Hamas, alle radici della vittoria elettorale

Gli accordi di Oslo.

Gli accordi siglati fra Arafat e Rabin avevano diviso i palestinesi fra favorevoli e contrari. Tali accordi non sono stati avallati da nessuna autorità palestinese, né dal Consiglio nazionale, né dal Comitato esecutivo. Si è trattato di un’iniziativa condotta da Arafat e dagli altri dirigenti di al-Fatah. La gente comune, inizialmente, era ottimista, perché pensava che in questo modo la dominazione israeliana si sarebbe ridotta. La dirigenza dell’Olp aveva dato quest’idea positiva alla popolazione. Ma la realtà si è rivelata diversa dalle aspettative: nessun sostanziale cambiamento politico, economico e sociale ha avuto luogo. Anzi, dal punto di vista economico la situazione è peggiorata, perché il numero di operai palestinesi che lavorano nelle fabbriche israeliane è stato notevolmente ridotto: può andarci chi non ha alle spalle precedenti politici (quindi ben pochi). Inoltre, gli insediamenti ebraici nei Territori occupati nella Cisgiordania e a Gaza sono in aumento, nonostante le dichiarazioni di principio in senso contrario del governo israeliano. Molti dei prigionieri politici sono ancora in carcere. Le difficoltà economiche di molti palestinesi si fanno sempre più sentire.

Come conseguenza di tutto ciò, parte dell’opinione pubblica palestinese ha mutato atteggiamento: da favorevole agli accordi o, in alcuni casi, indifferente, è diventata contraria

L’affermarsi dell’opposizione “religiosa”, gli errori della sinistra.

In tale situazione di caos, l’opposizione ha trovato terreno favorevole al suo sviluppo. In particolare, quella religiosa, rappresentata da Hamas (e dal Jihad islamico), ne ha ampiamente beneficiato, poiché ha proposto un programma serio, con obiettivi precisi e chiari, con tattiche e strategie altrettanto ben studiate.

Questo movimento ha usato a proprio vantaggio anche gli errori della sinistra, il cui fallimento va ricercato nel programma rivolto quasi esclusivamente al sabotaggio degli accordi, senza attenzione alle reali e concrete esigenze della popolazione impoverita. Alla sinistra è mancata, infatti, la capacità di analisi seria degli eventi che hanno portato alla firma degli accordi. Come conseguenza di ciò si è prodotta una fossilizzazione su determinate posizioni e dichiarazioni di principio, mentre tutto il lavoro pratico di assistenza ai bisogni primari della popolazione è stato lasciato all’opposizione religiosa, che ne ha tratto enormi vantaggi, in immagine e credibilità, e ha così ingrossato le fila dei proprio sostenitori e simpatizzanti.

Si possono individuare due fasi nello sviluppo di Hamas all’interno della situazione politica palestinese. Anzitutto questo movimento non è nato, come l’opinione pubblica occidentale comunemente crede, durante la prima Intifada (la “rivolta delle pietre”, scoppiata nel novembre 1987), bensì è una filiazione del movimento dei Fratelli Musulmani, fondato in Egitto da Hasan al-Banna nel 1928.

I Fratelli Musulmani e la Palestina.

Negli anni ’40 i Fratelli crearono la prima cellula del movimento in Palestina, per combattere il progetto sionista, e conquistarono l’appoggio di alcuni leader nazionalisti. Durante la guerra del ’48, la confraternita affiancò l’azione dei palestinesi.

Negli anni ’50, con il sorgere dei Partiti Nazionalista e Baath, il movimento perse molti appoggi e si indebolì, specialmente nella striscia di Gaza e, negli anni ’60, focalizzò la propria attività su interventi non-violenti di propaganda religiosa e sociale. Anche la guerra del ’67 lo vide su posizioni moderate e di non coinvolgimento nelle attività violente. Nel frattempo si dedicò a costruire le sue strutture all’interno della società palestinese. Scelse come luoghi privilegiati le scuole, le università, le moschee, dove i più influenti membri si recavano a diffondere i messaggi islamici.

Lo scoppio dell’Intifada, nel 1987, offrì ai Fratelli Musulmani la possibilità di entrare nel vivo della lotta di liberazione palestinese. Il Jihad islamico, un gruppo staccatosi dai Fratelli, era già molto attivo nel paese contro l’occupazione israeliana e mandò in crisi la posizione di non-coivolginmento adottata fino allora dai Fratelli.

La nascita di Hamas.

Fu dunque nel 1987 che venne fondato Hamas (Harakat al-Muqawama al-Islamiyya, Movimento di resistenza islamica): in questo modo i Fratelli Musulmani entravano a far parte della resistenza, ma senza esserne direttamente coinvolti.

È soltanto nell’anno successivo, il 1988, che Hamas ha svelato il suo legame con i Fratelli Musulmani, dichiarando di esserne l’ala militare.

Fino all’inizio dell’Intifada, Hamas non aveva nessun peso reale nei Territori occupati e tantomeno fra i palestinesi della diaspora; non aveva mai fatto parte dell’Olp (e questo l’aveva molto indebolito). La sollevazione popolare, invece, gli ha fornito un terreno fertile per svilupparsi. La sua posizione al di fuori dell’Olp gli ha permesso di preparare un programma del tutto autonomo, sia a livello economico che politico. Un programma completo che lo contrappone a quelli dei vari partiti e fazioni presenti sulla scena politica palestinese. Inoltre non ha mai fatto parte del “comando unificato” dell’Intifada, anzi, ha emesso appelli completamente indipendenti e spesso all’opposto.

Lotta politica e islamizzazione.

