Elezioni in Palestina, un enigma in un clima di frammentazione politica. Intervista a Romana Rubeo – Parte II

Pressenza.com. In queste ore critiche in Palestina non vi è solo l’Operazione “Guardiano delle Mura” a gravare sulla situazione, ma anche l’incertezza per le prossime elezioni, recentemente “rimandate a tempo indeterminato” dall’Autorità Nazionale Palestinese. Di questo ne parliamo con Romana Rubeo, giornalista, traduttrice e redattrice di Palestine Chronicle.

Come funzionano le elezioni in Palestina e quanto pesa il ruolo di Israele? 

Il discorso della rappresentanza democratica in Palestina e, conseguentemente, delle elezioni come momento fondante del processo democratico, deve partire da un dato di fatto, ovvero dal “vizio d’origine” che non può essere trascurato: le elezioni democratiche, idealmente, si svolgono in una nazione che abbia una reale sovranità sul suo territorio, in cui tutto il popolo possa davvero essere rappresentato.

Nel caso della Palestina, questo non può avvenire, perché quanto ipotizzato dalla Risoluzione ONU del 1947, il cosiddetto “piano di partizione” – che, pur nei suoi aberranti limiti, prevedeva la nascita di due stati – nei fatti, non si è mai concretizzato. Pertanto uno stato palestinese, nei fatti, non ha mai visto la luce, per esplicita volontà di Israele, che ha agito sin dagli albori come una potenza coloniale, interessata alla acquisizione di tutto il territorio e alla cancellazione della popolazione nativa, mosso infatti dal mito infondato della “terra nullius”.

Oggi, dopo 70 anni di espropri, occupazioni, annessioni, espansione di insediamenti coloniali, e anche in virtù degli scellerati Accordi di Oslo, la Palestina appare quanto mai ridotta all’osso, sottoposta a una rigida occupazione militare e a una frammentazione territoriale e politica.

L’Autorità Nazionale Palestinese, in queste condizioni, non è e non può essere un organismo con funzioni rappresentative, né può presentare le prerogative di uno Stato. Basti vedere ciò che è accaduto con la questione di Gerusalemme, peraltro ampiamente prevedibile. Israele, che occupa militarmente anche la parte orientale della città, teoricamente di pertinenza palestinese, e che ha anzi annesso unilateralmente Gerusalemme Est nel 1980 (mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale) avrebbe vietato ai cittadini palestinesi gerosolomitani di recarsi alle urne. Questo è l’epifenomeno più evidente dell’impatto che l’occupazione avrebbe rivestito sulle eventuali elezioni, ma potremmo anche parlare degli arresti di decine di attivisti di Hamas in West Bank, a cui le autorità dell’occupazione hanno esplicitamente chiesto di non candidarsi.

Quali sono i principali partiti e movimenti in Palestina e quali posizioni hanno in politica interna ed estera? 

Le due forze principali sono rappresentate da al-Fatah e da Hamas.

Fatah, che letteralmente è l’acronimo inverso di Harakat al-Taharir al-Filistini (Movimento per la Liberazione Palestinese), è un partito di ispirazione social-democratica che nasce con una vocazione rivoluzionaria, ben rappresentata da uno dei suoi principali fondatori, Yasser Arafat. Con il tempo, Fatah è diventato però il partito artefice degli Accordi di Oslo e di tutto quello che hanno rappresentato. Al momento, esiste una sostanziale corrispondenza tra Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese che, nata proprio alla luce di quegli accordi, ha di fatto sostituito il vero organismo rappresentativo del popolo palestinese, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, l’OLP.

All’interno di Fatah, anche per pressioni più o meno dirette da parte della comunità internazionale, ha prevalso la linea di Mahmoud Abbas, mentre la componente più rivoluzionaria è stata messa all’angolo, anche in seguito all’arresto di una delle sue figure di riferimento, Marwan Barghouti, da parte di Israele, nel 2002.

Il fatto sorprendente della storia recente è proprio la spaccatura all’interno di Fatah, con la fuoriuscita dei rappresentanti della corrente che si oppone alla leadership di Abbas. In caso di elezioni, infatti, avremmo visto la candidatura di una lista guidata da Nasser al-Qudwa, nipote di Arafat, e Fadwa Barghouti, moglie di Marwan. Si parlava poi, anche, della possibile candidatura di Marwan Barghouti dal carcere alle elezioni presidenziali, e i sondaggi erano concordi nell’indicare una sua vittoria.

L’altra forza politica preponderante in Palestina è il movimento di resistenza Hamas, di matrice islamica, che, dopo la vittoria alle elezioni del 2006 – mai riconosciuta dall’ANP e dalla comunità internazionale – è attualmente al governo della Striscia di Gaza.

