Gaza e la minaccia di una guerra mondiale

gaza-massacre-israeli-air-forceCounterpunch.org. Di John Pilger. 

«C’è un tabù», disse il visionario Edward Sa’id, «nel dire la verità sulla Palestina e sulla grande forza distruttiva di Israele. Solo quando questo tabù sarà superato ognuno di noi potrà essere libero».
Molte persone ritengono che il tabù lo si sia superato ora. Coloro un tempo costretti al silenzio ora non possono girarsi dall’altra parte. Osservarli dai loro televisori, computer e telefoni è la dimostrazione della barbarie dello Stato di Israele e della grande forza distruttiva del suo mentore e fornitore, gli Stati Uniti d’America, della codardia dei governi europei e della corruzione di altri governi, come quelli dell’Australia e del Canada, in questo crimine epico.
L’attacco a Gaza è stato un attacco a tutti noi. L’assedio su Gaza è un assedio su tutti noi. La negazione della giustizia per i palestinesi è un sintomo per tutta l’umanità sotto assedio, e un avvertimento sulla minaccia ogni giorno più grande di guerra mondiale.
Quando Nelson Mandela definì la lotta della Palestina «la maggior questione morale del nostro tempo», parlava a nome della vera civiltà, non di quella inventata dagli imperi. In America Latina i governi di Brasile, Cile, Venezuela, Bolivia, El Salvador, Perù ed Ecuador hanno dichiarato la loro opposizione ai fatti di Gaza. Ciascuno di questi Paesi conobbe il proprio oscuro silenzio quando l’immunità per gli assassinii di massa erano sponsorizzati dallo stesso padrino che a Washington ha risposto al pianto dei bambini di Gaza con ulteriori argomenti in favore del loro massacro.
Diversamente da Netanyahu e i suoi sicari, i fascisti domestici di Washington in America Latina non si preoccupavano delle apparenze morali. Semplicemente, loro uccidevano, e lasciavano i cadaveri accatastati nei rifiuti. Per il sionismo, l’obiettivo è il medesimo: espropriare e distruggere un’intera società umana, una verità paragonata da 225 sopravvissuti all’Olocausto e loro discendenti alla genesi dell’Olocausto.
Nulla è cambiato dal famigerato «Piano D» sionista del 1948, che fece pulizia etnica di un’intera popolazione. Recentemente, sul sito web del Times of Israel abbiamo potuto leggere: «Il genocidio è concesso». Moshe Feiglin, un ex-relatore del parlamento israeliano, la Knesset, propone una politica di espulsione di massa in campi di concentramento. Un membro del parlamento, Ayelet Shaked, il cui partito è membro della coalizione al governo, invoca lo sterminio delle madri palestinesi per evitare che esse diano alla luce ciò che lei definisce «piccoli serpenti».
Per anni gli inviati hanno visto i soldati israeliani tormentare i bambini palestinesi con ingiurie per mezzo di altoparlanti, per poi freddarli a colpi di arma da fuoco. Per anni gli inviati hanno assistito al rifiuto di passaggio ai posti di blocco alle donne palestinesi in procinto di partorire dirette all’ospedale, con conseguenze spesso letali per il bambino e a volte anche per la madre.
Per anni gli inviati hanno assistito ai casi in cui a medici e ambulanze palestinesi veniva dato dai comandanti israeliani permesso di assistenza ai feriti, o di rimozione di cadaveri, per poi ricevere una pallottola in testa.
Per anni gli inviati hanno assistito al mancato permesso di ricevere cure salvavita alle persone ferite da colpi di arma da fuoco, o colpite a morte mentre tentavano di raggiungere la clinica della chemioterapia. Una signora anziana che camminava con il bastone è stata uccisa così, con un colpo alla schiena.
Quando ho posto all’attenzione di Dori Gold, consigliere anziano del primo ministro israeliano, l’evidenza di tali crimini, egli ha risposto, «purtroppo in ogni situazione di guerra si verificano casi di civili uccisi accidentalmente. Ma i casi da te citati non sono terrorismo. Il terrorismo si ha quando il mirino dei fucili dei cecchini viene deliberatamente puntato sui civili».
