Di ritorno da Gaza, Angeli e Demoni in Palestina.

Di ritorno da Gaza, ANGELI E DEMONI IN PALESTINA.

Di Fulvio Grimaldi.

Un arabo frustrato di nome Raja Shemayel sul suo blog la definisce così: “Prendete un pezzo di terra lungo 40 km e largo all’incirca 5. Chiamatelo Gaza. Poi riempitelo con un milione e 400mila abitanti. Dopodichè circondatelo con il mare a ovest, l’Egitto di Mubarak a sud, Israele a nord e a est e chiamatela la Terra dei Terroristi. Poi dichiarate guerra e invadetela con 232 carri armati, 687 blindati, 43 postazioni di decollo per jet da combattimento, 105 elicotteri armati, 221 unità di artiglieria terrestre, 346 mortai, navi da guerra, 3 satelliti spia, 64 informatori, 12 spie infiltrate, 8000 truppe. E ora chiamate tutto questo “Israele che si difende”. Adesso fermatevi un momento e dichiarate che “evitate di colpire la popolazione civile” e definitevi l’unica democrazia in atto… Chiamate tutto questo come volete. Israele era perfettamente al corrente della presenza di persone disarmate  (l’85% dei 1.455 ammazzati nel massacro delle tre settimane erano civili, il 30% bambini. N. d. A) perché è stato proprio Israele a metterle lì (due terzi della popolazione di Gaza sono profughi del 1948 e loro discendenti. N.d.A.). E’ allora chiamatelo genocidio, è più credibile… Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua ha dichiarato ieri al giornale “Haaretz”: Uccidiamo i loro bambini oggi, per salvarne tanti domani”.

Restiamo umani.

 

Vittorio Arrigoni, volontario in Palestina, chiudeva così quei pezzi da Gaza che, sul solo “manifesto”, davano voce ai  senzavoce di Gaza nel corso dell’aggressione 27 dicembe 2008 – 18 gennaio 2009 e seguenti. Gli italiani perbene e da lui disintossicati gli hanno già fatto un monumento nel loro cuore. Era tornato a Gaza qualche giorno prima dell’assalto sui battelli del “Free Gaza Movement”. Uscito su pescherecci nel mare proibito ai pescatori di Gaza, era stato intercettato e sequestrato dalle motovedette israeliane. Sbattuto in una fetida prigione, aveva imposto il suo rilascio con uno sciopero della fame. Non ci ha pensato su due volte a riprendere la nave di Cipro e tornare tra i “suoi”. Gli hanno sparato e risparato, anche dopo la “tregua”, un sito sionista ha invitato a ucciderlo, ha visto sventrare le ambulanze e cadere gli infermieri con cui correva in soccorso ai feriti, le rare volte che le belve con la Stella di Davide lo consentivano. Ha disintegrato la panna montata delle menzogne politiche e mediatiche con cui un’armata di ascari dei due Stati Canaglia, Usa e Israele, soffocava lucidi neuroni e impediva giusti moti del cuore. Due mesi dopo una “tregua” che è costata altri undici morti ammazzati, bombardamenti quasi giornalieri, il terrorismo dei tiri al bersaglio a contadini senza più campi e pescatori senza più mare, Vittorio è sempre lì. Non è andato a casa, a tirarsi fuori dall’inferno, a ritemprarsi dai suoi, dalla ragazza. E’ ancora lì, tra quei contadini, quei pescatori, quei resistenti, quei mutilati e quei bimbetti ai quali gli scherzi con Vittorio sanano ferite e recuperano la risata. Ho incontrato Vittorio Arrigoni a Gaza, siamo diventati amici. Un italiano che ti riconcilia consto paese sbrindellato e malfamato. Diceva Fabrizio De André: “Dalla melma nascono i fiori”.    

Siamo seduti accanto, Zenab ed io, su una branda nell’edificio mezzo sventrato e riempito di graffiti dispregiativi dai militari invasori, tipo “Ammazza gli arabi”, “Torneremo”, “Israele è stato qui”, “Vi uccideremo tutti se non vi togliete dalle palle”. Poi ci sono le decorazioni: una serie infinita di stelle di Davide, merda spalmata sulle pareti, tutto quello che c’era in casa scagliato dalle finestre a schiacciare sotto una confusione di colori ormai stinti – panni, quadri, libri, pentole, coperte, materassi, mobilia – quello che era un giardino. Siamo a Zeitun, quartiere della periferia est di Gaza City disintegrato dalla colonna di tank israeliana che qui è stata fermata dalla guerriglia. Quando i prodi soldati di Tsahal, polverizzate con i cannoni, gli F16, gli Apache, le costruzioni che si trovavano davanti, perlopiù con tutta la gente dentro, venivano affrontati nel corpo a corpo dalla Resistenza, l’avanzata finiva. Nel combattimento casa per casa, di cui sono testimonianza le migliaia di fori sulle case subito dietro l’area spianata da bombe e proiettili, questi eroi dell’ “autodifesa”, abituati da anni a infierire sui ragazzi e sulle donne delle pietre e delle manifestazioni, poi duramente bastonati dagli Hezbollah in Libano, se la facevano sotto e invocavano la mamma. Lo conferma una confessione scritta sulle pareti tra le ingiurie alle vittime: “Mamma, fammi tornare a casa”. 

Zenab ha tredici anni, bionda, occhi bruni chiari, le mani serrate in grembo. Sorride solo quando una turba di bimbetti dai due ai cinque anni, fratelli, cugini, salta sul materasso come fosse un piano elastico, facendo ballare la mia telecamera. Fuori dalla finestra, chiusa da teli di plastica, si dilata a perdita d’occhio un mare di macerie fino ai campi che coprono le poche centinaia di metri prima delle torrette di guardia israeliane. Quelle dalle quali, sparandogli addosso, i cecchini si divertono a far saltare le cervella ai contadini affamati che si peritano di affacciarsi sulle loro colture in rovina. Si chiama “tregua” ed è costata la vita a 13 civili già nelle prime due settimane dopo il 18 gennaio, data dalla quale l’onesta informazione italiana fa partire il cessate il fuoco israeliano. Nello stesso periodo qualche decina di minirazzi si sono persi tra gli sterpi oltre confine. Di quelli si parla, senza peraltro citare le ripetute dichiarazioni di Hamas che ne smentiscono la paternità. Gli israeliani sono i migliori al mondo nelle provocazioni. Bisogna pur offrire ai media voraci di vittimismo israeliano un alibi per i quotidiani bombardamenti da “tregua” su Rafah e su quel protocollo salvavita che sono i tunnel verso l’Egitto.

