Il fallimento della democrazia e l’ascesa dell’Isis

Memo.  Di Ismail Patel. La comparsa e il successo dello Stato islamico (Isis) in Iraq sono stati descritti come una reazione a un cedimento nell’ideologia islamica. Un’ideologia intesa come l’antitesi di tutto ciò che è liberale, pluralista e inclusivo. Così gli assassinii delle minoranze, la decapitazione del giornalista James Foley e la schivatù sessuale delle donne evocano percezioni orientaliste dell’Islam – la barbarie contrapposta all’Occidente civilizzato.
La carneficina commessa dall’Isis è semplicemente atroce, e volgere l’attenzione ai loro violenti eccessi contro le minoranze senza alcun riferimento alla loro altrettanto aggressiva attitudine verso la maggioranza sunnita è un fallimento nella comprensione del nocciolo della questione del fenomeno Isis. Un tale esame superficiale fornisce inoltre agli estremisti di destra una narrativa che consente loro di accusare l’intero Islam per le azioni commesse dall’Isis. Il gruppo ha poi fornito un’occasione d’oro ad avvoltoi quali il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e ai suoi simili, che ora cercano di far coincidere l’Isis con Hamas.
Per collocare meglio l’Isis, iniziamo dall’esaminare gli Yazidi che hanno vissuto per generazioni nel cuore del mondo islamico. L’ideologia yazida è sorta nel ventesimo secolo e, nonostante le iniziali ostilità, la sua stessa presenza nel 2014, dopo 700 anni di sviluppo, certo non privi di traumi, è la testimonianza della natura pluralista e inclusiva dei governanti musulmani. Quindi, cos’è successo nel 2014 da indurre un gruppo di musulmani a dar vita all’Isis per dedicarsi alla pulizia etnica non solo di questo gruppo, ma anche degli sciiti, dei cristiani, e persino dei compagni sunniti?
Capire l’Isis
La storia non comincia in questo secolo ma all’inizio del secolo scorso. Le potenze coloniali europee e quella britannica cercarono di forgiare l’Impero Ottomano secondo la visione orchestrata da Sykes e Picot nel 1916. Il desiderio colonialista fu poi imposto nella regione sostenendo una leadership flessibile, all’interno degli stati-nazione, insensibile alle divisioni settarie, alle eredità culturali e alla fedeltà storica. Questi autocrati, dittatori ed emiri vennero completamente armati in modo da poter sopprimere brutalmente ogni dissenso.
Saddam Hussein non era diverso da Mubarak, Assad (senior), Hussein di Giordania, e dalla pletora di monarchi del Golfo che hanno violato in larga scala – e alcuni continuano a violare – i diritti umani, cosa che noi in Occidente continuiamo a ignorare.
Mi riferisco alla macchinazione dei colpi di Stato da parte di Usa e Gran Bretagna contro i governi democraticamente eletti di Mohammed Masaddeq in Iran, nel 1953, o al loro silenzio davanti al golpe di As-Sisi in Egitto, all’imposizione delle sanzioni sul popolo occupato di Palestina per aver eletto Hamas, e all’indebolimento del processo democratico in Algeria, impedendo ogni possibilità di successo al Fronte di salvezza islamico (Fis) ricorrendo al voto.
In seguito all’uscita di Saddam Hussein dal consenso dell’Occidente, e alla successiva guerra del Golfo del 1990, gli Usa imposero pesanti sanzioni all’Iraq, che costarono la vita a circa mezzo milione di bambini. Quando nel 1996 venne chiesto a Madaleine Albright, allora segretario di Stato Usa, se valeva la pena pagare un prezzo così alto, lei rispose di sì – un chiaro caso di interessi colonialisti superiori alle vite umane.
Mentre tutti gli iracheni soffrivano per le sanzioni, a soffrire ancora di più erano i membri non appartenenti al Baath e la popolazione non sunnita, considerata con sospetto da Saddam. Le sanzioni Usa destabilizzarono ulteriormente il già precario equilibrio di armonia tra i diversi gruppi settari in un Iraq modellato dal potere colonialista in modo da contenere sciiti, sunniti, yazidi, curdi e cristiani.
