Comprendere la propaganda palestinese dell’Isis

337287CMa’an. Di Al-Shabaka è un’organizzazione no-profit indipendente la cui missione è istruire e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani palestinesi e l’autodeterminazione entro il diritto internazionale
L’artefice delle sue direttive è Samar Batrawi, dottorando olandese-palestinese e assistente in teoria delle relazioni internazionali presso il Dipartimento di studi bellici al King’s College di Londra.

Batrawi indaga le modalità in cui l’Isis ha affrontato la questione palestinese nei propri interventi sul web, per dimostrare come i palestinesi possono resistere all’evidente appropriazione della propria narrativa, evitando la monopolizzazione della questione palestinese da parte di voci non palestinesi, e, potenzialmente, anti palestinesi.

Cosa pensiamo di sapere sul jihadismo salafita e la Palestina

Sebbene sia difficile stabilire con certezza cosa l’Isis pensi della Palestina, possiamo osservare alcuni elementi ricorrenti nel suo approccio retorico all’argomento. Ciò è connesso al modo in cui altri gruppi jihadisti salafiti hanno interagito con la questione palestinese, e sembra avere poco a che vedere con il modo di percepire il jihadismo salafita da parte dei palestinesi. Sembra più avere a che vedere con l’attrazione della legittimità di cui la questione palestinese gode con i gruppi che i jihadisti salafiti vogliono raggiungere. Questo argomento resta relativamente poco esplorato, e la maggior parte degli studi che sono stati condotti si sono occupati di al-Qa’ida e la Palestina. Thomas Hegghammer e Joas Wagemakers hanno condotto insieme queste diverse ricerche nell’introduzione a un’edizione speciale di Welt des Islams, dalla quale siamo in grado di trarre diverse conclusioni.
In primo luogo, i palestinesi non sono stati, significativamente, sovra-rappresentati in al-Qa’ida, né nelle fila di reclutamenti di basso livello, né tra i suoi ideologi politici. Secondo, a livello ideologico al-Qa’ida si è spesso rivolta alla Palestina, nel suo raggio d’azione: essa ha elencato la Palestina come terzo motivo di jihad contro gli Stati Uniti d’America, nella sua comunicazione informativa del 1998, spesso considerata il documento ideologico più importante di al-Qa’ida. Però, sebbene al-Qa’ida citi occasionalmente il termine Palestina, uno sguardo più attento alla dichiarazione del 1998 ci dimostra che essa non cita in realtà la parola Palestina come tale.
La dichiarazione afferma: «Se gli obiettivi degli americani in queste guerre (medio orientali) sono religiosi ed economici, allora servono gli interessi dello stato ebraico, per distrarre l’attenzione dall’occupazione di Gerusalemme (il termine arabo utilizzato è bayt al-maqdis) e dall’assassinio di musulmani a Gerusalemme». Questa scelta di termini implica che l’obiettivo sulla Palestina è principalmente un obiettivo religioso. Una conclusione a cui Hegghammer e Wagemakers giungono è che al-Qa’ida si è riferita alla Palestina più frequentemente durante i periodi di tumulti politici in Cisgiordania e a Gaza. Questo sembra essere anche il caso dell’Isis, e suggerisce che in ballo ci sia una certa dose di opportunismo.
L’opportunismo è inoltre evidenziato dal fatto che l’Isis parla solo di quattro elementi della questione palestinese: Gaza, Gerusalemme, i recenti accoltellamenti e la politica interna palestinese. L’Isis ha dedicato, complessivamente, almeno 29 dichiarazioni online a questo argomento dal maggio 2015, per lo più tramite video messaggi. Gli argomenti discussi nei messaggi spesso si accavallano; Gaza è stata citata in 19 messaggi, Gerusalemme in 18, e 15 messaggi erano incentrati sugli accoltellamenti. Questi ultimi tutti pubblicati nell’ottobre 2015. Riguardo la politica interna, Hamas è citato in ogni messaggio e Fatah e l’Autorità palestinese compaiono 15 volte. Ma queste cifre non trasmettono il modo in cui l’Isis discute di questi argomenti.

