Da vittima a colono: rovesciare il paradigma su Israele

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Black Agenda Report. Di Ajamu Baraka. La vita di un palestinese vale poco, e Samir lo ha già capito nella sua breve esistenza di sedicenne che vive da sempre in un regime di occupazione. Per gli amici e i familiari di Samir e per le migliaia di altri “Samir” uccisi dall’esercito e dai coloni israeliani negli ultimi 40 anni, la vita di un palestinese varrà sempre poco, anche quando si arresteranno i bombardamenti, l’esercito ritirerà le forze di terra da Gaza, e la vita sotto assedio tornerà a scorrere nella sua routine di sistematico terrore a bassa intensità.

Le uccisioni, i pestaggi, le esplosioni di gas in spazi ristretti, e le umiliazioni quotidiane ai check-point, le strade separate e i muri di separazione continueranno sempre a ricordare ai palestinesi che sono diversi: che valgono meno, che sono sacrificabili.

Da questo tipo di esperienze, i palestinesi comprendono – così come molti di noi, destinatari della “missione civilizzatrice” del mondo occidentale – che la pretesa dell’Occidente di ritenersi moralmente superiore ostentando la bandiera dei diritti umani universali e il ruolo del diritto è una grottesca menzogna.

Nel corso degli anni, i palestinesi hanno visto come possano morire a centinaia, a migliaia, nella totale impunità e sotto gli occhi attenti dei mass media. E mentre la maggior parte del mondo non occidentale è sorpreso dinanzi all’indiscriminata ferocia dell’attacco israeliano, i giornali occidentali titolano così: “Hamas tiene sotto assedio Israele” e “Hamas terrorizza Israele”— come se le oltre mille vittime palestinesi fossero completamente irrilevanti e prive di valore.

Lo svilimento della vita dei palestinesi cozza contro l’interesse dimostrato per la dignità dei resti delle vittime del volo Malaysia Airlines M17, recentemente abbattuto sui cieli ucraini. Si riflette anche negli argomenti usati dalla propaganda israeliana, che lasciano intendere che i media occidentali dovrebbero smettere di riferire sulle morti dei civili palestinesi, perché così realizzano l’obiettivo strategico dei “terroristi di Hamas”.

Le scene del massacro – corpi senza vita dei palestinesi sulle strade di Shujaiya; intere famiglie stipate nelle auto, che cercano disperatamente di sfuggire alla carica dei razzi israeliani e dei bombardamenti navali; e una terrificante operazione che intende fare terra bruciata, per cui intere comunità sono considerate free-fire zones (“zone di fuoco libero”)  dagli israeliani, ancora non sono sufficienti a generare abbastanza empatia per le vite dei palestinesi  nella maggioranza dell’opinione pubblica statunitense. Secondo un sondaggio recente, il 71% degli intervistati che hanno dichiarato di seguire con attenzione il conflitto israelo-palestinese, ritengono giuste le azione di Israele a Gaza.

E nelle capitali occidentali, i paladini dei diritti umani “universali” sostengono con fierezza il diritto alla “difesa” di Israele contro un popolo prigioniero e sostanzialmente privo di difese, che dovrebbe avere particolari protezioni in virtù delle norme di diritto internazionale.

Le posizioni moraliste assunte da molte persone in Occidente, soprattutto negli Stati Uniti, confermano l’esistenza di una doppia etica – una secondo cui le azioni dello stato di Israele sono considerate legittime, ragionevoli e meritevoli di sostegno, e un’altra secondo cui tutti gli atti di resistenza commessi dai palestinesi, imprigionati e oppressi, vengono visti come criminali, immorali e terroristi.

Questa doppia morale contrappone i non europei agli europei (o comunque a coloro che sono allineati con la cultura dei bianchi e alla civiltà europea, come lo Stato di Israele), si fonda sulla convinzione generalizzata di una superiorità culturale dell’Occidente e su un concetto di umanità diviso tra coloro che sono “come noi” e “gli altri”, con diversi valori comportamentali.

Questo tipo di divisione è sempre stata una componente fondamentale della presunta supremazia dei bianchi, che ha giustificato la conquista, la devastazione e lo sfruttamento di gran parte del mondo non occidentale. La violenza della schiavitù, il genocidio dei Nativi Americani e il colonialismo hanno trovato consenso tra i liberali e nel contraddittorio contesto di un liberalismo maschilista e eurocentrico che divideva l’umanità tra coloro che possono godere di tutti i diritti umani – maschi europei, possidenti capitalisti e, in fondo, la maggior parte delle persone classificate come “bianche”, indipendentemente dalla classe e dal genere –  e tutti gli altri.

