Dei boicottaggi e della guerriglia comunicativa.

Da http://www.hawiyya.org/wordpress/2008/02/14/dei-boicottaggi-e-della-guerriglia-comunicativa/

Dei boicottaggi e della guerriglia comunicativa

Hawiyya è stata ed è impegnata molto dalla Campagna “Il Pessottimista” in favore di Mohammad Bakri – tutt’ora in corso – una campagna basata sul principio della libertà di espressione; inoltre dall’aver dato vita a “MediAzione, progetti per il diritto all’informazione” attiva da gennaio, per ora, su Siena.
Due progetti con un filo conduttore: il diritto. Alla massima libertà di espressione; ad una informazione completa e non “suggestiva”.
Con questa premessa vorremmo dare, oggi, un nostro contributo a quanto emerso sulla questione della Fiera del Libro di Torino.
Solo oggi, anche grazie in particolare a due “sollecitazioni”.
La prima, proveniente da “Nazione indiana” (
http://www.nazioneindiana.com/2008/02/13/ancora-sulla-fiera-del-libro-di-torino/); la seconda da un intervento di Sherif El Sebaie sul proprio blog (http://salamelik.blogspot.com/2008/02/israele-la-fiera-e-le-polemiche.html) in cui vi sono precisazioni non di poco conto.

Potremmo iniziare proprio dal concetto “boicottaggio”.
Quello operato da atenei britannici nei confronti di atenei israeliani è un boicottaggio. Ha conseguenze oggettive, pratiche, fastidiose (per chi lo subisce).
Parte, cioè, da chi è in grado di boicottare.
Ancora.
Annuncio un boicottaggio quando so che, dal punto di vista (secondario?) della comunicazione so e posso raggiungere altri da coloro che, comunque, boicotterebbero: cioè eviterebbero l’oggetto del boicottaggio.
Infine.
Tengo conto, a monte, delle armi e delle forze che ho – effettivamente – per avere una ragionevole certezza che le motivazioni di detto boicottaggio giungano correttamente all’opinione pubblica “altra” (la stragrande maggioranza) da chi mi legge/ascolta già.

Le motivazioni del boicottaggio.
Sacrosante.
Israele ottiene l’ennesima vetrina internazionale attraverso una classica operazione di marketing politico.
… E allora? Israele è tra gli “inventori” del marketing politico. Lo pratica, ante litteram, dall’inizio del ‘900.
Ogni sua azione, dichiarazione, pensiero è marketing politico.

La questione, quindi, è ben altra.
Come possiamo seriamente e realisticamente (oggettivazione delle forze disponibili) portare a conoscenza la “gente” che si tratta, appunto, di marketing politico?
Affrontandolo di petto (scontro in campo aperto) oppure “aggirandolo” (tecnica da guerriglia)?
Il boicottaggio equivale ad accettare lo scontro in campo aperto, cosa che per sparuti gruppi di guerriglieri equivale al suicidio (e neanche con l’onore delle armi).
Il motivo è semplice ed antico (quindi conosciuto e riconosciuto): i mezzi d’informazione sono scorretti. Sono condizionati, sono comprati, sono codardi, sono ignoranti. Da oggi?
Le motivazioni del “boicottaggio” arriveranno davvero alla “gente”?
Ovviamente no.
Arriveranno invece le INEVITABILI accuse di antisemitismo, di insensibilità, di attacco alla cultura.
Per di più, se quanto scrive Sherif El Sebaie è esatto (rinuncia dell’Egitto non “scippo” israeliano) avranno la ciliegina sulla torta: che, cioè, è stato il pretesto per l’ennesimo attacco al povero e piccolo Israele, quindi al sionismo, ergo all’ebraismo tutto.

Risultati: il tutto, e non certo per la prima volta, si trasformerà in un boomerang … che colpirà non noi, ma i palestinesi: la percezione dei loro diritti, degli orrori subiti, della loro confermata negazione, ancora una volta risulterà (agli occhi della “gente”) stravolta, capovolta, contraddetta.

Proviamo ad ipotizzare quale poteva/potrebbe essere un’azione che utilizzi metodi da guerriglia.
Il presupposto è il senso della misura: la consapevolezza che non è altro che una battaglia, una delle tante. Momento tattico e, come tutte le fasi tattiche, con potenzialità strategiche, se saputo utilizzare con intelligenza e saggezza.
Conoscendo e riconoscendo i metodi e le finalità dell’avversario, l’obiettivo dovrebbe essere quello di ribaltare la situazione – utilizzare una sorta di judo comunicativo: uso la sua forza/argomento per favorire la sua caduta/sputtanamento.

Gli amici di “Nazione indiana” lo hanno indicato chiaramente: la Fiera è dedicata ad Israele? Si. Noi possiamo – realisticamente – impedirlo? No.
Bene, in nome della vera libertà di espressione – quella di cui si vanta Israele – vogliamo che tutta l’intelligencija israeliana possa farsi conoscere: anche “the other side of Israel” (come titola il libro dell’israeliana Susan Nathan, che sicuramente andrebbe fatta ascoltare). Vogliamo che sionisti critici, post-sionisti, anti-sionisti, palestinesi d’Israele abbiano uguale dignità (giusto qualche nome oltre quelli ricordati dall’intervento in “Nazione indiana”: Michel Warshawski, Akiva Orr, Moshe Machover, Lenni Brenner, Meron Benvenisti, Noel Ignatiev, Benjamin Mehrav, Antony Loewenstein, Yael Lerer, (che pubblica testi arabi in ebraico), Tom Segev – ha appena pubblicato un libro sul ’67, Oren Yiftachel, Moshe Zuckermann, Smadar Lavie; e ancora, suggerire che si espongano e si dibattano libri di Martin Buber e Anna Arendt, come quelli di Emil Habibi [e perché non trovare un teatro che, nei giorni della Fiera, ospiti “Il pessottimista” con Mohammad Bakri, e/o organizzare proiezioni di film: invitando Eyal Sivan, Osnat Trabelsi, Juliano Mer, Benny Brunner] ….).

Insomma chiedere e lottare, informare e comunicare che non siamo affatto contro cultura ed arte, ne vogliamo “censurare” nessuno (quella è arte loro), anzi!
Chiedere, un po’ stupiti, agli organizzatori “volete forse voi censurare arte e cultura?” Volete tener fuori pensatori ed artisti non-allineati? In un Paese cotanto democratico?

Se riuscissimo a concentrare e far convergere tutte le voci che in Italia hanno sinora protestato contro, in una protesta “pro”, in favore della massima libertà di espressione culturale-artistica il boomerang chi se lo piglierà in testa?

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