La narrativa sull’Isis e la Palestina

Forse l’aspetto più forzato della visione della questione palestinese da parte dell’Isis riguarda Gaza. Il gruppo è saltato sul carrozzone dell’oltraggio che circonda il destino della gente che vive nella Striscia senza dover essere un agente di cambiamento positivo sul terreno. Il suo centro retorico su Gaza è duplice: da un lato esso critica le pratiche di Israele, compreso l’assedio e i diversi assalti su Gaza, come l’operazione Margine di protezione del 2014; dall’altro predomina invece la critica nei confronti di Hamas, come nel caso della condanna dell’inasprimento operato da Hamas sui salafiti a Gaza nell’estate del 2015. Il destino dei palestinesi di Gaza non viene mai discusso in maniera indipendente, ma è sempre uno strumento per criticare Israele e, più di frequente, per delegittimare Hamas, come vedremo più sotto.

In quanto a Gerusalemme, i termini scelti dall’Isis sono un buon indicatore di quanto sia capita la città. Il termine maggiormente utilizzato è Bayt al-maqdis, espressione araba per «casa sacra», che si può riferire alla moschea al-Aqsa, al complesso che la circonda, o alla città di Gerusalemme in senso più ampio. Esso è uno dei nomi più antichi per Gerusalemme, e i nisbas – cognomi basati sul luogo di nascita di una persona – che alcuni salafiti hanno usato derivano da bayt al-maqdis, il più famoso esempio dei quali è Abu Muhammad al-Maqdisi. Bayt al-Maqdis è un nome che si trova spesso negli hadith, ed è inteso generalmente come maggiormente connotato dal punto di vista religioso dell’alternativa araba per Gerusalemme, usato comunemente dai palestinesi, che è al-Quds.

Il termine al-Quds è probabilmente più adatto a descrivere la relazione che palestinesi, musulmani e non musulmani hanno avuto con la città. Questo rapporto è spesso descritto in modo riduttivo nei media mainstream, mentre in realtà Gerusalemme è stata al centro della formazione identitaria palestinese per ragioni molto più complesse. Rashid Khalidi definisce la città «la pietra di paragone dell’identità per tutti gli abitanti di Palestina del passato e dell’era moderna», dal momento che ha sempre avuto importanza religiosa per i musulmani, i cristiani e gli ebrei. E’ stato anche un centro amministrativo, culturale e per l’istruzione nella Palestina tra il tardo XIX e l’inizio del XX secolo, oltre che uno snodo politico e intellettuale in cui, anche prima del mandato britannico si poteva notare lo sviluppo dell’identità palestinese su linee nazionali.

Gerusalemme sembra essere di grande importanza per le aspirazioni politiche dell’Isis, almeno da un punto di vista retorico, dal momento che l’Isis spesso ha affermato di voler liberare Bayt al-maqdis dal governo non musulmano. Anzi, esso sfida direttamente le concezioni palestinesi della questione palestinese e il ruolo in essa rivestito da Gerusalemme. «Il tuo sforzo non riguarda la terra, riguarda il giusto contro l’ingiusto. Si tratta di religione», si legge in una dichiarazione dell’Isis. L’idea è che Gerusalemme sarà davvero liberata solo quando sarà governata da musulmani, secondo la legge islamica. L’Isis usa poi molti simboli religiosi, riferendosi a Gerusalemme, con la moschea di Al-Aqsa e la cupola della roccia spesso raffigurate in video e dichiarazioni.
L’ondata di accoltellamenti è l’argomento più recente discusso dall’Isis, in un notevole picco di dichiarazioni relative alla questione palestinese rilasciate nell’ottobre 2015. Gli attacchi non sono ancora stati collegati ad alcun gruppo organizzato, né alcun attacco è stato rivendicato dall’Isis. Il termine arabo intifadat al-afrad, ricorrente tra palestinesi e arabi nei mesi scorsi, descrive la percezione generale di questi attacchi: un’intifada di singoli individui. Nonostante ciò l’Isis ha colto l’opportunità per presentare la propria narrativa degli attacchi in una serie di video-dichiarazioni.
Esso ha elogiato gli accoltellamenti come mezzo per raggiungere la liberazione della moschea Al-Aqsa, e come segnale del fallimento delle élite arabe secolari e dei politici palestinesi, entrambi ritenuti complici dell’occupazione di Gerusalemme da parte del «popolo ebraico». Conseguentemente, l’Isis invoca la violenza contro gli ebrei, chiedendo ai «fratelli in Palestina, e specificatamente a Bayt al-Maqdis» di ascoltare il richiamo all’unità islamica. L’elenco di video pubblicati nell’ottobre 2015 continua su questa linea, ritraendo Abbas e Netanyahu nella critica alla «collaborazione dei leader arabi secolari con gli ebrei», e dando consigli specifici ai palestinesi su come condurre gli attacchi, invocando gli accoltellamenti e il «colpo e la fuga», consigliando di mirare al petto e al cuore durante le aggressioni. Il messaggio dell’Isis, contrario ai gruppi palestinesi organizzati è particolarmente chiaro nel video in cui si invitano i palestinesi a «non aspettarsi nulla da Fatah e da Hamas. Non rivolgersi a loro per una soluzione. Non c’è pace in quel che loro hanno da offrire. Affidatevi a Dio».