Io ho risposto: «Ciò è proprio quanto avvenuto».
«No», egli ha ribattuto, «questo non è successo».
Menzogne e deliri di tal fatta vengono ripetuti infallibilmente dagli apologeti di Israele. Come osserva l’ex-giornalista del New York Times, Chris Hedges, tali atrocità vengono sempre presentate come casi di «coinvolgimento in sparatorie». Da quando mi occupo di Medio Oriente, molti, se non la maggior parte dei media occidentali hanno presentato i fatti in questo modo.
In uno dei miei documentari, un cameraman palestinese, Imad Ghanem, giace a terra indifeso mentre i soldati dell’»esercito più morale del mondo» gli sparano alle gambe. A questa atrocità vennero dedicate due righe sul sito della Bbc. Nell’ultimo bagno di sangue a Gaza, 13 giornalisti sono stati uccisi da Israele, tutti loro erano palestinesi. Chi conosce i loro nomi?
Ora qualcosa è diverso. C’è un grande disgusto nel mondo, e le voci del liberalismo ragionevole sono inquiete. La loro preoccupazione e i cori pretestuosi per la «responsabilità condivisa» e per «il diritto di Israele all’autodifesa» non funzionano più; né funziona più la calunnia dell’antisemitismo, o la richiesta di «fare qualcosa» contro il fanatismo islamico, e non fare niente contro il fanatismo sionista.
Una voce liberale ragionevole, il romanziere Ian McEwan, è stato celebrato come persona saggia dal Guardian mentre i bambini di Gaza venivano fatti saltare a pezzi. Si tratta dello stesso Ian McEwan che ha ignorato i palestinesi che lo imploravano di non accettare il Jeruzalem Prize per la letteratura. «Se dovessi andare solo nei Paesi che approvo probabilmente non uscirei mai dal letto», è stata la sua risposta.
Se i morti di Gaza potessero parlare gli direbbero: «Rimani a letto, grande romanziere, che la tua presenza mitiga razzismo, apartheid, pulizia etnica e assassinii indipendentemente dalle parole ambigue che hai pronunciato quando hai ritirato il premio».
Comprendere i sofismi e il potere della propaganda liberale è la chiave per comprendere la durata degli oltraggi di Israele, per comprendere perché il mondo se ne sta a guardare, perché le sanzioni Israele non le rispetta mai, e perché solo un boicottaggio totale di tutto ciò che è israeliano sia oggi la misura di un senso morale fondamentale.
La propaganda più persistente sostiene che l’impegno di Hamas sia la distruzione di Israele. Khaled Hroub, il ricercatore dell’Università di Cambridge considerato un’autorità mondiale su Hamas, ritiene che una tale affermazione «non è mai stata utilizzata o adottata da Hamas, nemmeno nelle sue dichiarazioni più radicali». Lo statuto «anti ebraico» del 1988, tanto spesso citato, è «il frutto di un singolo individuo, reso pubblico senza il permesso convenuto da Hamas… L’autore era uno della «vecchia guardia», e il documento viene visto con imbarazzo e non viene mai citato.
Hamas ha ripetutamente offerto una tregua di 10 anni con Israele, ed ha a lungo manifestato disponibilità per la soluzione dei due Stati. Quando la coraggiosa attivista ebreo-americana Medea Benjamin era a Gaza, ha portato una lettera dei leader di Hamas al presidente Obama nella quale il governo di Gaza manifestava il desiderio di pace con Israele. La lettera è stata ignorata. Io sono al corrente personalmente di molte lettere del genere consegnate in buona fede, ignorate o scartate.
Il crimine imperdonabile di Hamas è una distinzione quasi mai riferita: esso è l’unico governo arabo che sia stato eletto liberamente e democraticamente dal suo popolo. Peggio ancora, ha ora formato un governo di unità nazionale con l’Autorità palestinese. Una singola voce palestinese risoluta – all’Assemblea generale, al Consiglio dei diritti umani e al Tribunale criminale internazionale – è la minaccia più temuta.