Quella distesa di rovine, tra le quali spunta, spaccata a metà, la cupola d’oro della moschea, una delle trenta rase al suolo, erano le case della grande famiglia Samudi. Zenab è una Samudi. Le sono stati ammazzati 29 parenti, tra cui la mamma, il papà, tre sorelline, una cuginetta. Di questi ha vissuto la fine. E me la racconta. La mamma e le bambine erano state bersagliate dai proiettili dei carri mentre se ne stavano rintanate in quella che gli era sembrata la stanza più sicura. All’avvicinarsi notturno dell’aggressore avevano voluto fuggire verso il centro città, ma gli israeliani li avevano costretti a rinchiudersi in quella casa. Poi avevano aperto il fuoco. Così in tante altre occasioni, ovunque, a Jabalia, Abed Rabbo, Khan Yunis, Rafah… Un loro capo di Stato maggiore non aveva prefigurato i palestinesi come “scarafaggi impazziti in fuga da una bottiglia”?  Con la differenza che qui, agli scarafaggi, era anche stata tappata la bottiglia.

La mamma era piena di schegge, ma aveva gli occhi aperti e respirava, respirava. Io la chiamavo lei mi guardava fissa, poi non respirava più. La chiamavamo, la chiamavamo. Anche alcune delle mie sorelle non si muovevano più. Guardando in giù, vedevamo i nostri piedi strisciare nel sangue. Mio padre, allora, ci ha detto meglio morire insieme alle nostre case là fuori, andiamo. Prendemmo degli stracci bianchi e ci affacciammo. C’erano tutt’intorno le sagome dei carri con i cannoni puntati su di noi. Nessuno ci disse niente e noi, col papà avanti, ci avviammo. Eravamo una lunga fila, tutti con gli stracci bianchi”. Poi Zenab passa inconsapevolmente al presente: “Facciamo il giro della casa, camminiamo tra calcinacci e spuntoni di ferro, quando parte un colpo, poi altri, sibili dopo sibili e schegge che schizzano dai muri. Papà cade per primo, poi altri, nel buio non capisco chi.

Da dietro arriva d’improvviso la sirena di un’ambulanza, ma gli spari aumentano e vanno anche in quella direzione. Si sente come una grossa martellata sul metallo, uno schianto come quando si scontrano due automobili. E la sirena non suona più. Ci mettiamo a correre, sempre con le pezze bianche in alto. Ancora spari…

Zenab è salva. Oggi parla come una donna adulta. Mi guarda con il viso immobile. Solo le labbra si muovono. E’ una grazia che intorno le razzolino tutti quei fantolini vispissimi, impegnati a spintonarsi davanti all’obiettivo – “sura! sura!, foto! foto! – o a giocare alla guerra con dei legnetti. La guerra vera a uno di loro, scarsi due anni, ha maciullato una mano: mancano quattro dita, mezzo palmo, resta un mozzicone di pollice. Me la mostra, quella manina massacrata, e me ne cerca l’effetto negli occhi. O una spiegazione, chissà.  Non c’è migliore infanticida di Israele. Di Zenab, della sua cuginetta di dieci anni, Duna, con gli occhi neri tagliati obliqui, la coda castana sulla nuca e sulla faccia il miracolo della gravità mescolata alla gentilezza, ce ne sono tante quanti sono i fratelli e le sorelle dei 400 bambini scannati in tre settimane. Un centinaio subito il primo giorno, quando le orde volanti israeliane arrivarono intorno alle 11.30, a colpire nel mucchio scolaretti e studenti che a quell’ora sciamavano per le strade nel cambi di turno. Non si fa forse così un genocidio, ai termini della definizione datane dall’ONU? Chissà se a tutti questi sarà di beneficio quello che il gruppo di generosi medici liguri, al quale mi sono accompagnato nel viaggio d’andata, riporterà in Italia, tra un’opinione pubblica rinserrata nella menzogna mediatica, ma forse ancora aperta alle lacrime e alla mano da offrire ai più dannati dei dannati bambini della Terra.

Ci avevano bloccati al valico egiziano di Rafah, noi, volontari solidali da mezzo mondo. italiani del Forum Palestina con le somme raccolte per l'ospedale “Al Awda” di Jabalia, statunitensi, francesi, inglesi, irlandesi, tedeschi… Una turba un po’ stracciona che si accalcava sui cancelli presidiati da poliziotti in nero, gentili, inflessibili: non si passa.  Si erano accampati sul pavimento di cemento della bottega di Mohammed, a fianco dei cancelli. Avevano resistito tre giorni e due notti, con conciliaboli tra “capogita” e funzionari doganali, ossessive telefonate alle rispettive ambasciate a invocare quel pezzo di carta che, secondo i guardiani del confine, ancora mancava, i chai caldi, tè, e i cahua, caffè turco, con merendine, del giovialone dai sorrisi sdentati Mohammed, sempre guardati a vista da poliziotti, che invano avevano tentato di spintonarli via, a volte assordati dalle bombe che gli energumeni sugli F16 lanciavano a ridosso del confine, sui tunnel. Magari anche sull’apprensività degli “internazionali”, che si spaventassero e rinunciassero a sostenere gli “scarafaggi” riportando al mondo l’evidenza che Israele è uno Stato fuorilegge, primatista mondiale di razzismo (come sentenzia il documento ONU per la convenzione “Durban 2”), criminale. D’improvviso, al tramonto, i cancelli si socchiudono. Proprio quando ormai si stava diffondendo il timore che non si sarebbe mai passati e che ci saremmo dovuti rassegnare a raccontare a casa quanto infame fosse la subalternità del despota gerontocrate Mubarak allo Stato sionista e quanto cinica la sua collaborazione nel tirare il cappio intorno a un popolo di insanguinati e affamati che, con le belve alle calcagne, premevano disperati su quei cancelli e su quella muraglia che l’Egitto ha copiato dal muro di Sharon.