In un video particolarmente violento la demonizzazione del popolo ebraico è portata a un livello più alto, dando loro la colpa di tutto ciò che c’è di sbagliato in Medio Oriente. Questo video consiglia anche il modo migliore per uccidere gli ebrei, «non per un pezzo di terra o di madrepatria o per partigianeria, ma nel nome di Dio». Questa è un’altra rappresentazione errata, pericolosa e violenta, della questione palestinese. Inoltre, non corrisponde, per esempio, alla nota lasciata da una giovane donna palestinese uccisa in un tentativo di accoltellamento nel novembre 2015, nella quale lei dichiarava di agire in difesa della propria patria. Senza considerare se gli attacchi a colpi di coltello sono un metodo legittimo di resistenza o no, è importante comprenderli per l’espressione di critica alla politica che essi stanno a indicare, più che per il fanatismo religioso che l’Isis cerca di attribuirgli.
Come suggerito sopra, il modo in cui l’Isis formula la questione palestinese va oltre la delegittimazione di specifici gruppi palestinesi: riguarda molto di più la delegittimazione della narrativa nazionalista della questione palestinese. Anzi, l’Isis accusa gli ebrei di inquadrare la questione palestinese in un contesto nazionale piuttosto che in un contesto di jihad. Entro questo paradigma chiunque aderisca a una narrativa nazionale sarebbe un collaboratore del nemico. Essi dichiarano continuamente che «il problema che avete con gli ebrei non è un problema nazionale o una questione territoriale: è una questione religiosa». In un video essi affermano addirittura che «i negoziati tra Israele e Abbas sono solo negoziati tra ebrei e ebrei».
Nella maggior parte delle dichiarazioni che si trovano online, l’Isis critica le leadership arabe e palestinesi più di quanto critichi Israele. Fatah e Hamas sono inquadrati tra gli infedeli secolari e i traditori della causa salafita e jihadista. L’Isis è stato piuttosto esplicito nel denunciare le politiche di Hamas contro i salafiti a Gaza, ad esempio pubblicando un’ampia intervista con un ex prigioniero in cui si discute delle torture inflitte da Hamas ai prigionieri salafiti, e Hamas è accusato di collaborare con Israele attraverso la soppressione della resistenza contro Israele.
Riassumendo, l’Isis si rivolge in modo selettivo ad alcuni elementi della questione palestinese, e inquadra questi elementi in modo molto diverso da come i palestinesi li vedono nella loro battaglia per l’autodeterminazione. Inoltre l’Isis amplifica i problemi interni palestinesi, come la legittimità in declino dell’Autorità nazionale palestinese e la frammentazione della politica nazionale. Facendo questo, non aggiunge niente di sostanziale sul terreno.