Dal 2002 un’influente unità di informazione dell’Università di Glasgow ha prodotto notevoli studi su giornalismo e propaganda in Israele/Palestina. Il professor Greg Philo e i suoi colleghi rimasero scioccati scoprendo l’ignoranza generale prodotta dai telegiornali. Più la gente li guardava, meno sapevano.
Greg Philo ritiene che il problema non è tanto di faziosità. Inviati e produttori sono impressionati come chiunque dalla sofferenza dei palestinesi; ma il potere strutturale dei media è così imponente – come un’estensione dello Stato e dei suoi interessi acquisiti – che i fatti critici e il contesto storico ne risultano, di routine, tacitati.
Incredibilmente, meno del 9% dei giovani telespettatori intervistati dal gruppo del professor Philo era consapevole del fatto che la potenza occupante è Israele e che i coloni illegali sono ebrei; in molti pensavano che fossero i palestinesi. Il termine «territori occupati» veniva spiegato raramente. Parole come «assassinio», «atrocità» e «omicidi a sangue freddo» venivano utilizzate solo per descrivere la morte degli israeliani.
Di recente un inviato della Bbc, David Loyn, ha criticato un altro giornalista inglese, Jon Snow, di Channel 4. Snow è rimasto talmente colpito da ciò che ha visto a Gaza da fare un appello umanitario su Youtube. Ciò che ha fatto preoccupare il giornalista della Bbc è stata la rottura del protocollo e l’emotività espressa su Youtube.
«Le emozioni», ha scritto Loyn, «sono il contenuto della propaganda, ma le notizie non dovrebbero essere propaganda». Egli pensava davvero ciò che ha scritto? In realtà il video di Snow era pacato. La sua colpa è stata aver infranto i limiti della falsa imparzialità, non si è auto-censurato, e ciò è imperdonabile.
Nel 1937, con Adolf Hitler al potere, Geoffrey Dawson, editore del Times a Londra, scrisse nel suo diario: «Passo le notti a pensare a ciò che possa urtare la suscettibilità tedesca, e a ciò che possa dar loro sollievo».
Il 30 luglio la Bbc ha proposto un corso sulla Regola Dawson. Mark Urban, il corrispondente diplomatico del programma Newsnight, ha proposto 5 motivi per cui il Medio Oriente si trova in subbuglio, nessuno dei quali riferito al ruolo storico e contemporaneo del governo britannico. L’invio del governo di Cameron di 8 miliardi di sterline in armamenti ed equipaggiamento militare a Israele non è stato considerato.
Per quanto riguarda invece l’invasione britannica dell’Iraq e dell’Afghanistan, è come se essa non fosse mai accaduta.
L’unico esperto testimone in questo programma della Bbc è stato un accademico di nome Toby Dodge, della London School of Economics. Ciò che i telespettatori avevano bisogno di sapere era che Dodge era stato consigliere speciale di David Petraeus, il generale americano in gran parte responsabile del disastro in Iraq e in Afghanistan. Ma anche su questo si è soprasseduto.
A proposito di guerra e pace, le illusioni di imparzialità e credibilità in stile Bbc fanno di più di quanto operino le distorsioni dei tabloid, in quanto a limitare e controllare il dibattito pubblico. Come ha osservato Greg Philo, il commento commovente di Jon Snow su Youtube si limitava a considerare se l’assalto di Israele su Gaza fosse proporzionato o ragionevole. Ciò che mancava – e che manca quasi sempre -, era la verità fondamentale della più lunga occupazione militare dei tempi moderni, un’impresa criminale appoggiata dai governi occidentali, da Washington, a Londra, a Canberra.
In quanto al mito che vede Israele «vulnerabile» e «isolato», circondato da nemici, in realtà Israele è circondato da alleati strategici. L’Autorità palestinese, finanziata, armata e diretta dagli Stati Uniti, cospira da molto con Tel Aviv. Al fianco di Netanyahu ci sono poi le tirannie di Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Qatar – sebbene la palma d’oro la vinca il Qatar, che conta sul Mossad per la gestione della propria sicurezza.