Quando iniziò la seconda guerra al terrore in Iraq, nel 2003, la società irachena fu privata dei diritti civili, e i più vennero neutralizzati o preparati ad aiutare una forza esterna a rovesciare Saddam. Ciò in parte rifletteva la facilità con cui la forza di coalizione guidata dagli Stati Uniti entrò a Baghdad. Nonostante il rovesciamento di Saddam gli Stati Uniti continuarono a utilizzare le loro armi letali al massimo grado, distruggendo le strade principali, i ponti, le centrali elettriche e altre importanti infrastrutture. Peggio ancora, ciò creò un vuoto politico. Volevano iniziare da capo, facendo letteralmente saltare le precedenti strutture politiche, economiche e sociali.
La conseguenza fu un incubo. Gli Usa si illusero di poter sottomettere i nativi con la canna di un fucile, e di penetrare nel loro ordine politico e socio-economico. Ma i nativi si rifiutarono di arrendersi, soprattutto per tre motivi. Primo, la rapida «debaathizzazione» causò la dispersione di quasi 400 mila militari iracheni, 40 mila dei quali facevano parte della Guardia repubblicana di Saddam. Ciò portò alla disoccupazione degli ex-militari appartenenti sotto Saddam alla classe media, che si unirono alla comunità danneggiata, portando con sé armi e munizioni.
Secondo, l’espulsione dei musulmani sunniti dai servizi di sicurezza, burocratici e di governo, e la loro sostituzione con personale sciita, portò da un giorno all’altro alla distruzione dello status quo, causando un’ulteriore aumento del risentimento popolare. Superata l’oppressione di Saddam, gli sciiti erano ora pronti a salvaguardare la loro nuova libertà ad ogni costo, alimentando le animosità con i sunniti. Ma ciò non andava contro soltanto alla dispersione del Baath e dei sunniti in generale, ma anche agli sforzi della coalizione di annacquare la loro autorità.
In questo conflitto settario si venne a creare un’ulteriore divisione con l’offerta di una regione autonoma virtuale ai curdi. I curdi sono coloro che ad Halabja vennero colpiti, nel 1988, dalle armi chimiche di Saddam, da lui avute dai governi occidentali; un fatto su cui si è fatto silenzio fino al 1991, anno in cui ci andò bene di proclamarne gli orrori.
Infine, il terzo motivo è stato l’approccio spietato degli Stati Uniti verso la popolazione irachena, che portò alla formazione di una resistenza sunnita che considerava nemiche le forze di coalizione e i loro favoriti – sciiti, curdi, yazidi e cristiani. L’approccio draconiano dell’occupazione ci mise poco a causare una reazione che vide l’emergere di Abu Musab Az-Zarqawi, nel 2004, e la formazione di Al-Qa’ida in Mesopotamia. I sunniti nazionalisti e quelli ordinari che si ritrovarono messi ai margini, economicamente in pericolo e socialmente minacciati, consideravano gli Stati Uniti una potenza occupante che andava messa alla prova, ed iniziarono a lasciar perdere le differenze tra loro.
Gli Usa e la coalizione volevano imporre la loro visione sull’Iraq, e l’unico modo per fare ciò stava nell’uso della forza. Ne seguì un tentativo di schiacciare qualsiasi gruppo ritenuto contrario agli Stati Uniti: nella maggior parte dei casi ciascun gruppo venne etichettato come facente parte di Al-Qa’ida.
La violenza conseguente
Iniziarono bombardamenti mai visti dai tempi del Vietnam, e sono noti a tutti gli orrori di Falluja. L’utilizzo di armi chimiche e di uranio impoverito divenne la norma; il Regno Unito dichiarò di aver usato circa 1,9 tonnellate di uranio impoverito nel 2003. Human Rights Watch (Hrw) stimò che l’utilizzo di armi a uranio impoverito degli Stati Uniti ammontò tra le 170 e le 1700 tonnellate metriche.
Negli anni l’uso di armi chimiche, fosforo e plutonio impoverito si è fatto sentire sulla massa della popolazione: i difetti congeniti registrati furono 14 volte superiori a quelli di Hiroshima dopo la seconda guerra mondiale. I casi di cancro aumentarono vertiginosamente in tutto il Paese. L’Independent riportò le denunce fatte dal 2005 dai medici iracheni a Falluja riguardo neonati con gravi difetti congeniti, da una bambina nata con due teste a casi di paralisi agli arti inferiori.