Il blocco israelo-egiziano (non c’è foglia che si muova al Cairo che Israele non voglia) s’infrange al terzo giorno. Di colpo, senza spiegazioni. E passiamo col cuore in gola, anzi col cervello nel cuore che ha messo la quarta. Non è che si sia compiuta un’impresa epocale, come alcuni avrebbero subito strombettato. Prima di noi qualcuno aveva già disfatto la tela della collusione israelo-egiziana. Ce l’avevano fatta Angela Lano di Infopal, un’altra grande voce per la Palestina, quelli semigovernativi di Crocevia, la troupe Rai di Jacona… Noi avevamo semplicemente contribuito a svelare la strategia israelo-italo-egiziana di rendere il blocco impenetrabile o, almeno, eccessivamente faticoso da superare. Ma dopo di noi la crepa diventa subito voragine, in fondo al quale il regime del satrapo si nasconde davanti allo scandalo internazionale e tra le proprie masse della sua miserabile correità. Appeso ai muri della monumentale porta resta lo striscione “Palestina Libera”. Ci segue la carovana delle 60 infuriatissime donne Usa dell’associazione “Code Pink” , Codice Rosa,  tra le quali scorgo le facce sorridenti e tenere dei genitori di Rachel Corrie, la martire della brigata internazionale di resistenti passivi, schiacciata a Gaza da una ruspa israeliana, davanti alla casa che voleva preservare dall’annientamento. Mi diranno che la morte di Rachel ha dato nuova vita a loro e a tantissimi negli Stati Uniti, una vita che da allora si mescola con quella che scorre nelle vene di coloro che stanno tornando per l’ennesima volta ad abbracciare. Due giorni dopo entra anche l’incredibile colonna del deputato britannico George Galloway, segretario del partito Respect . Lui e la sua gente è come se confermassero la sentenza capitale per ignavia ai partiti di sinistra italiani. Sono 150 tra camion zeppi di rifornimenti vitali, ambulanze nuove di pacca, pescherecci, furgoni. Impossibile sia per i macellai di Tel Aviv, sia per il loro magazziniere egiziano stoppare quel convoglio, anche perché viene dal Regno Unito e Galloway è, dopotutto, un parlamentare di Sua Maestà. Lo zimbello successore dei faraoni si consola bloccando nello stadio di El Arish, a due passi dal confine, qualche centinaio di tonnellate di generi di prima necessità portate da organizzazioni umanitarie varie, roba ormai da macero. Per passare, un centinaio di robusti figli di Albione hanno dovuto fare a botte con una specie di Celere egiziana. I cardini dei portali di Rafah sono dunque stati mossi anche dell’imbarazzo spurgato da giornali che urlavano “scontri tra volontari britannici e polizia egiziana comandata a impedire l’arrivo di cibo a farmaci a Gaza”.

Le terre, i centri abitati che risalgo verso Gaza City, dopo averli frequentati sotto lo stivale dell’occupante, allora impegnato nelle distruzioni selettive e  negli assassini in serie mirati con corredo di civili trucidati dall’effetto collaterale, danno corpo alla cifre accertate dalle agenzie ONU, dalla Croce Rossa e da altre organizzazioni  come “Amnesty International” o la rivista medica “Lancet”. Cifre che rivelano quanto bravo sia Israele a polverizzare case, devastare ambienti, colture, infrastrutture, punire collettivamente sterminando inermi, preferibilmente di genere femminile (procreano!) e di precoce età (crescono!), sperimentare per la seconda volta, dopo il Libano, le armi antipersona che feriscono e uccidono tra spasimi prolungati, mutilano per sempre, avvelenano per generazioni. Tutte cose che, secondo il diritto internazionale e la Quarta Convenzione di Ginevra fanno di un occupante, di un regime, l’imputato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma, intanto, imputato è Omar el Bashir, presidente di un paese che non si piega ai ricatti e alle minacce sioniste ed imperialiste e contro la cui sovranità e indipendenza quelle forze hanno scatenato una sanguinosa secessione in Darfur. Al riottoso Sudan, un paese sul quale il colonialismo britannico ha infierito nel solito modo barbarico e che alla Corona ha inflitto sconfitte memorabili, deve essere insegnato che a comportarsi così si finisce come l’Iraq, l’Afghanistan, la Palestina, la Jugoslavia, si finisce preda dei cannibali. Ha il torto di stare con i palestinesi e i liberi iracheni, El Bashir, di privilegiare per opere e petrolio una Cina assai più equa nei rapporti degli avvoltoi occidentali, di aver respinto tutti i tentativi di destabilizzazione orditi da Usa, UE, Israele, Vaticano, fin dai tempi in cui il Sudan veniva azzannato da Sud. Apprendiamo dalla tv di Hamas a Gaza che il presidente sudanese è stato incriminato dal Tribunale Penale dell’Aja e che ne è stato chiesto l’arresto. All’Aja hanno processato e fatto morire il difensore della Jugoslavia unita e socialista, Slobodan Milosevic. I giudici dell’Aja, non si sognano di incriminare Olmert, o Bush, o il fantoccio iracheno Al Maliki, trapanatore di crani, o l’Uribe colombiano delle stragi di Stato di contadini e sindacalisti, o il comatoso Sharon, o il serial killer kosovaro Hashim Thaci, oggi premier di un narcostato Nato. Ma Omar El Bashir è un arabo e gli arabi vanno dispersi, è un musulmano e serve allo “scontro di civiltà” e, come questi qua di Gaza, tiene la schiena dritta.

I terreni squarciati dai cingoli dei tank e dalle ruspe, gli uliveti, frutteti, campi di carciofi, fragole, cavoli, melanzane, grano, sradicati e sconvolti, un rosario di costruzioni abbattute, le acque stagnanti e putride attorno alle centrali elettriche colpite e ai pozzi sfondati, le moschee violate e disintegrate, le scuole e gli ospedali tolti di mezzo per impedire la vita della mente e del corpo.

Il milione e mezzo di tonnellate di esplosivo, cinque bombe di Hiroshima, scagliate, dopo decenni di  ammazzamenti e angherie e tre mesi di embargo strangolatore (285 assassinati, 800 feriti), da quel Mazinga feroce e imbelle su un milione e mezzo di brave persone civili raggrumate nel formicaio dei 360 km quadrati, oltre ai 1.455 morti, con altri che continuano a cedere alle loro ferite e intossicazioni, e ai 5.500 feriti, perlopiù irrimediabili, hanno guadagnato a Israele il seguente bottino: 600mila tonnellate di detriti da 14mila case, per centomila sfollati ridotti in tende, tuguri, caverne sotto i lastroni delle macerie e da 68 strutture di governo e amministrazione, 48 centri sanitari, 179 scuole pubbliche, 153 moschee tra distrutte e danneggiate, 11 milioni e centomila metri quadrati di terre coltivate, 141mila ulivi, 137mila alberi di agrumi, 10mila palme, animali da allevamento per 20 milioni di dollari, 115 ettari di serre, 75 km di strade agricole cancellate, 48 km di acquedotti, 415 pozzi e stagni di raccolta sfondati, il 93% delle strutture commerciali e industriali, per un danno complessivo di due miliardi e 734 milioni di dollari, e una perdita del 48% di un PIL espresso dall’80% di disoccupati e dal 70% di indigenti da embargo sotto il livello di povertà.