La resistenza è l’umanità ai suoi livelli più alti e nobili. La resistenza a Gaza viene giustamente paragonata alla rivolta degli ebrei del ghetto di Varsavia, nel 1943 – che pure scavarono tunnel e svilupparono tattiche e stratagemmi di sorpresa contro una macchina militare dal potere schiacciante. L’ultimo leader sopravvissuto della rivolta di Varsavia, Marek Eldman, ha scritto una lettera di solidarietà alla resistenza palestinese, paragonandola ai propri compagni di resistenza nel ghetto, gli Zob (Organizzazione ebraica di combattimento, ndr). La lettera comincia così: «Ai comandanti delle operazioni militari, paramilitari e partigiane palestinesi – e a tutti i soldati [di Palestina]».
Il dott. Mads Gilbert è un medico norvegese noto per il suo eroico lavoro a Gaza. L’8 agosto egli è tornato nella sua città, Tronso, in Norvegia, che – egli ricorda – fu occupata dai nazisti per 7 anni. Egli ha detto: «Immaginate di essere nel 1945, e che noi norvegesi non avessimo vinto la battaglia per la liberazione né cacciato l’occupante. Immaginate che l’occupante sia ancora nel nostro Paese, e che se lo sia preso pezzo per pezzo, decennio dopo decennio, e che ci abbia respinto ai margini, prendendoci il pesce del mare e l’acqua intorno a noi, per poi bombardare i nostri ospedali, gli addetti alle ambulanze, le scuole, le nostre case.
Ci saremmo arresi e avremmo sventolato la bandiera bianca? Certamente no! Bene, questa è la situazione a Gaza. Non si tratta di una battaglia tra terrorismo e democrazia. Hamas non è il nemico che Israele sta combattendo. Israele ha intrapreso una campagna militare contro la volontà di resistere del popolo palestinese. Israele non accetta la dignità del popolo palestinese.
Nel 1938 i nazisti chiamavano gli ebrei Untermenschen -subumani. Oggi i palestinesi sono trattati come un popolo di subumani, che può venire massacrato senza che nessuno al potere reagisca.
Quindi, sono ritornato in Norvegia, un Paese libero, e questo Paese è libero perché abbiamo avuto un movimento di resistenza, in quanto le nazioni sotto occupazione hanno il diritto di resistere, anche con le armi – lo afferma il diritto internazionale. E la resistenza del popolo a Gaza è ammirevole: una battaglia per tutti noi».
Ci sono dei pericoli a pronunciare simili verità, a rompere quello che Edward Sa’id chiamava «l’ultimo tabù». Il mio documentario «Palestine is still the issue» è stato nominato per un British Academy Award, e ha ricevuto l’encomio dalla Commissione della televisione indipendente per la sua «integrità giornalistica» e per la «cura e per l’approfondimento delle ricerche». Ciò nonostante, trascorsi pochi minuti dalla sua messa in onda sul canale britannico Itv, è esplosa un’ondata di shock, in forma di una valanga di email che mi descrivevano «psicopatico demoniaco», «difensore dell’odio e del male», «antisemita della peggior fatta». La maggior parte di questa reazione è stata organizzata dai sionisti degli Stati Uniti che non avevano visto il documentario. Ricevetti poi minacce di morte al ritmo di una al giorno.
Qualcosa di simile è accaduto il mese scorso al commentatore australiano Mike Carlton. Nelle sue colonne sul Sydney Morning Herald Carlton ha scritto un raro pezzo di giornalismo su Israele e i palestinesi, nel quale ha identificato l’oppressore con le sue vittime. Egli è stato cauto a limitare il suo attacco a «una nuova e brutale Israele, dominata dalla linea dura del partito di destra di Netanyahu, il Likud». Coloro che hanno governato Israele precedentemente, egli intendeva, appartenevano a una «orgogliosa tradizione liberale».
In quel preciso istante è iniziato il diluvio. Egli è stato definito «sacco di melma nazista, razzista che odia gli ebrei», ha ricevuto ripetute minacce, ed ha risposto tramite email a chi lo attaccava di «andare a farsi fottere».
