I rifugiati palestinesi e il “monologo del secolo”

Al Jazeera. Di Lorenzo Kamel. (Da Zeitun.info). I rifugiati palestinesi e il “monologo del secolo”.Ovvero, perché l’analogia tra l’espulsione dei palestinesi e l’‘esodo’ degli ebrei dai Paesi arabi è fuorviante

Nel 1948 circa 450 villaggi palestinesi vennero rasi al suolo dalle forze israeliane e circa 770.000 persone – compresi circa 20.000 ebrei cacciati da Hebron, Gerusalemme, Jenin e Gaza dalle milizie arabe – furono espulsi nell’arco di pochi giorni e poi venne loro negato il ritorno con la forza. Alcuni di loro fuggirono per paura, spesso dopo aver assistito al tragico destino dei loro parenti e amici.

Un caso emblematico fu l’espulsione di massa di palestinesi dalle città di Lydda e Ramle nel luglio 1948, che rappresentarono un decimo di tutto l’esodo arabo-palestinese. La maggioranza dei 50.000-70.000 palestinesi che vennero cacciati dalle due città lo furono in seguito a un ordine ufficiale di espulsione firmato dall’allora comandante della brigata Harel, Yitzhak Rabin: “Gli abitanti di Lydda”, chiarì Rabin, “devono essere espulsi rapidamente senza badare all’età”. Molte centinaia di loro morirono durante l’esodo per lo sfinimento e la disidratazione.

Oltre 70 anni dopo è diventato sempre più comune imbattersi in analogie tra i rifugiati palestinesi come quelli di Lydda e Ramle e il “simultaneo sradicamento” di ebrei che vivevano nei Paesi arabi. Il vice ministro israeliano delle Finanze Yitzhak Cohen, per esempio, ha detto che “il problema degli ebrei espulsi è uguale al problema dei rifugiati palestinesi, se non maggiore”.

L’analogia, che in primo luogo intende eliminare il problema dei rifugiati palestinesi da ogni futuro negoziato di pace, è in genere presentata nei seguenti termini: a causa del “rifiuto arabo” del piano delle Nazioni Unite del 1947, scoppiò un conflitto e 770.000 palestinesi “fuggirono” da quello che oggi è Israele”; allo stesso tempo 800.000 ebrei che vivevano nei Paesi arabi dovettero affrontare un’“espulsione di massa”; quindi ci fu uno “scambio di popolazione” tra “rifugiati arabi ed ebrei”. I palestinesi dovrebbero quindi accettare questa “reciprocità” e rinunciare alle loro richieste di tornare e/o di indennizzi.

Ma questo tentativo di equivalenza morale è fuorviante. Palestinesi ed ebrei scapparono dalle proprie case in contesti diversi e i primi non possono essere accusati del destino dei secondi. La complessa storia dei rifugiati palestinesi non dovrebbe essere ridotta a una semplice analogia su basi non dimostrate.

Chi ha rifiutato cosa?

Una pletora di osservatori e studiosi ha legato l’inizio del problema dei rifugiati palestinesi, e più in generale il conflitto arabo-israeliano, al “rifiuto arabo” della partizione della Palestina da parte dell’ONU nel 1947. Mentre apparentemente questa affermazione può avere senso, la realtà di chi rifiutò cosa negli anni ’40 è più complicata di così.

Infatti, come ha evidenziato il defunto giornalista e attivista israeliano Uri Avnery, se ai palestinesi “fosse stato chiesto, probabilmente avrebbero rifiutato la partizione, dato che – secondo loro – concedeva una gran parte della loro patria storica a stranieri”, Tanto più, ha notato, “in quanto agli ebrei, che all’epoca rappresentavano un terzo della popolazione, venne destinato il 55% del territorio – ed anche lì gli arabi costituivano il 40% della popolazione”.

Ma dalla prospettiva degli arabo-palestinesi, che all’inizio del secolo costituivano circa il 90% della popolazione, il 1947-48 non segnò l’inizio della lotta, ma coincise piuttosto con il capitolo finale di una guerra che era iniziata con alcuni leader sionisti che nei primi anni del XX° secolo avevano adottato politiche e strategie di rifiuto.

L’inizio del conflitto può essere fissato al 1907, quando l’ottavo congresso sionista creò un “ufficio della Palestina” a Giaffa, sotto la direzione del leader sionista Arthur Ruppin, il cui principale obiettivo era – con le sue stesse parole – “la creazione di un contesto ebraico e di un’economia ebraica chiusi, in cui produttori, consumatori e intermediari debbano essere tutti ebrei”. In effetti il “rifiuto” era presente con particolare rilievo nella mentalità di Ruppin.