Al passivo del bilancio, Hamas in piedi e in ascesa verticale di consensi. Due mesi dopo il massacro un sondaggio in tutti i territori occupati dà al primo ministro Haniyeh, di Hamas, il 47% delle preferenza per presidente della Palestina, contro il 44% del titolare in proroga, il rinnegato Abu Mazen. Tre mesi prima l’ominicchio che si protegge dalla rabbia popolare con le truppe occupanti e i pretoriani armati e addestrati da generali Usa in Giordania, stava al 47%. Ma poi aveva dichiarato che l’olocausto di Gaza era colpa dei razzi Kassam di Hamas. Nell’attivo dell’umanità, poi, va registrata la resistenza vincente di un popolo che, percosso e stremato, ha sollevato ancora più in alto le bandiera della libertà e della dignità: “Restiamo umani “, invocava dal mare di sangue Vittorio Arrigoni. Quelli di Gaza lo hanno ascoltato. Invece va nettamente collocato nella colonna del passivo umano quel 96% di cittadini israeliani che, gasati dalle atrocità dei propri miliziani, ha sostenuto il massacro, il 61% che vuole cacciare i palestinesi cittadini di Israele (il 24% nel 1991), l’80% che non accetta arabi nel quadro dello Stato (nel 2000 era il 67%). A costoro la voce di Arrigoni non è arrivata.

La sedicente “comunità internazionale”, che compatta aveva sostenuto l’ignominia dell’ “autodifesa” al fosforo e all’uranio di Israele, riunita a Sharm El Sheik a marzo, ha stanziato circa 4 miliardi di dollari per ricostruire quanto l’assalitore aveva demolito. C’era da far guadagnare le proprie ditte e far guadagnare un Abu Mazen rimesso in sella. Ma a Gaza non si ricostruisce un bel nulla, mentre ruba dai fiumi e dalle cave di Cisgordania, per la superfetazione delle sue colonie illegali, il materiale edile che non possiede, Israele mantiene su cemento, mattoni, ferro e tutto il resto il blocco più assoluto. Se non sono scappati dalle bombe,  se ne andranno pure per non vivere in eterno sotto cartoni e nelle tende. O, quanto meno, vi si estingueranno. Dimenticano, i pulitori etnici sionisti, che quel popolo nelle tende ha vissuto e resistito, chiavi di casa in mano, per decenni.

Uscito dalla casa che ora accoglie i sopravvissuti della famiglia Al Samuni, tra dune di calcinacci e ferraglie, vedo baracchette di plastica dai due, tre metri quadrati. In una trovo una famiglia di padre, madre e sette bambini a negare l’impenetrabilità dei corpi. Con i teli schiaffeggiati dal vento gelido, quei ricoveri paiono vele in un mare dove la spuma delle onde sono le polveri dei mattoni disfatti. I ragazzi più grandi rovistano tra i frantumi alla ricerca della coperta, del tegame, del quaderno. La madre, vedendomi arrivare, si precipita all’interno a rassettare le quattro miserie recuperate. Nell’angolo c’è un fornellino improvvisato con due mattoni e una griglia. Sopra, due pannocchie di granturco e sei pomodori. E’ il pranzo. Dopo, andranno ai tendoni dell’Unicef e dell’Unrwa a ritirare il pacco settimanale: riso, zucchero, sapone, fave. Coloro che stanno meglio si sono riuniti, in affollamenti disumani, a congiunti e amici in città. Chi sta peggio sono quelli come Mahmud, sepolto nell’oceano di macerie dell’area periferica Abed Rabbo. Lo trovo sotto la minaccia incombente del primo piano della sua casa che, spaccato in tre pezzi, si è in parte piegato a fare da tettoia al pianoterra. Tra i ferri del calcestruzzo si intravvede il cielo e si percepisce il fischio del vento. Mahmud ha cinquant’anni e quella casa l’aveva costruita per una famiglia di 26. Sei sono stati annullati dai serial killer  della Grande Israele, gli altri sono sparsi per ogni dove lungo la Striscia, due in ospedale a continuare farsi divorare dal fosforo, uno in Egitto dopo che amputazioni successive, determinate dalla necrosi inarrestabile indotta dalle armi proibite, ne avevano ridotto la dimensione di un terzo, una figlia all’ospedale Shifa di Gaza, il più grande, gestito da Hamas. Quando lo abbiamo visitato i medici non capivano perché la giovane donna sia intatta fuori e tutta devastata negli organi. Uno di quei sanitari che per 22 giorni hanno lavorato giorno e notte, senza posa, ad accogliere fino a 400 feriti al giorno, mi indica un poster alla parete. C’è un ragazzo, forse ventenne, sprizzante allegria, “Era il mio collega di ambulanza, lo hanno ucciso mentre stava raccogliendo un groviglio di feriti a Jabalia. Gli volevo molto bene”, dice battendo la mano destra sul cuore. Mi sorride e piange. Lo ritroveremo nel mio filmato.

