Conversando con Miryam Marino su Palestina, politica, Grande Reset e spiritualità

InfoPal. Di Angela Lano. In occasione dell’uscita del suo nuovo libro, Il Treno, edito dalla casa editrice Europa Edizioni di Roma, abbiamo intervistato Miryam Marino, storica attivista per i diritti del popolo palestinese, scrittrice e studiosa.

“La Palestina è un laboratorio per esperimenti che possono poi essere messi in atto dai governi di altri Paesi sui loro cittadini. Ora stiamo vivendo un momento in cui ciò che stiamo subendo – confinamento, coprifuoco, limitazioni della nostra libertà di movimento, censura e misure messe in atto a discrezione del governo, aperture e chiusure intermittenti -, fanno assomigliare sempre più il nostro paese alla Palestina. Il Grande Reset che stanno mettendo in atto potrebbe azzerare le differenze, facendoci vivere tutti sotto occupazione. La differenza tra noi e i palestinesi è che mentre noi rischiamo di farci colonizzare anche nell’anima, loro sono sempre stati liberi interiormente”.

Miryam, prima di tutto, raccontaci il tuo impegno per la Palestina. Da cosa è nato?

“Sono una scrittrice e attivista da sempre impegnata per la causa palestinese. Negli anni della mia adolescenza cominciai ad osservare il mondo intorno a me. Un mondo di cui mi sentivo parte senza alcuna separazione. Provavo compassione ed empatia per ogni anima umana, animale e per la meravigliosa natura che vedevo spesso devastata. Assieme alla bellezza del creato mi giungeva anche il grande dolore che attraversava il mondo e ritenevo che la più grande sofferenza fosse dovuta all’ingiustizia e al mancato rispetto per ogni vita. Allora feci una promessa a me stessa e cioè che mi sarei sempre opposta ad ogni stortura con ogni mezzo a mia disposizione. Il mio primo impegno, a 14 anni, fu quello di costruire, assieme ad altri, una baracca-scuola dove potessero studiare i bambini dei baraccati. Poi seguì l’organizzazione di un centro sociale dove il nostro obiettivo era quello di aggregare e far dialogare le persone del quartiere con le famiglie rom che vi erano presenti invitandoli alle nostre iniziative. Poi scoppiò il ’68 e più tardi il ’77 e la mia militanza continuò ininterrotta. La mia prima interazione con i palestinesi iniziò negli anni 70, anni in cui vivevo a Pavia, sede di una grande università, a quell’epoca frequentata da molti studenti palestinesi con cui entrai in contatto e con i quali lavorai assieme supportando le loro iniziative.

“Allora i fedayn erano per me un mito e un esempio di come si potesse opporsi all’oppressione e alla negazione della propria vita e della propria libertà. La mia ammirazione era sconfinata nel vedere come erano riusciti a rifondare la loro identità, la loro idea di patria, di umanità e libertà diventando il ‘sale del Medio Oriente’ e un esempio per tutti. La mia militanza specifica però ebbe inizio con la seconda Intifada, periodo in cui nacque la rete ECO (Ebrei contro l’occupazione) che si propone di difendere i diritti umani dei palestinesi, di far conoscere la loro storia, di realizzare progetti di sostegno. In questa rete sono tuttora attiva. In seguito aderii anche all’associazione ‘Amici della Mezzaluna rossa palestinese’ che si prefigge di promuovere l’adozione a distanza di bambini palestinesi orfani o feriti e di far conoscere la vasta cultura palestinese. In questa associazione fui, per alcuni anni, responsabile culturale. Essendo una scrittrice, pubblicai diversi libri per raccontare della Palestina. Si tratta di tre raccolte di racconti, un romanzo, una raccolta di articoli, un diario di viaggio e un saggio sulla resistenza delle donne palestinesi”.

“Il Treno”, il tuo ultimo libro, è molto diverso dal tuo genere saggistico impegnato politicamente. Ce ne vuoi parlare?