Vi sono poi forze di matrice socialista rivoluzionaria, come il PFLP, che ha espresso alcune tra le più importanti figure politiche palestinesi, quali Khalida Jarrar, attualmente detenuta in un carcere israeliano; e altre forze di matrice islamica, come la Islamic Jihad.

Come è cambiato il contesto socio-politico palestinese dagli anni 2000 al 2020?

Fondamentalmente, questa fase può essere riassunta con la locuzione “post Oslo”. La decisione dell’ANP di collaborare con Israele in materia di sicurezza e accettare passivamente ogni diktat imposto dalle agende occidentali ha sicuramente avuto un impatto anche a livello socio-politico.

Il tentativo è stato quello di “normalizzare” l’occupazione e di sopire gli istinti più rivoluzionari. Una situazione che ha influito pesantemente e negativamente anche sul morale del popolo palestinese che si è visto depredato di ogni diritto, isolato come non mai, arrestato, in alcuni casi, anche da quelli che dovevano essere i suoi rappresentanti; un popolo bombardato, umiliato, tradito anche da alcuni Paesi arabi (che non hanno esitato a “normalizzare i rapporti” con l’entità sionista). Un popolo forzatamente diviso, sottoposto a un regime di apartheid imposto da Israele e che oggi viene riconosciuto anche da varie organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch o la stessa, israeliana, B’Tselem. In questo scenario, un primo, fortissimo, squarcio si apre con la Grande Marcia del Ritorno, avviata nel 2018, che parte da Gaza, si estende ai Territori e segna in modo inequivocabile una mai sopita volontà, da parte del popolo palestinese, di partecipare a un processo ampio di resistenza popolare.

Mi sembra, tuttavia, di poter dire che quello che sta accadendo in questi giorni, la rivolta partita da Sheikh Jarrah ed estesasi non solo alla Palestina occupata ma anche al territorio della Palestina storica, attualmente Israele, sia un fenomeno inedito. Sembra di assistere alla delegittimazione sul campo di una classe politica, quella legata alla ANP, non più capace di rappresentare le istanze del popolo palestinese.

Questa nuova generazione di palestinesi che guidano la rivolta non sembra interessata agli artifici retorici di Oslo e alle fittizie divisioni e frammentazioni che ne sono conseguite, e si pone alla guida del popolo per rappresentarne le ragioni e dire forte e chiaro a Israele e al mondo che i palestinesi non sono disposti a cedere né a mettere in vendita la propria dignità.

Da quanto tempo non si fanno più elezioni in Palestina e per quale motivo? 

Questo è sicuramente un tasto dolente. Non si vota dal 2006, sia per motivi legati all’occupazione o alla contingenza, sia perché l’attuale leadership palestinese ha seguito in tutto e per tutto i diktat della comunità internazionale, a guida statunitense, e non si è mai concentrata su un processo di costruzione dei propri organismi rappresentativi.

Basti pensare a cosa è accaduto con le ultime elezioni, annunciate in seguito a una pressione da parte della nuova amministrazione statunitense di Joe Biden, e poi rinviate (o forse cancellate) sempre in virtù di queste pressioni, quando si è intuito che l’esito avrebbe potuto avere effetti dirompenti.

Sebbene, infatti, la scusante sia stata l’impossibilità per i palestinesi gerosolimitani di partecipare al voto, la verità è che una forte affermazione di Hamas nella West Bank alle elezioni legislative, con un ridimensionamento importante di Fatah, e la possibile vittoria di Marwan Barghouti alle presidenziali avrebbero avuto una ricaduta notevole.

Si è pertanto preferito evitare di affrontare le possibili conseguenze, ma la situazione sembra essere sfuggita di mano, perché il popolo palestinese e i movimenti di resistenza si sono messi alla guida di un processo i cui effetti sono ancora in itinere, e non sembra affatto interessato a seguire la linea dei suoi rappresentanti formali.

Da studiosa ed osservatrice della Palestina, secondo te quando avverranno queste elezioni? Chi è il favorito?

Ho l’impressione che questa nuova fase, apertasi nelle ultime settimane, determinerà anche un cambiamento radicale nello scenario politico palestinese e costituirà un punto di non ritorno. Anche il silenzio assordante di Abu Mazen mentre Gerusalemme e la Palestina erano, letteralmente, in fiamme, la dice lunga sulla afonia di questa classe dirigente e sulla sua incapacità di rappresentare le istanze del popolo palestinese. Sicuramente, chi riuscirà a interpretare meglio questa fase risulterà la guida naturale di un processo che sembra ormai inarrestabile.

(Foto di Agenzia Dire).

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