Gli attacchi militari che colpirono milioni di persone furono incessanti e selvaggi, tanto da indurre Hrw a descrivere le azioni degli Stati Uniti in Iraq come «abusi commessi con impunità». Tali abusi comprendevano arresti arbitrari, torture e il mancato rispetto dell’ordine e della magistratura.
La prigione di Abu Ghraib riporta alla mente le immagini dei prigionieri incappucciati, delle torture all’acqua e dei cavi elettrici fissati alle estremità del corpo. Ciò non era un’eccezione, divenne routine, aggravata dal vanto dei militari Usa sull’umiliazione dei detenuti iracheni, reso noto e diffuso tramite i social media.
Dal 2006 la divisione settaria si cristallizzò, e nemmeno la violenza brutale messa in atto dagli Stati Uniti poté riportare l’ordine degli accordi di Sykes-Picot. La vecchia visione colonialista britannica, e quella nuova statunitense, della regione, vennero fuori nella maggior parte dei casi. I sunniti, danneggiati dalla perdita di potere politico, vennero umiliati e messi ai margini dal nuovo governo sciita, pagando un prezzo che, secondo il conteggio delle vittime in Iraq, ammontò a 195 mila casi di morte violenta.
Una società divisa
La situazione disastrosa in Iraq si è riflessa nel più alto numero di sfollati dalla nakba palestinese del 1948. Si contano 2 milioni di sfollati interni e altri 2 milioni di profughi. Baghdad, una città al 50% sunnita e al 50% sciita nel 2003, è diventata a maggioranza sciita, e il 90% della popolazione sunnita è fuggito.
I sunniti, espulsi dalle posizioni di potere, sono stati vittimizzati e marginalizzati, la loro richiesta di riforme è rimasta inascoltata, e ogni tentativo di protesta represso con i proiettili. In questo ambiente emersero Az-Zarqawi e Abu Ayyub Al-Misri, poi eliminati nel corso di operazioni congiunte iracheno-statunitensi, ed ora Abu Bakr Al-Baghdadi trova menti fertili da sfruttare.
In un bizzarro appuntamento con il destino, ogni leader venuto dopo è stato più brutale del suo predecessore, ed ora Al-Baghdadi non lotta per una rivoluzione per la rappresentatività democratica – fallita in Egitto – ma restituendo gli attacchi che la sua gente ha dovuto subire. Bruciare il sistema presente per dar vita a un sistema nuovo – una mimesi della politica Usa.
Ciò non dovrebbe sorprendere chi conosce la storia europea, e nota i fantasmi di questa fase apocalittica nella Guerra dei Trent’anni (1618-1648), quando il 40% della popolazione europea venne spazzata via dalla guerra. Mentre l’Europa emergeva dalle pastoie del papato, il Medio Oriente cominciava a scuotersi di dosso l’impronta colonialista degli Stati Uniti e di Sykes-Picot.
La sfida non è con l’Islam – come l’isis cerca di far credere giustificando, in modo incredibile, le sue violenze e le sue aggressioni con la tradizione islamica. L’Isis rappresenta piuttosto una sfida agli appetiti colonialisti «occidentali», che ritengono l’Occidente abbia il diritto di influenzare l’ordine politico globale, e di assegnare i frutti della democrazia a una minoranza selezionata.
L’obiettivo principale di mantenere il potere e il controllo su queste regioni ha chiaramente portato al diritto d’autore delle urne. Di conseguenza, gruppi come l’Isis attraggono reclute per le loro politiche estreme con grande facilità, soprattutto quando possono prontamente puntare il dito al tragico destino di coloro che hanno abbracciato il processo democratico «occidentale» – Hamas in Palestina, il Fis in Algeria e i Fratelli musulmani in Egitto.
Si può solo sperare e pregare per una transizione verso un più luminoso Medio Oriente meno sanguinaria di quella che ha vissuto l’Europa.

Traduzione di Stefano Di Felice