bandiera – fa un breve accenno agli arresti legati all’esibizione della bandiera-frutta.

“Nella Striscia di Gaza, dove una volta i giovani che trasportavano   fette di anguria – mostrando così i colori palestinesi rosso, nero e verde – venivano arrestati, i soldati stanno a guardare, mentre le processioni marciano sventolando la bandiera una volta vietata”, afferma il rapporto. Il giornale in seguito ritrattò il dettaglio, affermando che non potevano confermare il fatto dell’anguria.

Un’altra storia coinvolge gli artisti Sliman Mansour, Nabil Anani e Issam Badr, la cui mostra alla Gallery 79 ,nel 1980,  fu chiusa dall’esercito israeliano poiché le opere d’arte erano considerate politiche e  comprendevano la bandiera palestinese e i suoi colori. Di fronte all’ufficiale, Badr chiese: “E se volessi solo dipingere un’anguria?”, Al che l’ufficiale rispose: “Il disegno sarebbe confiscato”.

Mansour, ora settantenne e residente a Birzeit, ricorda l’incidente, ma chiarisce alcuni dettagli con The National. Ricorda che la mostra nella Gallery 79 era stata aperta solo tre ore prima che i soldati sgombrassero lo spazio e lo chiudessero. Due settimane dopo, gli ufficiali israeliani avevano convocato i tre artisti, avvertendoli di smettere di produrre dipinti politici e dipingere invece fiori.

“Ci hanno detto che era proibito dipingere la bandiera palestinese, ma anche i colori erano proibiti. Così Issam disse: “E se facessi un fiore rosso, verde, nero e bianco?”, Al che l’ufficiale rispose con rabbia: “Sarà confiscato. Anche se dipingi un’anguria, verrà confiscata. “Quindi l’anguria è stata menzionata, ma dall’ufficiale israeliano”, spiega Mansour.

Aggiunge che non ricorda artisti che in quel periodo usassero l’anguria come motivo politico nel loro lavoro.

Beesan Arafat (@beesanarafat su Instagram), artista palestinese-giordano con base in Inghilterra, dipinge  una fetta di anguria su un piatto di Hebron. Per gentile concessione dell’artista
In un certo senso, la veridicità di queste narrazioni è ora secondaria, poiché gli artisti hanno adottato il frutto come simbolo della lotta palestinese.

Il primo esempio può essere fatto risalire a Khaled Hourani, che aveva ascoltato una versione della storia di Mansour e che aveva dipinto una fetta di anguria per il progetto “Atlante della Palestina” nel 2007. Il suo lavoro in seguito ha fatto il giro del mondo, tra cui Scozia, Francia, Giordania, Libano ed Egitto. Hourani ha anche tenuto laboratori d’arte nelle scuole di Ramallah.

Nelle ultime settimane, in seguito ai bombardamenti su Gaza, il supporto online alla Palestina ha amplificato il dibattito sui diritti dei palestinesi e la decennale occupazione israeliana. Insieme all’aumento delle campagne online, il lavoro di Hourani ha ricevuto una nuova attenzione che, a suo dire, è stata travolgente, con centinaia di messaggi a lui indirizzati.

L’artista Khaled Hourani ha utilizzato per la prima volta l’anguria nel suo lavoro per l’”Atlas of Palestine Project “ nel 2007. Khaled Hourani
“Per me è stato un po’ inaspettato. Questo è solo uno dei miei progetti, che fino ad ora non aveva avuto   grande successo o  diffusione “, dice. “È un tipo originale di solidarietà… è molto potente. Onestamente non so come affrontare questa cosa. Alcune persone si fanno un tatuaggio, altri creano modelli per i vestiti, altri ancora  la mettono su bandiere…Sono felice che attiri l’attenzione sulla causa palestinese”.

Sarah Hatahet, un’illustratrice giordana che vive ad Abu Dhabi, ha creato la sua opera d’arte con l’anguria dopo essersi imbattuta in Hourani sui social media. Altri, come Sami Boukhari che vive a Jaffa, Aya Mobaydeen ad Amman, Beesan Arafat in Inghilterra, hanno attinto alla storia dell’anguria e hanno condiviso le loro opere sui social media.

Hourani descrive il sostegno online alla Palestina, in particolare da parte delle generazioni più giovani, come una sorta di “magia”.

“La gente in tutto il mondo si sta alzando  per dire che l’occupazione deve finire. Questo è un momento storico. Come artista, come essere umano, mi sento onorato che il mio lavoro venga utilizzato come strumento o sia parte di questa forza trainante”, afferma.