Mahmud ha cinquant’anni, è grande e grosso e fuma sigarette da ammazzarsi, come tutti gli arabi che scontano la propria tensione facendo fare ricchi conti agli avvelenatori della Big Tobacco statunitense  che qui smerciano quelle sigarette al fulmicotone che nell’Occidente ipocritamente salutista sono addomesticate. Ha costruito la sua grande casa per dieci anni e ora sta sdraiato su una stuoia sotto quel soffitto pericolante. Gli tengono compagnia una montagna di stracci colorati, arredi frantumati, blocchi di calcestruzzo, un amico e, fuori, un somaro col carretto. Non so se in psichiatria esiste la categoria degli incazzati sereni e affettuosi. Semmai Mahmud l’ha inventata. Anche lui ha un fornellino di massi e la teiera del chai.  Me ne offre un bicchiere rovente. “Ci ho messo una vita a costruire la mia casa. Allunga lo sguardo oltre i cumuli di rottami, punteggiati da altre baracchette e solcati da asinelli con carretti che portano anziane donne in nero con le loro fascine di legna raccolta tra le macerie, legno che era mobilio, porte, infissi, quadri dei cari, spesso dei martiri. Lo allunga oltre, Mahmud, fino al vicinissimo orizzonte dove finisce la sua terra martoriata, ma libera e inizia la sua terra predata e occupata: “Se quelli tornano mi troveranno ancora qua. Questo posto è mio, oggi e fra cent’anni ”. Pare che parli della Palestina. Pochi metri più in là, oltre un impianto di potabilizzazione distrutto, rimpiazzato da quattro bidoni  di Medicins Sans Frontieres, si eleva una strana pergola, fatta di un telo blù in alto che sbatte nella tramontana, già strappato in parte dai quattro stecchi che lo sorreggono. Sotto c’è un tavolino e una bambina fissa su fogli di carta. La “pergoletta” glie l’ha costruita il papà che ora si sta adoperando con altri uomini intorno a tubi tipo Innocenti, tutti contorti e da raddrizzare, innalzare, infilare gli uni negli altri. Una ricostruzione “dal basso”, di iniziativa diretta, in attesa che la famigerata “comunità internazionale” imponga alla manica di sadici assedianti di far passare materiali edili. Chiedo cosa stanno mettendo in piedi. “Un centro culturale giovanile” , rispondono. Quando si dice le priorità. A fianco un bell’uomo anziano, barbuto, cotto dal sole, con i figlioli che gli portano avanzi di distruzioni, tira su una casetta. I pezzi di risulta li incolla con terra e acqua, fango, come duemila anni fa. “No cement, grida, Israel no cement . E la bambina sotto la “pergola” che pare da prima media? Mi avvicino e vedo che studia. C’è un libro dalle pagine sfrangiate, ci sono due quaderni laceri, bianchi di povere, pieni di sinuosi caratteri arabi tracciati con una biro smozzicata (non fanno entrare matite e penne, “potrebbero servire ad armare Hamas”). Alza lo sguardo sullo sconosciuto che le punta un tubo di metallo e vetro e subito sorride, come tutti qua. Qua e dal Marocco all’Iraq, quando si tratta di popolo arabo, non delle sua fetida borghesia occidentalizzata. Studi da che cosa?  “Da insegnante di arabo, perché è la lingua di tanto tempo fa e di tanti bei libri… o forse da professoressa di matematica, la scienza è importante per noi…”.

Le grandi periferie dei campi profughi viste dall’alto sembrano una fungaia di champignon. Dalle distese di macerie spuntano tendopoli, piccole tende di vecchio modello in cui le famiglie stanno compresse come gambe nella calza. E’ gente che viene dal ’48, dalla Nakba, la catastrofe dei villaggi bruciati spesso con gli abitanti dentro e delle espulsioni di massa. Quelli e i loro figli e nipoti. Hanno triplicato la popolazione di Gaza, un po’ per volta sono usciti dalle tende  che un’ONU bastarda, sancitrice della spartizione iniqua imposta dai colonialisti di ritorno, si sono accasati raccattando mattoni e mettendolì su con la lentezza di chi si doveva dividere tra l’intifada e il lavoro sui campi o nelle botteghe. Oggi si ritrovano sotto una tenda e da una tenda più grande aspettano il pasto che non si possono più permettere: “Quel cumulo di detriti era casa mia, tenevo qualche risparmio sotto il materasso, per ogni evenienza. Il materasso è bruciato, forse sotto quei muri rotti c’è ancora qualche soldo”, mi dice una signora che districa rametti per il fuoco.

Dallo striminzito entroterra al mare è una successione di montagne o distese di sacchi della spazzatura, dilagano come macchie d’olio. Hanno bombardato anche le caserme e i mezzi dei vigili del fuoco, in modo che la gente ardesse meglio, e i depositi dei mezzi per il trasporto e il trattamento dei rifiuti solidi. E’ così che si semina Il rischio sanitario, complemento  alla denutrizione. All’ospedale Al Shifa, il più grande ed efficiente di Gaza City, sono ricoverati bambini con problemi di respirazione determinati dal fetore e dai roghi di immondizia. Proliferano insetti e ratti, roba tossica si infila nel suolo e nelle falde.

Lo sconforto impotente del visitatore si placa all’attraversamento del centro città. Qui rifulge una capacità addirittura eroica di mantenere in piedi la normalità. Merito indubbiamente della natura di questa popolazione, provata e mai domata da ininterrotte apocalissi, ma merito anche di questi governanti di Hamas, cui nessuno riesce a disconoscere onestà – quale abisso rispetto ai trafficoni e traffichini Fatah della Cisgiordania – della loro efficienza nell’allestire reti di sostegno ai bisognosi, nel non far venire mai a mancare l’organizzazione della vita sociale, sanitaria, educativa. Ci sono i sapientoni della correttezza politica che lamentano “la mancanza di un progetto socialista” di questi politici religiosi. Esternino la loro supponenza alla gente comune di Gaza, quella che ha avuto subito un primo indennizzo per sopravvivere, quella i cui bambini non hanno perso un giorno di scuola, neanche quando Israele ne ammazzava cinquanta al giorno, quella che non ha mai mancato di trovare l’impiegato dietro allo sportello della pensione, della registrazione anagrafica, della contesa giudiziaria, del banchetto di internet.

Nei negozi c’è di tutto, osservatori disinvolti e veloci si sono detti “ma quale blocco !”. No si sono accorti che mancano i clienti, Ci sono fondi di magazzino accuratamente  gestiti e, soprattutto, i prodotti di quell’industria dei miracoli che sono i tunnel tra Rafah e l’Egitto. Ci passa di tutto e, dal loro lato, gli egiziani chiudono un occhio perché quel traffico è una flebo all’economia nazionale dissanguata e la gente è già abbastanza incazzata col regime. Lo scenario è fantastico. Dove qualche anno fa avevo visto case, per quanto squarciate e sforacchiate dai continui bombardamenti, ora c’è una distesa desertica, con tanto di dune. I palazzi di Rafah sono stati polverizzati da Israele, puro genocidio nascosto dietro l’accusa che da lì sparavano i cecchini dell’Intifada. Contro chi avrebbero sparato se dall’altro lato del muro c’era l’Egitto? Un chilometro quadrato di case non c’è più, ma le dune sono montagnole di terriccio di risulta, tirato fuori da una megalopoli di talpe. Tra duna e duna, a perdita d’occhio, si ergono tettoie di tela blù, piccoli cieli che coprono buchi ben foderati da sostegni, muniti di carrucole e scale verso lo sprofondo, con uno in cima che radioparla con quello là sotto, a trenta e più metri, all’imbocco di un percorso viscerale di chilometri. I ragazzi che scavano rischiano ogni secondo del giorno e della notte la vita, un giorno su due gli F16 si accaniscono, a volte il soffitto crolla solo per le vibrazioni. Nei pochi giorni della nostra presenza ne sono stati sepolti vivi otto mentre tentavano di procurare da mangiare alla loro gente. Erano 1.400, si mormora e i killer impuniti ne avrebbero sfasciato 700, subito riscavati e moltiplicati. Alcuni sono gestiti da Hamas e per quelli passano i generi di prima necessità, quelli della sopravvivenza accessibile a tutti. Gli altri sono di occhiuti imprenditori che con gli “spalloni” ricavano profitti non indifferenti. Sono per il passaggio di beni durevoli, elettrodomestici, vestiario, computer, telefonini, mobili, carburante, il ben di dio che straripa dai negozi, ma che nei negozi perlopiù rimane perché i soldi non ci sono. Il premier Haniyeh, fatto un giro per le capitali arabe e musulmane, dal senso di colpa di sceicchi, emiri e despoti aveva saputo spremere un paio di milioni di dollari. Gli egiziani a Rafah glieli hanno sequestrati e congelati nelle loro banche.