“E’ mia opinione che il mondo occidentale sia precipitato in un abisso vuoto di senso, dove il materialismo informa ogni aspetto della vita. Ciò porta all’egoismo, alla separazione e al cinismo, ma anche all’angoscia per aver spezzato inconsapevolmente ogni legame con la parte spirituale del nostro essere. Nel mondo occidentale la morte è tabu, viene nascosta e ignorata. In questo romanzo metto in scena dei personaggi che sono morti ma ne sono inconsapevoli. Il treno su cui compiono il viaggio è semplicemente la crisi della morte e il viaggio è in realtà un viaggio all’interno di se stessi per capire chi sono veramente, come hanno condotto la loro vita e come possono riappropriarsi della loro interezza. Il treno arriverà al capolinea solo quando questo percorso sarà compiuto. Ognuno dei viaggiatori porta con sé un bagaglio di ferite, di aspetti irrisolti, di paure non superate, di lutti non elaborati, di egoismi e autoinganni. Solo quando capiranno di non essere realtà separate ma esseri unici e allo stesso tempo connessi come atomi di un solo corpo riusciranno a parlarsi, a sostenersi a vicenda e allora le confessioni saliranno dal profondo dell’anima e saranno guaritrici. Essi attraverseranno la terra di nessuno che sta tra la vita conosciuta fino a quel momento e la rivelazione del loro vero essere, facendo questo salto senza mai sentirsi soli. Un personaggio fra questi, un professore musulmano, funge da catalizzatore e da punto di riferimento, per la sua umanità e compassione. Ma sarà un altro personaggio, l’unico consapevole della loro condizione, a portare all’interno del treno, non appena tutti comprenderanno di non essere più sulla terra, la rivelazione che la morte non è la fine del viaggio, ma l’inizio di una nuova vita aperta alla luce e che loro possono ora accedervi dopo essersi disfatti di ogni pensiero e sentimento inutile e pesante. Non tutto avviene all’interno del vagone perché non tutti i personaggi sono allo stesso livello di consapevolezza. Alcuni di loro potranno spaziare nella vastità della loro anima attraversando un labirinto, o trovandosi all’interno dei propri romanzi e di fronte ai propri personaggi, o nello spazio magico di una casa contenente tutti i ricordi. Ma sebbene si trovino ognuno a un diverso punto del cammino tutti arriveranno felicemente alla soglia della nuova vita spirituale e piena di luce che li attende. Come ogni testo di letteratura, il romanzo può avere diverse chiavi di lettura e può essere letto anche come una metafora della vita contemporanea che acquista senso solo nel momento in cui riusciamo a trovare la via del cuore, ritrovando la complessità del nostro intero essere e riconoscendolo anche negli altri, aprendo così la strada ad un avvenire di luce dove potremo ancora sentire i rumori della foresta e dove nessuno sarà lasciato indietro”.

Il Treno è davvero un bellissimo libro, molto coinvolgente, che lascia spazio a una realtà immateriale, spirituale e di grande speranza. Ogni pagina è una riflessione sulla vita, sul senso delle cose e sul post-mortem. Dall’anno scorso, ciò dall’inizio della “pandemia” da Covid-19, stiamo vivendo all’interno di un film fanta-horror. Le persone sono impaurite e spesso disperate. Come vedi la situazione?

