Demetra, terra madre di Palestina, e la festa delle donne.

Il 21 marzo è il primo giorno di primavera, il giorno in cui, secondo la mitologia Greca, la dea della terra Demetra può incontrare nuovamente sua figlia Persefone, rapita da Ade, re degli inferi, per farne sua moglie. Dal momento del ratto la vita sulla terra si fermò e la disperata Demetra cominciò ad andare in cerca della figlia perduta, senza occuparsi più delle messi e della terra. Per questo  Zeus, non potendo più permettere che la terra stesse morendo, costrinse Ade a lasciar tornare Persefone; ma prima di lasciarla andare, Ade la spinse con un trucco a mangiare quattro semi di melagrana magici, che l’avrebbero da allora costretta a tornare nel mondo sotterraneo per quattro mesi all’anno. Da quando Demetra e Persefone furono di nuovo insieme, la terra rifiorì e le piante crebbero rigogliose ma per quattro mesi all’anno, quando Persefone è costretta a tornare nel mondo delle ombre, la terra ridiventa spoglia e infeconda. Questi quattro mesi sono chiaramente quelli invernali, mentre il ricongiungimento tra madre e figlia avviene con l’inizio della Primavera. Primavera quindi anticamente legata alla relazione madre-figlia, e forse è per questo che il primo giorno di primavera, il 21 marzo, in Palestina è la festa delle madri, o forse, più semplicemente ma anche tragicamente, in onore al ruolo vitale che le madri hanno per questa terra di orfani e di vedove. Perché le donne palestinesi, in gran parte madri giovani, sono la parte delle popolazione che più subisce gli effetti dell’occupazione, che si sommano all’oppressione ancora forte da parte dei valori della tradizione patriarcale che, come ci hanno raccontato alcune donne in manifestazione l’otto marzo a Ramallah, stanno prepotentemente riacquistando forza in una società sempre più frammentata dal muro della vergogna e dai check points.

Ciò che più fa soffrire le madri palestinesi sono i figli in prigione o quelli assassinati, come ci  conferma Hita Bargouthi, che proviene da un villaggio vicino a Ramallah,  e che, dei cinquanta anni della sua vita ricorda i momenti più dolorosi, quando perse il figlio di 15 anni, ucciso dai soldati israeliani, o quando fu arrestato un altro figlio che tuttora è in prigione. Quando il marito e i figli maschi non ci sono tocca a loro, alle madri, sostenere economicamente la famiglia, lavorando fuori e al contempo continuare  a condurre il menage familiare. Tocca a loro salvare dalle macerie delle case demolite dall’esercito,  o dai coloni, i pochi oggetti rimasti, asciugare le lacrime dei bambini e ricostruire un’altra dimora, in un altro posto o in un campo rifugiati. Tocca alle madri incoraggiare le giovani figlie ad andare a scuola, nonostante i check points e le difficoltà per raggiungere le classi. E tocca a loro pagare il prezzo maggiore dell’isolamento dovuto dall’occupazione, restando spesso confinate in ambiti chiusi e opprimenti, quali, appunto, la famiglia.

Madri palestinesi che, in quanto madri, capiscono la sofferenza delle madri israeliane di Sderot o Ashkelon, quando dalla Striscia di Gaza arrivano i tanto famosi quanto spesso solo fumosi  razzi Qassam che feriscono o a volte uccidono i bambini israeliani di queste misere cittadine di frontiera. Le madri palestinesi capiscono, ma non confondono le carte, non mettono sullo stesso piano due realtà così lontane: lo leggiamo in una lettera aperta di una madre palestinese, Najwa Sheikh che vive nel campo profughi al-Majdal a nord della Striscia di Gaza, dove è nata e dove ha avuto 3 bambini. Najwa ha scritto ad una madre di Sderot, Rima Haimov, il cui figlio di 10 anni è stato ferito da un Qassam: “cara Rima”, scrive Najwa, “quando ho saputo di tuo figlio mi è dispiaciuto e ho provato solidarietà umana con te.  Ma ho anche pensato che tuo figlio ha avuto subito le cure migliori, l’affetto di tutti i suoi familiari, con i quali al prossimo allarme si può nascondere nei perfetti bunker che voi avete. Mio figlio invece, i bambini che sentono gli attacchi degli F16 israeliani, non hanno rifugi dove andare, non hanno medicine né cure se vengono feriti; e non hanno i familiari che li assistono, perché i miei figli, come molti figli della Palestina, sono orfani e loro non sono più bambini, anche se hanno 6, 8 o 10 anni. A loro l’infanzia è stata rubata, loro non giocano né sognano più perché devono preoccuparsi di salvare ogni giorno la loro vita e di procurare il sostentamento la famiglia decimata. I figli della Palestina, qui a Gaza soprattutto, battono i denti dal freddo nelle sere d’inverno, al buio perché il vostro stato ci taglia l’energia e ci tiene sotto assedio. Quindi capisco il tuo stato d’animo in questo momento di sofferenza, ma non posso dimenticare chi è occupante e chi è occupato”.

L’essere madre insomma non annulla le differenze, non si è madre in Palestina come lo si è in Italia, in America Latina o nel vicino stato di Israele. Il 21 marzo quindi, con l’aria frizzante e con terra che si risveglia, pensiamo alle madri palestinesi, e alla madre terra Palestina, Demetra dei giorni nostri, madre feconda e guerriera sogna solo giustizia e pace per le sue figlie e i suoi figli.

 

 

Irene Ghidinelli Panighetti, Ramallah

 

 

 

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