La sicurezza viene sopraffatta dall’orgoglio per quell’impresa prometeica e una talpa mi invita a entrare sotto il telone e ammirare il buco col compagno in fondo rivelato dalla torcia e che mi grida “Welcome, chefelhal, come stai? Ma subito interviene un capo-vigilanza di Hamas e mi intima qualcosa. Per fortuna c’è Majid, giovanissimo giornalista che, grazie a Arrigoni ho conosciuto e che è stato il mio intelligente, affettuoso e competente Virgilio nel percorso lungo i gironi dell’inferno Gaza. Spiega all’ufficiale che ci si può fidare, che sto dalla loro parte e tutto si risolve in un  abbraccio. Del resto non c’è nulla che io abbia visto che non possano vedere gli strumenti su quel dirigibile israeliano che troneggia nel cielo su tutta Gaza. A una cinquantina di metri dalla lunghissima barriera di cemento che, lungo  sette chilometri, separa il mondo concentrazionario di Gaza dal resto del mondo, occhieggiano binocoli egiziani.

Gaza è sdraiata sulla costa di un Mediterraneo che al popolo carcerato dovrebbe offrire qualche ora d’aria. Ne ricaverebbero un dieci per cento della loro dieta. Niente ora d’aria. Gli accordi truffaldini della famigerata Oslo avevano assicurato ai pescatori di Gaza venti miglia nautiche. Israele le aveva subito ristretto a 12, poi a 6, ora a tre. Fondali impervi ai pescherecci più grandi, micragnosi di minuta raccolta per le barche minori. Giriamo il porto tra moli scaraventati per aria e nel mare dalle bombe e naviglio stracciato dai proiettili del mare. Uscendo in mare con i pescatori, lo stesso Arrigoni s’è visto sparare e poi catturare. Decine i pescatori feriti. Nel 2000 c’erano 10mila pescatori, oggi sono entrati nell’80% di senzalavoro. Ne restano 3.500, ma pochi scendono fin qui a contemplare le reti lacerate e il naviglio spaccato in due. Del resto, dov’è la nafta per far andare i motori? Qualcuno ha provato con l’olio vegetale, dopo un po’ i motori si sono fermati, prima che gli sparassero addosso. Non arriva pesce e la proteina da pollame o ovini l’abbiamo vista maciullata negli allevamenti disintegrati. Gaza abbisogna di 20mila tonnellate di pesce che si ottengono da un’ottantina di uscite al mese. Nel 2008, col blocco appena attenuato, le uscite, a rischio di fucilazione, si erano ridotte a dieci e il pescato a 3.000 tonnellate. In compenso le acque territoriali di Gaza vengono invase e saccheggiate da pescherecci israeliani ed egiziani. Si calcola in 10 milioni di dollari il danno inflitto dall’aggressione al’industria della pesca. Mettiamoci un 20% dei terreni agricoli  distrutto, il 18% degli orti e delle serre, è arriviamo a una carenza di alimenti del 30% e passa. La morte per fame ha cominciato a mordere.

 Il dott. Ahmed dell’ospedale Al Shifa, zeppo di madri in nero, mogli, sorelle, figlie che frusciano per corridoi e corsie ad assistere i divorati dai licantropi del fosforo e delle “Dime”, mi conferma quanto già aveva rivelato la rivista medica “Lancet”: “Dopo una laparotomia primaria per ferite che parevano relativamente piccole e poco contaminate, un secondo  intervento ha rivelato aree crescenti di necrosi dopo un periodo di tre giorni. Poi la salute si deteriora e entro dieci giorni necessita un terzo intervento che mette in luce una massiccia necrosi del fegato o di altri organi. Il fenomeno è accompagnato da emorragie diffuse, collasso renale, infarto e morte”.  Ho potuto vedere, tra ospedali della Mezzaluna rossa palestinese al Cairo, Al Shifa e l’ospedale Al Awda di Gaza gestito dal Fronte Popolare, vittime delle bombe al fosforo, delle bombe ad altissimo potenziale, bombe a implosione che bruciano l’aria e carbonizzano i polmoni, bombe a grappolo per bambini, bombe a freccette per destinatari da trafiggere. Ho visto corpi che parevano i quarti di bue un tempo appesi alle nostre macellerie. Ho visto la pallida Dima di tre anni, bianchissima, con gli occhi chiusi e metà calotta cranica rubata da un israeliano. Alla seconda speranzosa visita, il giorno dopo, era finita tra i nomi mai scritti nel sacrario inesistente dei milioni dell’olocausto arabo.

Sono con Majid, uno che di Gaza conosce tutti gli orrori, dolori, onori, a casa del Dr. Ezzedine Abu Laish. Ezzedine stava al telefono con la televisione israeliana, perché raccontasse ciò che gli veniva sbranato attorno.  Sono stati proprio gli israeliani a chiedergli una diretta. Ma quel racconto non doveva passare. Probabilmente era una trappola: la misura della mostruosità. Un missile gli si è infilato in casa e ha squarciato, sotto i suoi occhi e nel mezzo della trasmissione, tre figlie, bambinette tra i due e i sette anni. Mi fa visitare la stanza il fratello Risik, cui nello stesso momento avevano ammazzato la quarta bambina. Materia cerebrale e macchie di sangue di Bisan, Majar, Eia e Nur sono finite sui pavimenti e sulle pareti, traffite anche da cento buchi da mitraglia: l’infanticidio, pratica corrente di Israele, doveva essere assicurato: “Il mondo, Israele vorrebbero che gli dicessimo “grazie” per aver sterminato la nostra famiglia, che chiedessimo scusa per essere ancora qui, su un pezzo della nostra terra. Ma, se mai avessi pensato in passato di scappare da qui, ora che questa terra accoglie le mie sorelle, non me ne andrò mai, a costo di finire accanto a loro”. Così parlò Rafah, la figlia maggiore di Ezzedine.

