Elogi prudenti, silenzio e rifiuto: i gruppi ebraici americani divisi sull’ “accordo del secolo”

Middle East Eye. Di Richard Silverstein. Le organizzazioni di destra hanno elogiato il piano di Trump per Israele e la Palestina, mentre quelle di sinistra e di centro l’hanno criticato

Mentre l’“accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump è stato quasi universalmente criticato nei circoli politici al momento della sua presentazione pubblica la settimana scorsa, le reazioni delle organizzazioni di ebrei statunitensi sono state piuttosto contraddittorie e moderate.

Le dichiarazioni comprendono l’insieme dello spettro dei soliti noti, dalla destra alla sinistra. La lobby filo-israeliana AIPAC ha salutato il tentativo dell’amministrazione Trump di “lavorare di concerto con i dirigenti dei due principali partiti politici israeliani per presentare delle idee per risolvere il conflitto in modo da riconoscere le imperiose necessità in materia di sicurezza del nostro alleato” ed ha esortato i palestinesi a “unirsi agli israeliani al tavolo dei negoziati.”

È tipico di questa lobby individuare fino a che punto questo piano sia utile agli interessi di Israele omettendo al contempo ogni riferimento agli interessi palestinesi.

Strane reazioni.

La Coalizione degli Ebrei Repubblicani, formata in gran parte da ricchi uomini d’affari e da miliardari di Wall Street filo-israeliani, ne ha fatto ossequiosamente le lodi, definendolo una “proposta coraggiosa ed equilibrata, profondamente ancorata ai valori fondamentali dell’America, che sono la libertà, le opportunità e la speranza nel futuro.”

Chi non ne sapesse abbastanza potrebbe pensare che il piano stilato dal genero di Trump, Jared Kushner, sia l’equivalente attuale della Dichiarazione d’Indipendenza e della Magna Carta messe insieme.

I deputati ebrei del Congresso, che sono in maggioranza democratici e stretti alleati della lobby israeliana, hanno avuto reazioni stranamente apatiche, moderando i loro elogi. Eliot Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti ha dichiarato: “Come mi piace dire, il diavolo sta nei dettagli. Abbiamo visto la proposta. Non l’ho studiata attentamente. Ci sono buone ragioni per sperare.”

Anche Ted Deutch, altro rappresentante ebreo vicino alla lobby, ha fatto commenti positivi, dichiarando che l’accordo di Trump “sembra garantire la possibilità di una soluzione a due Stati…Penso e spero che il dialogo continui e porti a negoziati tra le parti.”

Il capo della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer, nelle sue considerazioni al riguardo stranamente non ha espresso nessun parere sul piano di Trump. Si è limitato a ripetere il proprio sostegno a una soluzione a due Stati, senza pronunciarsi nel merito dell’accordo. È una dichiarazione senza esserlo.

Rispondere alla lobby filoisraeliana.

Ciò che è curioso riguardo a queste reazioni è che, nel momento stesso in cui i democratici sono nel pieno della procedura per la destituzione del presidente, i democratici ebrei si pronunciano a favore di un piano che quasi tutti, dai candidati democratici alle elezioni presidenziali al principale giornale progressista israeliano, Haaretz, hanno universalmente condannato.

È possibile che questi politici non si preoccupino di quello che la comunità ebraica americana pensa di questo piano. Un sondaggio condotto l’anno scorso da J Street [associazione di ebrei americani moderatamente critici con l’occupazione, ndtr.] presso potenziali elettori alle primarie democratiche ha rilevato che solo il 12% di chi ha risposto aveva una buona opinione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre un altro sondaggio della Commissione Ebraica Americana che ha interpellato americani di religione ebraica ha concluso che il 59% di loro disapprova la gestione dei rapporti israelo-americani da parte di Trump.

Tuttavia i democratici filoisraeliani non rispondono all’elettorato ebraico medio, ma piuttosto alla lobby filoisraeliana e ai suoi ricchi donatori, che finanziano le loro campagne elettorali. Non ci sono altre spiegazioni logiche al fatto che manifestino un sostegno, pur se modesto, a una proposta così mal formulata da parte di un presidente repubblicano in disgrazia.

L’Unione per la Riforma dell’Ebraismo da parte sua ha pubblicato questo timido comunicato: “Salutiamo ogni tentativo per riportare la pace e pensiamo fermamente che un Israele sicuro da una costa all’altra con uno Stato palestinese vitale sia nell’interesse della politica estera americana e, ovviamente, del futuro di Israele in quanto Stato democratico ed ebraico.”

Continua esprimendo delle “preoccupazioni” relative alla promessa di Netanyahu di “imporre, unilateralmente, il diritto degli ebrei su tutte le colonie della Cisgiordania e della Valle del Giordano proposte per lo status finale in base al piano di Trump”, definendo l’iniziativa “pericolosa per l’avvenire di Israele e per la stabilità e la pace nella regione.”

Al contempo diversi gruppi dal centro alla sinistra hanno unanimemente criticato l’accordo. I sionisti liberal di J Street, rigorosamente schierati con il partito Democratico, l’hanno definito l’“apogeo logico delle ripetute misure in malafede che questa amministrazione ha preso per confermare il programma della destra israeliana, per impedire la realizzazione di una soluzione dei due Stati praticabile e negoziata e per assicurarsi che l’illegale occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania da parte di Israele diventi permanente.”

Hanno cercato di utilizzare l’annuncio a proprio vantaggio, come uno strumento dell’organizzazione per rafforzare la propria base di appoggio. Hanno persino lanciato su Twitter l’hashtag #peacesham (pace truffa).

Piano dell’apartheid”.

Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace], la più grande organizzazione progressista del Paese, ha condannato il piano in modo ancora più deciso, definendolo “piano dell’apartheid” e “un diversivo di due guerrafondai che danno la priorità alle proprie campagne elettorali personali su qualunque parvenza di capacità politica.”

Il candidato ebreo alla presidenza, Bernie Sanders, è parso esitare a inserire la sua risposta nella sua campagna elettorale, che è in pieno svolgimento con le primarie in Iowa. Il suo ufficio al Senato ha pubblicato il seguente comunicato: “Ogni accordo di pace accettabile deve corrispondere al diritto internazionale e alle molteplici risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Deve porre fine all’occupazione israeliana iniziata nel 1967 e permettere l’autodeterminazione dei palestinesi nel loro Stato indipendente, democratico ed economicamente sostenibile accanto a uno Stato israeliano sicuro e democratico. Il cosiddetto ‘accordo di pace’ di Trump è ben lontano da ciò e non farà altro che perpetuare il conflitto.”

Paragonata alle sue veementi denunce contro le “élite imprenditoriali miliardarie”, questa risposta è stranamente moderata per Sanders. Ciò potrebbe riflettere la sua convinzione che un atteggiamento realmente progressista verso Israele e la Palestina non sarebbe altrettanto ascoltato dall’elettorato che un’analisi economica di classe. Ma almeno è più consistente [di quella] di Chuck Schumer.

– Richard Silverstein è l’autore del blog « Tikum Olam » che mette in evidenza gli eccessi della politica della sicurezza nazionale israeliana. Il suo lavoro è stato pubblicato da “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha collaborato alla raccolta di saggi dedicati alla guerra del Libano del 2006 “A Time to speak out” [Il momento di parlare forte] (Verso) ed è l’autore di un altro saggio di una futura raccolta: “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano che il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Traduzione dal francese per Zeitun.info di Amedeo Rossi.