L’obiettivo di un’“economia ebraica chiusa” venne parzialmente messo in pratica dal 1904 in poi dai dirigenti della seconda e terza aliyot (ondate di immigrazione ebraica in Palestina) attraverso politiche come la kibbush ha’avoda (conquista del lavoro) e la pratica dell’avodah ivrit (lavoro ebraico, o l’idea che solo i lavoratori ebrei dovessero lavorare terra ebraica).

Benché entrambe fossero guidate dalla necessità di maggiori opportunità di lavoro per i nuovi immigrati, diedero come risultato la creazione di un sistema di esclusione che bloccò fin dall’inizio, in primo luogo a livello ideologico, qualunque potenziale integrazione con la popolazione araba locale.

Alcuni ricercatori hanno sottolineato che allo stesso modo la popolazione araba tendeva a evitare di assumere coloni ebrei. Ciò, tuttavia, non tiene in alcun conto il fatto che gli arabi avevano solo un interesse molto limitato ad assumere una minoranza di nuovi immigrati che avevano una molto minore esperienza agricola e non parlavano la lingua utilizzata dal resto della popolazione locale. Il loro rifiuto dei lavoratori ebrei non faceva parte di una campagna politica organizzata.

Bisognerebbe anche notare che il “sistema di esclusione” e le due strutture sociali e politiche parallele che innescarono colpirono altre questioni fondamentali, quali la terra e le sue risorse.

Per esempio il Fondo Nazionale Ebraico (KKL) venne fondato con il compito di comprare terre in Palestina (riuscì a comprare i nove decimi della terra acquistata in Palestina da proprietari sionisti), mentre vietava la vendita di queste nuove aree acquisite a non ebrei.

Le aree del KKL vennero gestite in modo discriminatorio rispetto alla popolazione araba. I contadini del KKL che venivano scoperti ad assumere lavoratori non ebrei erano soggetti a multe e/o espulsioni. Tali politiche erano effettivamente allarmanti, soprattutto in considerazione dell’obiettivo perseguito, che il futuro primo presidente dello Stato di Israele, Chaim Weizmann, sottolineò in una lettera inviata a sua moglie nel 1907: “Se i nostri capitalisti ebrei, cioè solo i capitalisti sionisti, dovessero investire i loro capitali, anche solo in parte, in Palestina, non ci sono dubbi che l’arteria vitale della Palestina – tutta la fascia costiera – sarebbe in mani ebraiche entro venticinque anni (…) L’arabo conserva il suo attaccamento primitivo alla terra, l’istinto del suolo è forte in lui, ed essendo costantemente impiegato in esso c’è il pericolo che possa sentirsi indispensabile, con un diritto morale su di esso”.

Tutto ciò conferma ulteriormente che la tendenza a collegare il “rifiuto arabo” alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi ignora buona parte della storia e non può che favorire una comprensione limitata di una questione molto più complessa.

Rapporti arabo – ebraici.

Le politiche di rifiuto ebbero un effetto estremamente distruttivo sui rapporti intercomunitari in Palestina. Una serie di fonti primarie prodotte da attori locali alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX° confermano che prima della messa in pratica di queste politiche i rapporti tra diverse comunità erano molto meno conflittuali di quanto sia stato sostenuto di recente.

Per esempio un editoriale anonimo pubblicato sul quotidiano arabo-palestinese “Filastin” del 29 aprile 1914 asseriva: “Fino a dieci anni fa gli ebrei costituivano un elemento autoctono ottomano fraterno. Vivevano e si mescolavano liberamente in armonia con altri soggetti ed intrattenevano rapporti di lavoro, vivevano negli stessi quartieri e mandavano i propri figli nelle stesse scuole”. Queste parole, nonostante il tono apologetico, non erano lontane dalla realtà. Gli atteggiamenti mostrati da varie importanti figure e gruppi religiosi nella regione e la pressione esercitata dalla Porta [la Sublime Porta, cioè l’impero ottomano, ndtr] in modo che gli ebrei locali potessero diventare cittadini ottomani a pieno diritto confermano – almeno come tendenza generale – tali considerazioni.

Parlando in una pubblica piazza a Beirut nella primavera del 1909, l’avvocato ebreo Shlomo Yellin affermò che “non è legittimo dividere in base alla razza: turchi, arabi, armeni ed ebrei si sono mischiati tra loro e tutti sono legati insieme”.