Mentre sto per affrontare il ritorno dall’inferno e dall’orgoglio, dalla gentilezza e dal “restiamo umani” sparato da Vittorio in faccia ai disumani, giunge la notizia che al Cairo le formazioni rivali, Fatah e Hamas, stanno discutendo una riconciliazione nazionale e un governo di unità. Lo impone il ricatto di quella criminalità organizzata che si fregia del titolo di “comunità internazionale”. I miliardi donati andranno solo al quisling Abu Mazen e Hamas e gli altri potranno partecipare se si piegano all’egemonia dei collaborazionisti vendipatria. La vedo difficile, demoni e acqua santa.

Ma il portavoce del governo Hamas, Taher An-Nunu, negli uffici del ministero dell’informazione, si mostra fiducioso. E’ un omino sottile e affabile, dal naso puntuto e con una barbetta risparmiosa. Parla un inglese da Foreign Office:  Il popolo vuole questa riconciliazione, ce lo chiedono le masse, e nessuno s’illuda, noi abbiamo vinto e gli altri hanno perso, oggi più che nel 2006 quando stravincemmo le elezioni in tutti i territori occupati. Ci chiedono di riconoscere Israele? Israele ha mai riconosciuto uno Stato a coloro cui hanno rubato tutto, violando ogni singola norma del diritto? Il processo di pace per Israele non è mai cominciato, come può proporcelo ora il gruppo dirigente dell’ANP mentre a Gerusalemme e in Cisgiordania si moltiplicano gli espropri, le espulsioni e gli insediamenti dei coloni? L’unità si potrà fare nei termini come lo ha sempre voluto il nostro popolo, un popolo che ci ha premiato perché resistiamo e perchè la resistenza è l’anima stessa della nostra gente. Ricostruiremo questa terra, ma alle condizioni di chi non si è mai arreso. C’è un intero mondo arabo e islamico, tutto il sud del mondo, là fuori, che sta con noi nei sentimenti e negli obiettivi”.  Non menziona l’Iran, Anunu, forse consapevole che l’appoggio, più che altro diplomatico, di Tehran è a tempo, fin quando agli ayatollah converrà giocare anche su questo tavolo. Forse Hamas ha intuito che di un sostenitore che in Iraq si adopera in connubio con gli occupanti a impadronirsi di un popolo c’è poco da fidarsi strategicamente. Forse intravvede quella tenaglia che Iran, Israele ed Egitto, stanno stringendo intorno alla nazione araba e che è sulle masse di quella nazione che conviene contare. Incombe il pericolo che l’Iran, accomodatosi una volta di più con gli Usa di Obama, dopo l’Iraq anche per l’Afghanistan, abbandoni i suoi amici in Libano e Palestina al loro destino. Ma si può essere sicuri che questo non minerà la determinazione di Hamas e del popolo che le formazioni islamiche e i loro alleati laici hanno guidato alla resistenza. Abu Mazen è un morto politico che cammina, come i fantocci Karzai e Al Maliki, mentre all’orizzonte lumeggia una rabbia araba che custodisce ancora in seno il seme della grande lotta vittoriosa di decolonizzazione, la consapevolezza e la volontà di un destino dettato dalla storia e dalla giustizia.

Uscendo dall’ufficio del portavoce Hamas m’imbatto in un bizzarro e saggio personaggio, tutto avvolto in bandiere multicolori, quelle delle varie fazioni che, dalla nascita della Resistenza in poi, dagli anni ’60, esprimono il creativo pluralismo culturale, sociale, ideologico della società palestinese, ma anche una rivalità spesso astiosa e violenta che non ha per niente avanzato la causa della liberazione. E’ attorniato da una folla di persone che lo applaudono, il suo nome è Yasser Meheissen, ma lo chiamano “Sceicco dell’unità nazionale”. Ha raccolto in una settimana nella sola Gaza ben 270mila firme sotto un appello che chiede, esige, dalle forze politiche  una riconciliazione, una grande unità di movimento per la liberazione. Ovviamente senza la cricca dei manutengoli di Israele a Ramallah. E’ la punta di un iceberg, questo “sceicco”.  Ci sono gruppi politici italiani che, per deformazione ideologica, snobbano Hamas e in Palestina si rivolgono rigorosamente solo alle formazioni considerate affini. Dovrebbero ascoltare Abu Ala, un tempo combattente di Fatah e ora, a sostituire uno stipendio che è svaporato, l’autista che, instancabile, mi accompagna da un capo all’altro di Gaza. La cricca dei collaborazionisti corrotti che in Cisgiordania fanno il lavoro sporco di Israele gli fa schifo, non la considererà mai più la sua dirigenza. Ma mi assicura che la base di Fatah la pensa come lui e come lui ha partecipato alla resistenza contro il nemico insieme a Hamas, alla Jihad, ai Comitati Popolari, al Fronte Popolare e al Fronte Democratico. E’ certo che il redde rationem verrà per Abu Mazen come per Israele. I realizzatori dell’unità saranno tutti gli Abu Ala di Palestina. Le sinistre palestinesi devono contemplare il proprio fallimento, non dissimile da quello in Italia, la spossatezza di chi e rimasto troppo a lungo sotto l’ombrello lacero dell’ANP. E a Gaza ne sono consapevoli più che in Cisgiordania, dove si vive sotto la ferula del Grande Venduto. Se si realizza la speranza del rilascio dai suoi sei ergastoli di Marwan Barghuti, leader della seconda Intifada per Fatah, duro critico delle degenerazioni in alto della sua organizzazione  e autore dal carcere della piattaforma per l’unità, la strada per il coordinamento operativo e politico si accorcerà di molto. Con effetti dirompenti anche sulle motivazioni delle masse arabe, in rivolta ai tempi del massacro. Sono perciò sgradevoli gli incontri con chi, in Egitto, pretende di rappresentare, con risentimento e spirito di rivalsa, quelle forze di sinistra, magari nel nome della laicità e del marxismo. Lenin ha insegnato cose diverse quando si tratta della lotta di un popolo per la sua di liberazione, tanto più se è vero, come è vero, che Hamas è il proletariato e il  sottoproletariato in Palestina, Fatah di Abu Mazen è tenuta in piedi dalla borghesia compradora e asservita, parte dell’intellettualità si rifugia nelle sinistre.  E quando questi interlocutori, al Cairo o a El Arish, ci hanno tempestato di insulti e calunnie virulenti e sospette contro Hamas, spesso di pretto stampo israeliano, se ne può comprendere la frustrazione, ma se ne deve respingere lo squallido solipsismo. E’ nel contesto della lotta araba, di tutto il sud del pianeta, che vanno inserite Gaza e la Palestina, non nelle sterili e autoreferenziali affinità ideologiche. Lo sapeva bene George Habbash, fondatore e segretario del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. C’è poi la crisi dell’intero mondo capitalista e imperialista e non sarà facile per gli Usa, scossi da una popolazione che deve rinunciare a casa, cure e beni per finanziare la voracità predatoria della sua elite, mantenere quella munificenza nei confronti di Israele senza la quale quel paese non reggerebbe un giorno.