L’Herald ha chiesto a Carlton di scusarsi, ma egli si è rifiutato, ottenendo una sospensione, e decidendo poi di licenziarsi. Secondo Sean Aylmer, editore dell’Herald, la compagnia «si aspetta standard più alti dai propri editorialisti».
Il «problema» di una voce pungente, solitaria e liberale come quella di Carlton in un Paese in cui Rupert Murdoch controlla oltre il 70% della stampa della capitale – l’Australia è la prima murdochrazia del mondo – andrebbe risolto due volte. La Commissione australiana per i diritti umani sta svolgendo indagini contro Carlton, in base alla Legge sulla discriminazione razziale, che bandisce ogni atto o discorso pubblico «che possa… offendere, insultare, umiliare un altra persona o gruppo di persone» in base alla loro razza, colore o origine etnica.
Contrariamente alla sicura e silenziosa Australia, dove i Carlton vengono fatti estinguere, il vero giornalismo è vivo a Gaza. Parlo spesso al telefono con Mohammed ‘Omer, uno straordinario giovane giornalista che ho presentato al Premio Martha Gellhorn per il giornalismo nel 2008. In qualsiasi momento lo chiamassi, durante gli assalti su Gaza, potevo sentire i sibili dei drone, le esplosioni dei missili. Egli ha chiuso una telefonata per occuparsi di alcuni bambini radunatisi fuori in attesa di un trasporto, tra le esplosioni. Quando ho parlato con lui il 30 luglio, un F-19 israeliano aveva appena fatto a pezzi 19 bambini. Il 20 agosto egli mi ha descritto come i drone israeliani avevano di fatto radunato la popolazione di un villaggio, in modo da attaccarla selvaggiamente.
Ogni giorno, all’alba, Mohammed si occupa di famiglie che sono state bombardate. Egli raccoglie le loro storie, tra le macerie delle loro case, scatta foto. Egli va negli ospedali, va all’obitorio, va al cimitero. Egli fa la coda per ore per procurarsi il pane per la sua famiglia. E guarda il cielo. Spedisce due, tre, quattro comunicati al giorno. Questo è giornalismo vero.
«Cercano di distruggerci», mi ha detto. «Ma più ci bombardano e più siamo forti, non vinceranno mai».
Il grande crimine commesso a Gaza è il promemoria di un qualcosa di più vasto, che minaccia tutti noi.
Dal 2001 gli Stati Uniti e i loro alleati si stanno scatenando. In Iraq, il risultato è stato che almeno 700 mila uomini, donne e bambini sono morti. L’ascesa dei jihadisti – in un Paese in cui non ce n’erano – è stata un’altra conseguenza. Il moderno jihadismo, conosciuto come al-Qa’ida e ora lo Stato Islamico, è stato inventato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, con l’assistenza di Pakistan e Arabia Saudita. Lo scopo iniziale era lo sviluppo e l’utilizzo di un fondamentalismo islamico che non era quasi mai esistito nella maggior parte del mondo arabo, al fine di danneggiare i movimenti pan-arabi e i governi secolari. Dagli anni Ottanta questo è stato uno strumento per distruggere l’Unione Sovietica in Afghanistan. La Cia l’ha chiamata Operazione Ciclone, e un ciclone si è rivelato essere, con la furia esplosa in faccia ai suoi stessi creatori. Gli attacchi dell’11 settembre e quelli di Londra del luglio 2005 ne sono stati una conseguenza, così come i recenti orribili assassinii dei giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff. I killer (Isis in Siria)  di questi due giovani uomini sono stati armati dall’amministrazione Obama per più di un anno, con lo scopo di distruggere il governo secolare di Damasco.
Principale «alleato» dell’Occidente in questi sconvolgimenti è lo Stato medievale in cui le decapitazioni sono strumento ordinario di giudizio, l’Arabia Saudita. Quando un membro della famiglia reale inglese viene inviato in questo posto barbaro, possiamo scommettere che il governo della Gran Bretagna intende vendere agli sceicchi ulteriori bombardieri, missili e manette. La maggior parte dei dirottatori dell’11 settembre provenivano dall’Arabia Saudita, che arruola i jihadisti dalla Siria all’Iraq.