Lo studioso e scrittore Yaacov Yehoshua scrisse nelle sue memorie “Yaldut be-Yerushalayim ha-yashena” (Infanzia nella Gerusalemme vecchia), pubblicate nel 1965, che a Gerusalemme “c’erano complessi edilizi comuni di ebrei e musulmani. Eravamo come una famiglia (…) I nostri figli giocavano con i loro (musulmani) in cortile, e se bambini del quartiere ci davano fastidio i bambini musulmani che vivevano nel nostro complesso ci proteggevano. Erano nostri alleati”.

Nello stesso periodo, in una città religiosa per eccellenza come Gerusalemme, circa l’80% degli abitanti viveva in quartieri e strutture misti.

Tutto ciò non dovrebbe far pensare che conflitti interreligiosi e/o confessionali fossero sconosciuti. Divisioni e scontri di questo tipo possono essere documentati fin dal Medioevo. Eppure la loro natura e dimensione non erano comparabili con quelle di tempi più recenti. Cosa ancora più importante, non riflettono la storia reale di buona parte del passato della regione.

I palestinesi e l’espulsione degli ebrei.

Se la questione dei rifugiati palestinesi ha poco a che vedere con il “rifiuto arabo”, lo stesso si può dire riguardo al tentativo di collegare i rifugiati palestinesi alla vittimizzazione ed espulsione delle comunità ebraiche.

Certamente migliaia di ebrei nei Paesi arabi patirono discriminazioni, oppressione, minacce e varie forme di violenza. L’esempio più noto è il “Farhud” – un pogrom del 1941 in cui oltre 180 ebrei vennero brutalmente uccisi a Baghdad. Secondo Hayyim J. Cohen, “fu l’unico evento (di questo genere) noto riguardo agli ebrei in Iraq, almeno durante il loro ultimo secolo di vita là”.

Indipendentemente dal fatto che siamo d’accordo o meno con le parole di Cohen, è comunque incontestabile che i palestinesi non furono responsabili di quanto avvenne a Baghdad o altrove in Medio Oriente. Possono anche essere arabi, ma non erano e non sono lo stesso popolo degli iracheni.

Ebrei che soffrirono discriminazioni e brutalità in alcuni Paesi arabi hanno rivendicazioni legittime, ogni forma di violenza è ugualmente inaccettabile e deve essere riconosciuta e condannata. Al contempo, va rilevato che, contrariamente ai rifugiati palestinesi, molti dei quali vennero espulsi, o scapparono per paura, una grande maggioranza degli ebrei non volle raggiungere la loro “Eretz Yisrael” (Terra di Israele).

Una personalità che spesso viene utilizzata per giustificare la presunta responsabilità dei palestinesi per le condizioni degli ebrei nei Paesi arabi è Hajj Amin al-Ḥusayni, il “Grand Mufti di Gerusalemme”. Al-Husayni era un sostenitore del primo ministro iracheno Rashid Ali al-Gaylani, che intendeva stabilire legami più forti con la Germania nazista e l’Italia. Fu all’indomani della caduta del governo di al-Gaylani che a Baghdad scoppiarono i disordini che portarono al “Farhud”.

Nel 1941 al-Husayni andò prima in Italia e poi in Germania. Due anni dopo partecipò alla formazione della “Handschar”, una divisione nazista creata in collaborazione con il comandante delle SS Heinrich Himmler, che combatté contro i partigiani comunisti in Yugoslavia e commise vari crimini contro la popolazione locale, compresi molti ebrei. Date le sue presunte credenziali islamiche, venne incaricato di reclutare musulmani bosniaci e serbi che, insieme a qualche volontario croato cattolico, formarono il nucleo centrale dell’unità.

Non c’erano palestinesi arruolati nell’”Handschar”; al contrario, circa 12.000 arabi palestinesi si unirono all’esercito britannico per combattere le potenze dell’Asse nel 1939.

A causa della sua collaborazione con il regime nazista, al-Husayni è spesso utilizzato come esempio del perché il popolo palestinese sia stato il presunto responsabile del suo tragico destino. Eppure, come hanno dimostrato studi recenti, egli [Al-Husayni] non era un legittimo rappresentante del popolo palestinese, in quanto venne semmai imposto ai palestinesi dalle autorità britanniche.

La questione dell’‘assimilazione’.