Nei primi due anni di Intifada, Hamas è riuscita a fondere la lotta politica con la lotta per l’islamizzazione della società. Difatti attualmente Hamas ha un piano sociale e politico che va ben al di là della liberalizzazione dei Territori occupati: sanità, assistenza, istruzione, forniture alimentari, attività commerciali, costruzione di moschee, organizzazione del tempo libero – insieme alle azioni armate e agli attentati militari… Tutto ciò lo ha maggiormente differenziato dagli altri partiti e movimenti politici, di sinistra e di destra e ha rappresentato una potente arma di propaganda nei confronti di gente stanca e delusa da promesse e da vuote parole. E questo, come si è già detto, ha causato il fallimento della linea degli altri gruppi politici di opposizione.

Inizialmente, Israele aveva acconsentito allo sviluppo di questo movimento di resistenza come strumento per colpire l’Olp, indebolirlo e screditarlo, nel tentativo di creare l’alternativa alla dirigenza nazionale.

Un altro elemento molto importante che ha contribuito favorevolmente allo sviluppo di Hamas è l’appoggio economico che riceve da molte parti – dalla comunità islamica negli Usa, dall’Iran, dall’Algeria, dal Sudan, dai paesi arabi del Golfo, dai palestinesi stessi dei Territori occupati. I commercianti palestinesi, ad esempio, sono dei buoni contribuenti, e, in base al fatto che, per motivi religiosi, devono pagare l’elemosina per i poveri, come tassa sugli stipendi, la  versano nelle moschee ai dirigenti di Hamas.

Grazie a tutti questi contributi economici, il Movimento ha potuto sviluppare infrastrutture invidiabili, sia in campo sanitario che in quello dell’istruzione. Nelle varie istruzioni e strutture, ha dunque proposto un’ideologia alternativa a quella dell’Olp, con un riscontro concreto molto forte e attraente per la popolazione.

L’Islam via da percorrere.

Altri fattori che hanno contribuito al successo di Hamas sono, in primo luogo, il crollo dell’Unione Sovietica e dei regimi comunisti dell’Est europeo e il fallimento delle ideologie marxiste e dei partiti comunisti. Questi fenomeni sono stati interpretati dai musulmani radicali come una conferma – se mai ce ne fosse stato bisogno – dell’esclusività dell’Islam come strada da percorrere.

In secondo luogo, le posizioni assunte da Hamas durante la guerra del Golfo (1991) – guerra che ha inflitto un duro colpo all’Intifada e ai partiti di sinistra -, ha portato nelle casse del movimento altri soldi – quelli che i paesi del Golfo, Kuwait incluso, donavano all’Olp e che, dopo il suo appoggio al leader
iracheno Saddam Hussein, hanno smesso di fornirgli – e un accresciuto appoggio politico. Durante questo conflitto, Hamas ha criticato l’Iraq in modo sottile, e ha reso pubblica anche l’accusa contro l’intervento degli Usa e dell’Europa. La prima mossa ha soddisfatto i regimi arabi del Golfo, la seconda le masse arabe, in particolare quella palestinese. In questo modo, visto l’aperto sostegno a Saddam da parte della dirigenza dell’Olp, Hamas ha iniziato ad essere considerata, proprio dai regimi arabi della penisola arabica, come l’alternativa alla dirigenza palestinese ufficiale. Inoltre, la sconfitta dell’Iraq, e di quella forma di nazionalismo arabo che esso rappresentava agli occhi delle popolazioni arabe e di quella palestinese in modo specifico, è stata interpretata come il fallimento della natura e delle potenzialità del nazionalismo stesso.

La vittoria del 25 gennaio 2006.

Hamas è dunque venuto a rappresentare, per tutte le ragioni fin qui analizzate, uno strumento per la soluzione di molti problemi e ha trovato ampio spazio all’interno di un grande vuoto politico, ideologico, culturale ed esistenziale. Inoltre, il fallimento di anni di lotta, di morti, ha inflitto un altro duro colpo – dopo le tante guerre e guerriglie – allo spirito di sopportazione della gente, ormai sfiduciata, delusa, in molte zone affamata e disperata. E stanca delle promesse di una dirigenza vecchia e sempre uguale a se stessa, corrotta e arricchita a spese dei tanti abitanti dei campi profughi e delle sempre più numerose zone misere della Palestina. La gente, musulmani e cristiani, sentivano il bisogno di una forza moralizzatrice e portatrice di cambiamento, di speranza e che potesse trattare con Israele senza svendere diritti e dignità. Tanti anni di accordi non hanno portato ad alcun risultato positivo per la popolazione palestinese: gli insediamenti crescono di giorno in giorno insieme alle requisizioni di case, scuole, centri, moschee, fonti d’approvvigionamento idrico e elettrico; continuano i massacri efferati ai danni di civili – ultimo, in ordine di tempo, quello al campo di Balata, a Nablus, passato in sordina sui media occidentali, troppo attenti a discutere sull’importo del blocco finanziario da attuare contro Hamas, considerato “movimento di terroristi”, per occuparsi di ciò che accade a bimbi, donne, uomini, ragazzi e vecchi. Umiliazioni, violenze quotidiane sono il leit motiv della vita palestinese, e nulla sembra cambiare. Non c’è né da stupirsi né da scandalizzarsi, dunque, se la popolazione ha dato fiducia a un movimento da cui si è sempre sentita sostenuta – emblematico, al riguardo, è il sostegno della stessa comunità cristiana, a dispetto, di nuovo, dei timori sollevati in Occidente.

Il vero scandalo, forse, è proprio il silenzio dell’opinione pubblica e dei governi occidentali di fronte al genocidio in corso in Palestina, e l’ipocrisia di chi guarda e non vuol vedere.

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