Gaza ha segnato l’inizio della fine per Israele. Respinto e umiliato dalla resistenza in Libano, ci ha provato con la sua quarta potenza militare mondiale a spazzare via la striscia di terra più popolata del mondo, con la scusa di fermare quattro razzi alimentati da fertilizzanti, di incerta mira sulla terra rubata ai palestinesi. Non sono riusciti nel’intento, hanno rafforzato un avversario che non è che l’articolazione della rivolta universale degli oppressi e perseguitati. Le orrende nefandezze compiute hanno colmato la misura, fatto cadere la maschera del grottesco vittimismo, rivelato l’oscena nudità del re. E con la frantumazione dell’icona Israele se ne va anche il Grande Inganno di Oslo, la oslozzazione delle prospettive palestinesi e delle coscienze che quelle prospettive formulavano, sia in Palestina che tra i suoi sostenitori all’estero. Gaza ha vinto anche perché ha spazzato via la nebbia obnubilante di questa oslozzazione ideologica, la gigantesca truffa dei “due Stati per due popoli”, uno slogan sotto al quale veniva occultata una pulizia etnica storica e la costante strategia israeliana di creare fatti irreversibili sul terreno cianciando ai gonzi di “Stato palestinese accanto a quello ebraico”, a conferma che ai “due Stati per due popoli” i sionisti della “Grande Israele” non hanno creduto mai. Le sinistre, i democratici, i progressisti nel mondo vi si cono accucciati a copertura della propria impotenza e ignavia, come se il fallimento dei bantustan in Sudafrica non avesse insegnato nulla. I segni della svolta sono infiniti e si moltiplicano, dal  comune sentire di un’opinione pubblica non più integralmente manipolabile, alla rivolta dei correligionari in tanti paesi contro lo Stato sionista, dalla condanna di istituzioni universali come l’Assemblea generale dell’ONU, o la Commissione ONU per i diritti umani, ai tanti tribunali che si aprono sui crimini dello Stato Canaglia, all’ incondizionata solidarietà di tutti i Sud del mondo. Oggi si parla di “liberazione”, non più di Stato nei territori occupati, o quanto ne resta dopo le ultime abbuffate israeliane. L’esito non può che essere lo Stato Unico di chi ci vuole vivere. 9 milioni di palestinesi di sicuro.

Mentre mi avvio, con un po’ di morte e un po’ di nuova forza nel cuore e con un paio di curiosi ed entusiastici compagni di un centro sociale romano al Prenestino, a riaffrontare l’ottusità scaltra della dogana egiziana (ma il solito Majid li ingarbuglierà di chiacchiere ancora più scaltre e ci farà passare a razzo), incrociamo il lunghissimo serpente della colonna di George Galloway. E’ come l’ingresso di Cesare a Roma, di ritorno dalle Gallie. O, piuttosto, come il corteo dei partigiani del CLN, guidati da Cadorna, Longo e Parri, per le vie di Milano liberata. Attorno alla carovana del coraggioso deputato britannico si affolla una mare di gente festante, tumultuante, barbuta e non barbuta, senza distinzione di fazione, l’autentica, unitaria massa resistente palestinese. La hubris israeliana, l’ignoranza dei limiti da psicopatico impunito, si metamorfizza in nemesi. Dopo il fallimento dell’invasione genocida che doveva farla finita con Hamas e ne ha invece imposto il riconoscimento anche a gran parte del mondo ufficiale, lo spappolamento del blocco genocida. Una fine dell’embargo per ora solo politica, ma è quella più importante perché non può non preludere alla fine dello strangolamento economico. Su un grande piazzale al centro di Gaza City, Galloway e i suoi rompighiaccio umani sono festeggiati dai dirigenti del legittimo governo palestinese. La sensazione di non essere più soli e vituperati, al massimo compianti, ha l’effetto di una tracannata di champagne. Anche su di noi, che palestinesi cerchiamo di essere. Nella Camera dei Comuni a Londra alcune dozzine di deputati formano una coalizione contro l’assedio e per la Palestina. Il treno della pulizia etnica mascherata da “processo di pace” è arrivato al capolinea. Signori si cambia.

I palestinesi, gli arabi, i popoli del sud  restano umani. L’odio, la prevaricazione non fanno parte del loro bagaglio etico e politico. Il nemico lo combattono, diversamente da lui capaci di morire nel nome della comunità. A tutti gli altri sorridono. Il sorriso, compreso quello dei nerovestiti e barbuti militanti di Hamas che si fanno fotografare a te abbracciati agli angoli delle strade, ti circonda come l’aria nella Gaza delle rovine, dei forni crematori al fosforo, delle camere a gas al tungsteno e all’uranio, delle famiglie dimezzate, delle talpe della vita. Welcome ti gridano gli scolaretti in ansia di foto che ne confermi l’esistenza, welcome, benvenuto, ti arriva a pioggia dai frequentatori dell’Internet Point alla ricerca di comunicazione con il mondo precluso e dall’addetto alla gestione  che ti fa bere dalla sua tazza di caffè, dal pescatore che ricuce per la millesima volta la rete strappatagli dalle cannonate, dal mutilato senza gambe  di Al Shifa, dalla signora velata che raccatta rametti nella foschia della polvere che le sue mani suscitano dalle macerie. Ma anche dal poliziotto egiziano a Rafah che, al tuo ritorno, si compiace con te per essere riuscito a raggiungere i fratelli che il suo tiranno gli nega. Che altro possiamo rispondere se non welcome Gaza, welcome Palestina, welcome  arabi, da Baghdad a Gerusalemme. La  lotta dei palestinesi è la lotta dell’essere umano per la dignità, per la continuità della specie su questo pianeta, per la civiltà contro le barbarie, per l’uomo come lo concepiva il Che Guevara.

I cananiti, primi abitanti di Gaza e antenati dei palestinesi, hanno dato a questa terra di congiunzione tra Africa e Asia, fucina e ponte di culture nei millenni, un nome che significa “forza”. I persiani la chiamavano Hazatote, che vuol dire “tesoro”. Il simbolo di Gaza è la fenice che risorge dalle sue ceneri. A Gaza abbiamo capito perché.

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