Il “fardello dell’uomo bianco”, il “destino manifesto”, la “dottrina della scoperta”, l’“eccezionalismo americano” – e i moderni riferimenti alle guerre umanitarie e alla responsabilità di proteggere, sono tutte manifestazioni dell’arrogante patologia di una visione che vede i bianchi come superiori.

È questo il sublimato quadro di riferimento che Israele sfrutta, per creare un duraturo sostegno morale e politico alle sue operazioni presso larghi segmenti della popolazione europea, e soprattutto nello Stato-simbolo del colonialismo e della supremazia dei bianchi: gli Stati Uniti.

Raffigurata come un’organizzazione incivile, barbara, terroristica, Hamas viene effettivamente disumanizzata, così come la popolazione palestinese di Gaza, visto che ha votato per Hamas alle elezioni del 2006. Per contro, Israele viene contrapposto come entità innocente, civile e umana.

Proponendosi come civiltà superiore, Israele tenta di scaricare ogni responsabilità sui diritti umani; in virtù della sua natura di società “civile” (ovvero “occidentale”), umana e razionale, Israele, per definizione, non può essere accusata di essere responsabile di una massiccia violazione dei diritti umani.

Per contro, sono le azioni della resistenza palestinese a essere evidenziate, perché quella resistenza fornisce un’arma utile alla narrativa costruita da Israele sulla “diversità” palestinese, per cui la loro legittima resistenza viene invece dipinta come un’ulteriore prova della loro condizione di sub-umanità.

Secondo il primo ministro israeliano Benjamin Natanyahu, il valore della vita umana è diverso per i palestinesi e i loro leader, che sfrutterebbero i “telegenici morti palestinesi” per la loro causa. Il corollario logico a questa posizione è che è perfettamente comprensibile e giustificabile il dovere di Israele di uccidere centinaia di “loro” per garantire la propria sicurezza da questa popolazione “barbara” che avrebbe una naturale propensione alla violenza, se non fosse arginata e sistematicamente terrorizzata per essere sottomessa.

Per gli attivisti che solidarizzano con il desiderio palestinese di auto-determinarsi, scardinare l’egemonia della narrativa del “colono innocente” è fondamentale, per contrastare la propaganda che giustifica la violenza coloniale dello Stato di Israele. Fare questo significa porre il colonialismo e la supremazia del bianco come categorie di analisi basilari e come contesto concettuale di riferimento.

Non è di certo un argomento nuovo o che non sia mai stato preso in considerazione, ma per diverse ragioni, tra cui le infondate accuse di antisemitismo, molte comunità progressive e radicali degli Stati Uniti hanno escluso questo tipo di approccio.

L’altra difficoltà consiste nel fatto che la locuzione “supremazia del bianco” è stato ridimensionata e fatta coincidere semplicemente con la nozione di “razzismo”. In questo contesto, i suoi sostenitori vengono identificati nei bersagli facili come Donald Sterling e i membri del Tea Party, mentre si sorvola sull’imperialismo di stampo razziale.

Per ricollocare la posizione di Israele nell’immaginario collettivo, gli attivisti devono superare queste due problematiche: solo così i movimenti per la solidarietà e la giustizia come quello per  boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) hanno qualche possibilità di diventare meccanismi di solidarietà efficaci.

Senza il pregiudizio razzista della visione coloniale/imperialista che pone Israele come vittima, lo Stato di Israele e le politiche condotte a Gaza si spogliano dai fuorvianti orpelli dell’auto-difesa e dell’interesse per i civili palestinesi.  Dismettere la doppia morale, in nome dei principi dell’uguaglianza tra esseri umani e del rifiuto di ogni forma di oppressione  disumanizzante significherebbe identificare in modo chiaro la reale vittima del dramma in corso nel conflitto israelo-palestinese. E siamo sicuri che questa non sarebbe lo Stato di Israele.

Ajamu Baraka è un attivista di lungo corso. Attualmente è  ricercatore presso  l’Institute for Policy Studies (IPS) a Washington, D.C., oltre che redattore e  editorialista della Black Agenda Report. Baraka è stato presidente dell’US Human Rights Network (USHRN) da luglio 2004 a giugno 2011. Ha collaborato con molte organizzazioni nazionali e internazionali, tra cui Amnesty International (USA) e il National Center for Human Rights Education. Attualmente collabora con Center for Constitutional Rights; Africa Action; Latin American Caribbean Community Center; Diaspora Afrique; e il Mississippi Workers’ Center for Human Rights. Il suo sito internet è www.ajamubaraka.com

Traduzione di Romana Rubeo