Sbrogliare la narrativa e rivendicare l’azione

Più di al-Qa’ida ai tempi di maggior sviluppo, l’Isis ha incorporato la questione palestinese nella propria retorica incanalando ciascun elemento della questione nel dogma salafita jihadista. E, nonostante il fatto che una relazione speciale e diretta tra la questione palestinese e il jihadismo salafita sia alquanto debole, ciò ha portato alcuni osservatori a stabilire dei legami tra i due movimenti. Pare che coloro i quali mettono sullo stesso piano l’Isis e Hamas, e che riducono i palestinesi a estremisti con il «culto per la morte», – come il primo ministro Benjamin Netanyahu – tendano a fermare qualsiasi tentativo di legittimazione dei diritti dei palestinesi, e a sfidare il regime di occupazione israeliano. Ciò porta alla vecchia narrativa che ritrae i palestinesi come musulmani arrabbiati, irrazionali, dogmatici, come visto sopra. Quella narrativa va di pari passo con il paradigma modernizzante che vede gli ebrei israeliani come persone sviluppate, istruite, opposte a dei palestinesi primitivi, ed è diventata fondante nel discorso più ampio di radicalizzazione e terrorismo.
Ciò non vuol dire che l’equazione della causa palestinese con l’Isis sia generalmente accettata: piuttosto, è in corso un’interpretazione estremistica della causa palestinese fondata arbitrariamente su un odio di tipo primordiale che aspira alla morte e all’autodistruzione, sebbene la natura storicamente secolare della questione palestinese sia stata documentata e analizzata per anni. Ciò non significa che l’islam non giochi alcun ruolo in alcune narrative sull’identità palestinese e sulla sua manifestazione politica, ma indica che anche entro gruppi come Hamas, l’identità predominante è un’identità palestinese prima che musulmana, e l’obiettivo politico è l’autodeterminazione, non la fondazione di uno stato islamico transnazionale.
I palestinesi hanno dato una risposta incerta ai tentativi dell’Isis di includere i loro problemi, diritti e ambizioni politiche nella sua propaganda, forse perché affrontare tali questioni può dare l’impressione di legittimarle. Ma ignorare la cooptazione da parte dell’Isis nella sua narrativa diventa sempre più dannoso alla causa palestinese: non solo perché i palestinesi dimostrano svogliatezza mentre l’Isis ne sfrutta vite ed esperienze nella sua propaganda, ma anche perché ciò apre ad altre voci lo spazio per costruire la narrativa palestinese per conto dei palestinesi.

La realtà è che, stando a recenti sondaggi di opinione, l’88% dei palestinesi condanna l’Isis, e il 77% appoggia la guerra araba e occidentale contro l’Isis. L’Isis sfrutta ed esaspera la realtà politica palestinese, frammentata e apparentemente priva di speranze, a vantaggio solamente di se stesso, e contemporaneamente Israele continua le sue pressioni contro i palestinesi, fondate sull’idea che essi rappresentano un tipo di estremismo dogmatico simile all’Isis.

Respingere l’appropriazione da parte dell’Isis della narrativa palestinese è, pertanto, non solo un dovere morale, ma anche un dovere dal valore strategico. I problemi dei palestinesi sono del tutto umani, tangibili e attuali, e sono inseriti in un contesto di diritti umani universalmente riconosciuto. Essi non emergono da un intrico religioso immaginario, ma da una realtà politica sotto la quale generazioni di palestinesi di tutti i credo hanno sofferto pulizie etniche, colonizzazioni, deprivazioni di risorse, attacchi militari, occupazioni, assedi e l’esilio, oltre a molti altri crimini. Intanto la parte che ha commesso e che commette questi crimini  può eludere le responsabilità finché riesce a dominare la narrativa. Per questo i palestinesi devono agire e proteggere la propria narrativa sia dall’appropriazione da parte dell’Isis che dalla demonizzazione proveniente da voci anti palestinesi, utilizzando tutti gli strumenti a loro disposizione.

Traduzione di Stefano Di Felice