Perché dobbiamo vivere in questo perpetuo stato di guerra?
La risposta immediata sta negli Stati Uniti, dove è avvenuto un colpo di stato segreto, non reso pubblico. Un gruppo noto come Progetto per un nuovo secolo americano, assunse il potere con l’amministrazione di George W. Bush, ispirando Dick Cheney e altri. Questa setta di estremisti, noti a Washington come «i pazzi», credono in ciò che il Comando spaziale  Usa chiama «il predominio ad ampio spettro».
Sotto Bush e Obama una mentalità imperialista da diciannovesimo secolo si è insinuata in tutti i dipartimenti dello Stato. Un grezzo militarismo è in ascesa, la diplomazia superflua. Le nazioni e i governi vengono giudicate in base alle loro utilità e spendibilità, per essere corrotte, minacciate o «sanzionate».
Il 31 luglio scorso, il Comitato della difesa nazionale, a Washington, ha pubblicato un notevole documento che incitava gli Stati Uniti a prepararsi a combattere 6 grandi guerre simultaneamente. In cima alla lista c’erano Russia e Cina, potenze nucleari.
In un certo senso una guerra contro la Russia è già iniziata. Mentre il mondo guardava orripilato Israele assalire Gaza, atrocità simili commesse nell’Ucraina orientale passavano quasi inosservate. Mentre sto scrivendo, due città ucraine abitate da russofoni – Donetsk e Luhansk – sono sotto assedio. I loro abitanti, le scuole e gli ospedali attaccati dal regime di Kiev che ha preso il potere in un golpe attuato da neo-nazisti appoggiati e finanziati dagli Stati Uniti. Il golpe è stato il culmine di ciò che l’osservatore politico russo Sergei Glaziev descrive come una «preparazione ventennale di nazisti ucraini destinati alla Russia». Il fascismo è risorto in Europa e nessun leader europeo ne parla, forse perché esso è ormai una realtà europea che non si osa nominare.
Con il suo passato e presente fascista, l’Ucraina è ora un parco a tema della Cia e una colonia della Nato e del Fondo monetario internazionale. Il golpe fascista di Kiev del febbraio scorso è stato il vanto del vice segretario di Stato Usa Victoria Nuland, il cui «budget per il golpe» è ammontato a 5 miliardi di dollari. Ma c’è stato un contrattempo. Mosca ha previsto l’attacco della propria legittima base navale del Mar Nero nella Crimea russofona. Ne è seguito un referendum e una veloce annessione. Presentato in Occidente in maniera capovolta, come un’aggressione del Cremlino, il fatto è servito a coprire i piani di Washington; ostacolare i rapporti commerciali tra la Russia «paria» per far saltare la federazione russa. I missili americani già circondano la Russia, l’accumulo di basi militari nelle ex-repubbliche sovietiche e in Europa orientale è il maggiore dalla seconda guerra mondiale.
Durante la guerra fredda ciò avrebbe potuto essere un rischio di olocausto nucleare. Il rischio è ritornato con il crescendo di disinformazione isterica anti-russa negli Stati Uniti e in Europa. Ad esempio, prendiamo l’abbattimento dell’aereo malese del luglio scorso. Senza uno straccio di prove, Usa e alleati Nato e le loro macchine dell’informazione hanno incolpato i «separatisti» etnici russi in Ucraina, implicando la responsabilità ultima della Russia. Un editoriale sull’Economist ha accusato Vladimir Putin di strage di massa. La copertina di Der Spiegel ha riprodotto i volti delle vittime con sopra scritto in rosso «Stop Putin Jetzt!» (fermate Putin ora). Sul New York Times Timothy Garton Ash ha rafforzato la visione si una «Dottrina mortale di Putin», abusando di un personale commento su «un uomo basso e tarchiato con la faccia da ratto».