“Watermelon Resistance” dell’artista giordana Sarah Hatahet (@sarahhatahet su Instagram). “Nel mio lavoro volevo mostrare la resistenza palestinese e la perseveranza… come un’ode alla Palestina”, dice. “Volevo condividere la mia solidarietà attraverso l’arte, anche se sembra un piccolo atto rispetto a ciò che il popolo palestinese sta facendo e attraversando sul campo”. Per gentile concessione dell’artista
La resistenza attraverso l’arte ha una lunga storia in Palestina, così come gli attacchi alla cultura palestinese, e non solo sotto forma di censura, come il divieto dei simboli nazionali, ma anche  attraverso chiusure, confische, arresti e distruzione di proprietà.

”Anche nell’incidente della Galleria 79, Mansour ricorda che due dipinti erano scomparsi quando gli ufficiali israeliani permisero agli artisti di tornare nello spazio, oltre al fatto che la mostra non fu mai riaperta.

Un esempio più recente è il raid su “Dar Yusuf Nasri Jacir for Art and Research”, o Dar Jacir, a Betlemme.

“Negli anni ’70 a Ramallah furono distrutti dalle forze israeliane anche diversi centri d’arte “, afferma la storica dell’arte Salwa Mikdadi. “Quello che hanno fatto a Dar Jacir non è nuovo anzi, è accaduto più e più volte”.

Mikdadi, che ha curato diverse mostre, tra cui la prima mostra in Palestina per la Biennale di Venezia nel 2009, attualmente insegna alla New York University di Abu Dhabi e ha scritto molto sull’arte araba e palestinese.

“Alcune persone negano persino la nostra esistenza, negano la cultura e l’identità palestinesi, quindi l’arte combatte questo. Dà una casa ai senzatetto” Sliman Mansour, artista
Dice che prendere di mira artisti e spazi culturali è una tattica usata dalle forze di occupazione per cancellare l’identità.

“Chiaramente volevano disumanizzare i palestinesi, farne un popolo senza cultura, senza passato. È una cultura ricca che risale a secoli fa. Quindi per loro la cultura è uno strumento molto pericoloso nelle mani dei palestinesi. È un mezzo che ha dimostrato di avere più successo dei politici nel modo in cui influisce sul cambiamento del pubblico di tutto il mondo”.

Mansour la pensa allo stesso modo. “Alcune persone negano persino la nostra esistenza, negano la cultura e l’identità palestinesi, quindi l’arte combatte questo. Dà una casa ai senzatetto”, dice.

Il lavoro dell’artista, come il dipinto del 1973 “Camel of Hardship”, è tra i più riconoscibili nell’arte araba, con le sue raffigurazioni di contadini e donne in abiti tradizionali.

Durante la Prima Intifada, Mansour e altri artisti guidarono il movimento New Vision, che sostenne l’idea dell’autosufficienza.

“La filosofia principale della Prima Intifada era boicottare i prodotti israeliani e fare affidamento su noi stessi”, afferma. “La gente piantava ortaggi nei propri orti per non comprare nulla da Israele. Abbiamo pensato: ‘Perché come artisti non facciamo lo stesso? Perché dovremmo comprare la vernice dai negozi israeliani e poi usarla per dipingere contro di loro? ‘”.

Cominciò a utilizzare a materiali come fango e paglia, affiancato da artisti come Nabil Anani e Tayseer Barakat, che utilizzarono l’henné, le tinture vegetali e altri materiali naturali.

‘Woman Picking Olives’, dell’artista palestinese Sliman Mansour. Per gentile concessione di Zawyeh Gallery
Oggi, nonostante l’espropriazione e la distruzione, un piccolo  segnale di progresso, forse, è una rinnovata conversazione globale sull’occupazione e un crescente sostegno alla Palestina espresso dalle istituzioni culturali di tutto il mondo.

Questo include un appello alla solidarietà con la Palestina di “The Mosaic Rooms” a Londra, firmato da artisti e organizzazioni, così come la campagna “Visual Arts for Palestine” ancora  in corso.

Martedì, anche l’”International Biennial Association”, il cui consiglio di amministrazione comprende i principali leader della Sharjah Biennial, Istanbul Biennial, Berlin Bienniale, Kochi Biennale Foundation e Gwangju Biennale Foundation, ha rilasciato una dichiarazione di sostegno.

“I social media hanno avuto un impatto molto forte, molto più di quando le comunicazioni erano controllate dall’occupante. Ora hanno meno controllo su questo”, spiega Mikdadi.

“Prima, le voci dei palestinesi non si sentivano quasi mai.  Venivano  mediate da corrispondenti e giornalisti. Ora c’è è una comunicazione diretta e la velocità con cui questi messaggi  raggiungono tutto il mondo è fenomenale. È straordinario soprattutto per noi che abbiamo vissuto i tempi precedenti…

“Il mondo è così interconnesso ora che le persone possono vedere da sole cosa sta succedendo”.

 

(Immagine di copertina: L’opera di Khaled Hourani “I colori della bandiera palestinese”, in mostra al Centre for Contemporary Arts di Glasgow nel 2014. Courtesy l’artista).

Traduzione per Invictapalestina.org di Grazia Parolari.