L’analogia tra i rifugiati palestinesi e gli ebrei dei Paesi arabi è fuori luogo per una serie di altri aspetti. Uno dei più ovvi è la questione di come e perché i rifugiati palestinesi e gli ebrei espulsi o emigrati dai Paesi arabi sono (o non sono) stati “assimilati”. Durante e dopo la guerra del 1948, molti palestinesi vennero obbligati a scappare nei vicini Paesi arabi. Fino al recente passato, a molti di loro è stato vietato di prendere la cittadinanza e di esercitare alcune professioni. Le sofferenze dei rifugiati palestinesi sono state – e in alcuni casi sono ancora – sfruttate dalla dirigenza di quei Paesi per fini politici.

Inoltre un paragone tra i campi di rifugiati palestinesi in Libano o in Siria e i ma’abarot, i campi di assimilazione degli immigrati in Israele negli anni ’50 sarebbe fuorviante.

La ragione per cui l’ultimo ma’abara venne chiuso nel 1963 ha in parte a che vedere con la costruzione in Israele di una serie di città di sviluppo, in cui agli ebrei rifugiati è stata fornita una casa. Molti nuovi immigrati dovettero passare attraverso un penoso e violento processo di inserimento in case palestinesi vuote.

Chiunque abbia visitato Ein Hod, Musrara, Qira e qualche centinaio di altri villaggi, quartieri o città in precedenza palestinesi conosce bene le migliaia di case rimaste ancora perfettamente intatte. La maggior parte (se non tutte) sono oggi abitate da famiglie di ex-immigrati.

Quindi non dovrebbe sorprendere che molti dirigenti israeliani abbiano rifiutato il termine “rifugiati”. Come il presidente della Knesset Yisrael Yeshayahu notò nel 1975, “non siamo rifugiati. (Alcuni di noi) sono venuti in questo Paese prima che nascesse lo Stato. Avevamo aspirazioni messianiche”.

L’ex-membro del Knesset Ran Cohen è andato oltre affermando: “Devo dire questo: non sono un rifugiato (…) Sono arrivato al servizio del sionismo, a causa dell’attrazione che questa terra esercita e dell’idea di redenzione. Nessuno mi definirà un rifugiato”.

Al contrario una gran parte della popolazione palestinese ora è formata da rifugiati di seconda, terza o quarta generazione che vivono ancora nei campi.

Di fatto sono gli unici rifugiati non di competenza dell’UNHCR [agenzia Onu per i rifugiati, ndtr.] ma che invece hanno la propria agenzia (UNRWA). La ragione di ciò è radicata nel pieno riconoscimento del pesante prezzo pagato dai palestinesi per le decisioni – pienamente legittime agli occhi di alcuni, completamente o parzialmente illegali secondo altri – prese dalla comunità internazionale alla fine degli anni ’40.

In altre parole, 70 anni fa l’UNRWA venne fondata dall’assemblea generale dell’ONU come agenzia umanitaria per appoggiare quegli stessi rifugiati che avevano perso la propria casa nel 1948, qualche mese dopo il piano ONU di partizione della Palestina nel novembre 1947. Ancor oggi l’UNRWA rispecchia l’obbligo della comunità internazionale di fornire una soluzione giusta e duratura per loro.

Il “monologo del secolo”.

“La gente (adatta) la propria memoria in modo che si adegui alla propria sofferenza”, scrisse lo storico ateniese Tucidide nella sua “Storia della guerra del Peloponneso”. Oggi questa affermazione sembra particolarmente significativa per il conflitto israelo-palestinese.

Un certo livello di accettazione reciproca delle narrazioni e traumi dell’altro, attraverso riconciliazione e empatia, è la chiave per qualunque pace duratura.

Infatti, quando cicatrici visibili e invisibili sono sfruttate per scopi politici e ideologici, non possono che preparare la strada a quello che il filosofo ebreo nato in Austria Martin Buber ha chiamato “monologo mascherato da dialogo” cioè il dialogo “in cui due o più uomini, riuniti in un luogo, parlano solo con se stessi in modo stranamente contorto e indiretto, eppure immaginano di essere sfuggiti al cruccio di dover ricorrere alle proprie risorse”.

Il cosiddetto “accordo del secolo”, i cui dettagli saranno resi noti durante la riunione economica in Bahrain il 25 giugno, è un ulteriore esempio di una lunga lista di monologhi mascherati da dialoghi.

Tutti gli indizi suggeriscono che quelli che stanno dietro all’“accordo” cercheranno di togliere di mezzo il problema dei rifugiati palestinesi da ogni futuro negoziato di pace. È il passato presentato come se fosse il futuro. È per questo che è destinato a fallire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Lorenzo Kamel è professore associato di storia all’università di Torino e membro anziano dell’IAI [Istituto Affari Internazionali].

Traduzione per Zeitun.info di Amedeo Rossi.