Il ruolo del Guardian è stato importante. Noto per le sue ricerche, il giornale non ha seriamente esaminato chi ha abbattuto l’aereo e perché, nonostante una massa di materiali da fonti affidabili dimostri che Mosca è rimasta scioccata quanto il resto del mondo, e che ad abbattere l’aereo avrebbe potuto essere stato il regime ucraino.
Il corrispondente da Mosca del Guardian, Shaun Walker, ha espresso un’opinione azzardata, nonostante le prove della Casa Bianca non siano verificabili – anche se i satelliti Usa hanno ripreso l’abbattimento. Il titolo in prima pagina all’intervista di Walker a un certo Igor Bezler è stato: «La mia udienza con il Demone di Donetsk», e vi si legge: «Con dei baffi da tricheco, una tempra impetuosa e una reputazione per la sua brutalità, Igor Bezler è il più temuto di tutti i leader ribelli dell’Ucraina orientale. Il suo nomignolo è Il Demone… e se possiamo dar credito ai servizi segreti ucraini, l’Sbu, il Demone e un gruppo dei suoi uomini sarebbero i responsabili dell’abbattimento del volo Mh17 della Malaysia Airlines… così come probabilmente dell’abbattimento di 10 aerei ucraini». Il giornalismo demoniaco non richiede prove ulteriori.
Il giornalismo demoniaco trasforma una giunta macchiata dalla presenza fascista che ha preso il potere a Kiev, in un rispettabile «governo ad interim». I neonazisti diventano semplici «nazionalisti». Le «notizie» provenienti dalla giunta di Kiev assicurano la soppressione di un golpe gestito dagli Stati Uniti e della pulizia etnica sistematica della popolazione russofona in Ucraina orientale. Che ciò succeda nelle terre di confine attraverso le quali i nazisti originali invasero la Russia, spazzando circa 22 milioni di vite umane, non interessa a nessuno. Ciò che interessa è l’»invasione russa» dell’Ucraina, che è difficile da provare oltre che con le immagini satellitari che ricordano la fantasiosa presentazione delle «prove» fatta a suo tempo da Colin Powell alle Nazioni Unite, comprovante il possesso di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa. «Bisogna sapere che le accuse di una grave ‘invasione’ russa dell’Ucraina non sono supportate da fonti di intelligence affidabili», ha scritto un gruppo di ex-funzionari anziani e di analisti dei servizi Usa (il Veteran Intelligence Professionals for Sanity) al cancelliere tedesco Angela Merkel. «Piuttosto, l’’intelligence’ sembra orientata agli stessi dubbi e dalla stessa ossessione politica usati 12 anni fa per ‘giustificare’ l’attacco all’Iraq guidato dagli Stati Uniti».
In gergo tecnico si dice «controllare la narrativa». Nel suo lavoro seminale, Cultura e imperialismo, Edward Sa’id è stato più esplicito: la macchina dei media occidentali è ora capace di penetrare più in profondità la consapevolezza di gran parte dell’umanità, con un un «cablaggio» influente tanto quanto quello delle flotte imperiali del XIX secolo. In altri termini, giornalismo d’attacco, o guerra tramite i media.
Ma un’intelligenza pubblica critica e una resistenza alla propaganda esistono; e un secondo super potere sta emergendo – il potere dell’opinione pubblica, alimentato da internet e dai social media.
La falsa realtà creata dalle false notizie diffuse dai guardiani dei media potrebbe impedire a qualcuno di noi di rendersi conto che questo super potere si sta diffondendo di paese in paese, dalle Americhe all’Europa, all’Asia e all’Africa. E’ un’insurrezione morale, incarnata da informatori come Edward Snowden, Chelsea Manning e Julian Assange. La domanda è: romperemo il silenzio entro il tempo massimo?
L’ultima volta che sono stato a Gaza, dirigendomi verso il posto di blocco israeliano ho notato due bandiere palestinesi attraverso il filo spinato. Dei bambini avevano creato delle aste per bandiere con dei bastoni legati assieme, e si erano arrampicati su un muro sventolando la bandiera.
Mi è stato riferito che i bambini fanno così perché vogliono mostrare al mondo che loro sono lì – vivi e coraggiosi, e indifesi.
Traduzione di Stefano Di Felice