Gerusalemme: una città in balia della paura e dell’apartheid israeliane

352391CGerusalemme-Ma’an. Di Emily Mulder. Lo scorso 14 ottobre Mohammad, 20 anni, palestinese e residente a Gerusalemme, è stato aggredito da un gruppo di israeliani.

Suo zio, Aziz Abu Sarah, ha detto a Ma’an di aver incontrato il nipote per pranzo, quel giorno, e di avergli dato le chiavi della macchina di suo padre, parcheggiata fuori dal Mormon College, in città.

Mentre Mohammad si avvicinava all’automobile, un gruppo di circa 10 uomini che Abu Sarah ha descritto come “nazionalisti religiosi” si trovava nel parcheggio.

Mohammad pensava che volessero soltanto parlargli, ma a turno hanno cominciato a picchiarlo, prima prendendolo a pugni e poi colpendolo con delle mazze. Lo hanno poi inseguito minacciandolo con dei coltelli e urlando “Uccidetelo! Uccidetelo!” prima che riuscisse ad arrivare alla macchina e fuggire.

Mohammad ha riportato ferite gravi, e suo zio ritiene che il gruppo lo avrebbe ucciso se non fosse riuscito a scappare.

La violenza si sta espandendo a macchia d’olio a Gerusalemme; tra soldati israeliani, posti di blocco appena installati e israeliani estremisti di destra nelle strade, i giovani palestinesi cercano di scrollarsi di dosso l’occupazione ormai decennale nella parte est della città.

Dall’inizio del mese più di 60 palestinesi (71, fino a sabato 31 ottobre, ndr) sono stati uccisi dalle forze armate israeliane nei territori occupati, e almeno 10 israeliani sono rimasti vittime di aggressioni da parte dei palestinesi, molte delle quali hanno avuto luogo proprio a Gerusalemme est.

In risposta a tutto questo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha preso provvedimenti contro i palestinesi, in un presunto tentativo di mettere fine alle violenze, mentre il Parlamento e la polizia invocano invece la protezione dei residenti ebrei della città.

I palestinesi residenti in quella che i leader israeliani hanno a lungo decantato come “capitale unita” dell’unica “democrazia nel Medio Oriente”, dicono di sentirsi ora come non mai marginalizzati dalle autorità israeliane.

I provvedimenti, dicono, sono dettati dalla paura e portati avanti dalla maggioranza di destra del governo israeliano.

“Inchiodati” 

Abu Sarah è cresciuto a Gerusalemme. I suoi parenti sono stati picchiati e uccisi dalle forze armate israeliane, e torturati nelle carceri. Quando gli chiedono se la situazione nella sua città natale è peggiorata, risponde “Si, assolutamente”.

Abu Sarah si imbatte spesso negli israeliani, ma cerca di evitare di andare a Gerusalemme ovest. “Lì ci sono gang che cercano i palestinesi. Se scoprono che sei palestinese…Ci vuole un attimo”.

Nel frattempo, gli ingressi ai quartieri palestinesi sono stati chiusi, le case dei palestinesi autori di aggressioni sono state demolite, coloro che vi sono coinvolti potrebbero perdere la residenza, e la polizia ha la facoltà di chiudere o circondare alcune aree della città.

Mohammad Abu al-Hummus, residente nel quartiere palestinese di al-Issawiya, ha detto di non ricordare un momento in cui l’impegno da parte di Israele per isolare e chiudere il suo quartiere sia stato maggiore.

“Al-Issawiya è un ghetto” ha detto Abu al-Hummus, salendo su una collina che si affaccia sulla zona e indicando con il bastone la realtà geografica del quartiere.

Il villaggio è separato dagli altri quartieri palestinesi a nord e a est – che tecnicamente fanno parte di Gerusalemme – da un muro di cemento, e circondato a ovest dall’insediamento israeliano di French Hill.

A sud si trova la Hebrew University, dove le strade che conducono fuori da Issawiya sono chiuse da più di un anno.

Abu al-Hummus ha detto a Ma’an che i 18.000 residenti del quartiere si erano già sentiti isolati quando il 15 ottobre le strade che portavano al villaggio erano state chiuse con blocchi di cemento, su ordine di Netanyahu.

Durante i controlli di sicurezza in entrata e in uscita, agli uomini viene detto di sollevare le maglie, e tutte le borse, che siano di uomini, donne o bambini, vengono controllate.

A volte, le borse perquisite vengono svuotate in strada, e i residenti sono costretti a raccogliere i loro effetti da terra, ha poi aggiunto.

“Questa è una novità, specialmente ad al-Issawiya. Chiudere tutti gli accessi, controlli di sicurezza, far spogliare le persone… Non è mai successo prima”, ha detto Abu al-Hummus.

Ha detto inoltre che nelle recenti settimane le forze armate israeliane entravano ad al-Issawiya due o tre volte al giorno. Qualche ora fa, circa 50 soldati sono entrati con dei cani per perquisire le case e spruzzare gas lacrimogeno.

“Vogliono che ci sentiamo inchiodati” ha detto Abu al-Hummus, “Ma è normale. E’ così che ci trattano”.

Minaccia demografica 

I residenti di al-Issawiya sono tra i più di 300.000 palestinesi di Gerusalemme a ricevere una pena collettiva da parte del governo israeliano.