“Quando ho finito il mio romanzo non si parlava ancora di emergenza, sarebbe cominciata un mese dopo e rileggendolo notavo come i sentimenti di sgomento che attraversavano i miei personaggi somigliassero a quelli diffusisi dopo marzo 2020. Anche l’episodio delle facce di pezza, nel sogno di un personaggio, mi richiamava le future mascherine. Segno che ognuno di noi, chi più chi meno, avverte la preveggenza degli eventi futuri. La pandemia ha avuto il merito di portare alla luce molte verità e tante cose sono apparse nella loro evidenza cristallina. Non parlo solo della conduzione disordinata, confusa e surreale di questa emergenza da parte della politica, ma anche del disvelamento della vera essenza di persone e gruppi che prima non erano stati visti nella loro giusta luce. Abbiamo compreso eventi su cui prima ci eravamo soffermati distrattamente. Il merito più grande di questa pandemia è perciò quello di aver fatto emergere ciò che prima era occultato. Questo ha portato sicuramente ad un elevamento della consapevolezza e penso che siamo ad un bivio nel mondo occidentale. O andremo dritti verso un futuro distopico fatto di controlli, di spersonalizzazione, di povertà e di perdita della socializzazione e del libero arbitrio oppure non tollereremo più gli inganni, i tradimenti e le ingiustizie e pretenderemo un vero cambiamento. Io credo che però il primo cambiamento debba avvenire dentro di noi. Occorre perdere atteggiamenti personalistici e ridimensionare il nostro ego. Occorre una rifondazione antropologica. Io sono incline alla speranza e dentro di me coltivo la visione di un mondo rinnovato privo di allevamenti intensivi, di sfruttamento, di politiche di guerra e sopraffazione. Come ciò si possa tradurre in piani politici non lo so, ma credo che ci arriveremo”.

Che speranze ci sono, secondo te, di risveglio umano?

“Io credo che questo risveglio sia già cominciato. Non ne vediamo ancora gli effetti ma una parte sempre più numerosa di umanità si sta avvicinando a contenuti nuovi e a una maggiore chiarezza. La terra sta cambiando il proprio elettromagnetismo ed elevando le proprie vibrazioni e questo sarà un grande aiuto per la consapevolezza generale. E’ importante mantenere alto il proprio spirito e prendere contatto con la terra andando spesso e in compagnia nei boschi, sulle spiagge, lontani dal cemento, per accordarsi alle vibrazioni elevate della terra, coltivare la bellezza e non ascoltare i media catastrofisti. Ognuno di noi può essere un faro e proiettare quella luce che dall’alto sta inondando la terra”.

Quali analogie vedi, se ce ne sono, tra la condizione di oppressione in cui vivono i palestinesi e il cosiddetto Grande Reset mondiale?

Ho sempre affermato nei miei interventi pubblici che la Palestina è un laboratorio per esperimenti che possono poi essere messi in atto dai governi di altri Paesi sui loro cittadini. Ora stiamo vivendo un momento in cui ciò che stiamo subendo – confinamento, coprifuoco,limitazioni della nostra libertà di movimento, censura e misure messe in atto a discrezione del governo, aperture e chiusure intermittenti -, fanno assomigliare sempre più il nostro paese alla Palestina. Il Grande Reset che stanno mettendo in atto potrebbe azzerare le differenze, facendoci vivere tutti sotto occupazione. La differenza tra noi e i palestinesi è che mentre noi rischiamo di farci colonizzare anche nell’anima, loro sono sempre stati liberi interiormente sebbene orribilmente oppressi e mai si sono rassegnati. Non si sono arresi perché sanno di essere nel giusto. Credo che però anche noi troveremo il coraggio di opporci alla privazione di senso delle nostre vite”.

Stai scrivendo un altro romanzo, di cosa si tratta?

“Il romanzo che sto scrivendo racconta il vissuto di una famiglia nel periodo che va dal marzo 2020 ad oggi e quindi delle varie fasi che abbiamo attraversato durante questo anno di sospensione della vita. Come ho già fatto nei racconti sulla Palestina, cerco di portare l’attenzione sulle emozioni, sui sentimenti delle persone, sulla loro sofferenza, a sottolineare che non sono dei numeri, ma esseri umani. Spero di potergli dare un lieto fine”.

Info su Miryam Marino e il suo lavoro:

IL TRENO di Miriam Marino per europa edizioni

https://www.europaedizioni.com/prodotti/il-treno-miriam-marino/

http://miryammarino.blogspot.com/

https://www.unilibro.it/libri/f/autore/marino_miriam

 

Il libro è acquistabile su https://www.unilibro.it/libri/ff