La durezza del trattamento riservato dagli israeliani ai palestinesi il mese scorso è solo il culmine di decenni di politiche discriminatorie.

I palestinesi residenti a Gerusalemme al tempo dell’occupazione del 1967 non sono diventati cittadini israeliani ma hanno ricevuto uno “stato di residenza” che in realtà non li rende altro che apolidi sotto il controllo dell’autorità israeliana.

Nonostante paghino le tasse e godano di una serie di servizi, i palestinesi di Gerusalemme non hanno passaporti e non possono votare per eleggere i membri Knesset, le cui decisioni si ripercuotono sulle loro vite quotidiane.

Il paesaggio della città, tuttavia, ha subito importanti modifiche demografiche e fisiche, nel tentativo di “giudaicizzare” Gerusalemme. Nel 1967, la popolazione di Gerusalemme est era al 100% palestinese. Oggi, i palestinesi sono appena il 37%.

Lo stato di residenza di 14.416 palestinesi gerosolimitani è stato revocato nel 1967, secondo l’Associazione dei Diritti Civili in Israele.

Stare a Gerusalemme effettivamente rende i palestinesi nemici dello stato.

Riguardo la recente minaccia di Netanyahu di revocare la cittadinanza a circa un terzo dei palestinesi gerosolimitani, Abu Sarah ha detto a Ma’an: “(Netanyahu) li vede come una minaccia demografica, come degli estranei”.

“Tuttavia si aspetta che si attengano alla legge, che non commettano violenza” aggiunge. “Quando ci vedi come nemici ma vuoi comunque che la città sia unita e costruisci un muro che la divide… E’ una contraddizione”.

“Tutti hanno paura”

Quando i palestinesi sono visti come nemici dallo stato, la paura che alimenta gli attacchi da parte degli israeliani diventa organizzata e promossa dallo stato stesso.

Secondo Abu Sarah il governo è parte del problema. “Dire ai cittadini ebrei che tutti dovrebbero possedere un’arma da fuoco, di “sparare prima, chiedere poi”… Queste cose fanno la differenza”.

Abu Sarah aggiunge inoltre che la maggior parte degli attacchi sono verso i palestinesi, ma che non sono gli attacchi che sono riportati dai media israeliani.

“Guardavo la tv la settimana scorsa e un comandante di polizia ha detto ‘il nostro lavoro qui è difendere i residenti ebrei.. Proteggere tutti i residenti’. La sua affermazione iniziale dice tutto”.

Gli ufficiali israeliani hanno esortato poliziotti e soldati a sparare ai palestinesi autori delle aggressioni piuttosto che arrestarli, mentre gli israeliani di destra hanno setacciato le strade di Gerusalemme in cerca di palestinesi, sostenuti dalle recenti leggi israeliane.

Per paura di essere aggredito di nuovo Mohammed è rimasto chiuso in casa per almeno una settimana.

La paura ha cambiato radicalmente anche la vita di Abu al-Hummus, che è cosciente del fatto che sia cambiata anche quella dei suoi vicini ebrei nell’insediamento di French Hill.

“Qui ci sono rapporti tra palestinesi ed ebrei” ha spiegato Abu al-Hummus. “Ma a causa della questione della sicurezza, tutti hanno paura. Regna la paura. Lui ha paura di me, io ho paura di lui. Diciamo che va tutto bene, ma in realtà non è così”.

“Vogliamo soltanto vivere nella nostra terra” 

L’odio razzista e la paura che si sono impossessati della città sono sfociati nell’uccisione di alcuni palestinesi che non hanno neanche reagito al momento della loro morte.

A Haifa, un ebreo israeliano che “sembrava arabo” è stato accoltellato da un altro ebreo, e a Tel Aviv un eritreo che chiedeva asilo è stato colpito, aggredito e ucciso a una fermata dell’autobus a Beersheba.

La preoccupazione di Abu Sarah è che la paura sia fuorviante. Dopo l’aggressione, suo nipote aveva paura degli ebrei israeliani, ma suo zio gli ha detto che facendosi trasportare dalla reazione ignorava la radice del problema.

Secondo l’indice demografico israeliano del 2014, circa il 50% degli israeliani schierati a destra – il settore della popolazione che controlla le politiche di governo – ha detto che gli ebrei dovrebbero avere più diritti dei non ebrei in Israele.

I parlamentari israeliani continuano a negare la possibilità di un futuro stato palestinese, promuovendo attivamente l’espansione degli insediamenti di soli ebrei sul territorio palestinese nella parte occupata di Gerusalemme est e in Cisgiordania.

“Mio nipote dopo essere stato aggredito ha detto ‘non odio gli ebrei, non sono loro il mio problema, non è la religione. Il mio problema è l’occupazione’” ha detto Abu Sarah a Ma’an.

Secondo lui, le misure a breve termine di controllo del conflitto promosse attualmente dai leader di Stati Uniti, Israele, Palestina e Giordania non risolveranno il problema a lungo termine.

Abu al-Hummus invece crede che l’approccio israeliano nel reprimere il conflitto sia fuorviante.

“(Il governo israeliano) dice ‘questo è un palestinese, un arabo, un omicida’. Ma non è questo il problema… Non la pensiamo così. Questi non siamo noi. Noi siamo solo palestinesi che vogliono vivere nella propria terra”.

Traduzione di Giovanna Niro