Il serialkiller sul lettino dello psichiatra.

Riceviamo da Fulvio Grimaldi e pubblichiamo

IL SERIALKILLER SUL LETTINO DELLO PSICHIATRA

Da www.fulviogrimaldicontroblog.info

La cancrena delle lobby: ebraica, obamaniaca, ginocrate)

Sabra e Shatila e il suo autore, oggi, 16 settembre, 27 anni fa

Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca della loro terra, per ripulire la terra dalla sua popolazione araba. C’è bisogno di una reazione brutale. Se accusiamo una famiglia, dobbiamo straziarli senza pietà, donne e bambini inclusi. Durante l’operazione non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti.

(David Ben Gurion, padre fondatore di Israele)

Israele ha il diritto di processare altri, ma nessuno ha il diritto di mettere sotto processo il popolo ebraico e lo Stato di Israele.

(Ariel Sharon, 15/11/1998, Agence France Press)

Ci sono leggi per proteggere la libertà di stampa, ma non ne esistono che proteggano la gente dalla stampa.

(Mark Twain)

Solo i vincitori decidono quali siano stati crimini di guerra.

(Gary Wills)

Sei parà italiani uccisi a Kabul, quattro feriti. Cordoglio alle famiglie derubate dallo Stato italiano e dalla “comunità internazionale”. Una decina di mercenari ISAF-NATO eliminati dalla Resistenza ogni giorno. Occupazione sconfitta, guerra persa. Verso l’Afghanistan liberato dalle bande colonialiste. Tutto questo va messo sulla fedina penale dei criminali di guerra, dal “we can” Obama, ai marescialli di fureria Prodi e Berlusconi, fino ai caporali di giornata che in parlamento hanno votato per la guerra. Fino a tutti quei “pali” che si sono lasciati alle spalle “Fuori la Nato dall’Italia”, “Fuori l’Italia dalla Nato”. Ora lapidi e strade intitolate, come dopo Nassirya, firmate dai mandanti della strage. E i baldi combattenti della libertà di stampa se la svignano sotto il letto di La Russa.

 

Così si sono impadroniti anche del Festival di Venezia, detto “progressista”, “alternativo”, “fuori dal coro”, luce e consolazione delle ottenebrate sinistre italiote, intemerata risposta al guitto mannaro della triade mafia-massoneria-fascismo che sta masticando l’Italia per risputarla fuori frantumata come la Jugoslavia, l’Iraq, l’Afghanistan, un non-Stato come la Somalia (testé reinvasa dai terminator di Obama). No, Venezia no, Venezia è diversa, e immacolata, c’è Placido col ’68, mica no. Puzzonata o meno, sempre impertinente è. Ragazzi, come ci frega la lobby ebraica. Una sola, una singola vocetta, su un giornaletto da quattro copie, ha provato a incidere il putrido bubbone imbastito dalla lobby. Uno strappo alla regola del solito “giornale comunista” che in difesa della lobby si era stracciato le vesti al tempo delle fiere letterarie di Torino e, ora, di Mantova, con i loro monumenti ai palafrenieri dei sionisti cavalieri dell’apocalisse, Oz, Grossman, Jehoshua. Uno strappo subito ricomposto sulla pagina di fronte dove svettava, tra ovazioni recensorie e  immagini dai pendagli scintillanti, dalle ascelle rasate e dal trucco alla Tehran Alta, la raddrizzata “democratica” all’ eterodosso svirgolo di Roberto Silvestri. Mi spiego.

 

Roberto Silvestri, capo dinastia dei cinerecensori del “manifesto”, che pure aveva sfiorato con empatiche riserve la truffa pseudopacifista israeliana di  “Valzer con Bashir”, volta a scaricare sui falangisti libanesi Sabra e Shatila il più efferato crimine contro l’umanità degli anni ’80, mandante e garante Ariel Sharon, ministro ultranazista della difesa, sull’ulteriore escalation negazionista del cinema israeliano non ha saputo trattenersi. Per una volta qualcuno dell’ufficialità mediatica – mainstream media, dicono gli anglosassoni e scimmiottano i burini – ha osato lacerare la nebbia della frode nella quale ci muoviamo come cieche talpe e a bollare un negazionismo che nulla ha da invidiare a quello che, in omaggio alla libertà d’opinione e di ricerca storica sancita da un diritto burlone, ti fa finire in galera. Quel film va boicottato, come ogni grande o piccola manifestazione di esistenza dello Stato sionista e di complicità con esso. Lebanon  di Samuel Maoz è una nuova lurida operazione di autoassoluzione di coloro che nel 1982, ritiratesi opportunamente le truppe ONU italiane, francesi e Usa dalla protezione dei campi profughi palestinesi, dopo averne espulsi oltremare i difensori, audacissimi invasero il Libano e lo fecero a pezzi massacrando 20mila civili. Apoteosi dell’ontologico cannibalismo israeliano fu la strage nei campi di Sabra e Shatila a Beirut, esattamente 27 anni fa. C’ero e ci sono tornato tante volte, anche con Stefano Chiarini che, sul “manifesto” e fuori, ne ha tenuta viva la memoria contro la passione per la smemoratezza delle sinistre e i fumogeni tossici di tutto il resto. Tremila donne, bambini, vecchi, infermi circondati dalla blindatura di Ariel Sharon, come oggi gli abitanti di Nilin, Bilin e altri in Cisgiordania dal Muro, o come un milione e mezzo di agonizzanti a Gaza, a significare una continuità dai villaggi bruciati nel ’48 ai crimini e complotti in mezzo mondo oggi. Tremila rischiarati a giorno dalle fotoelettriche israeliane per tre notti di mattanza da parte dei consanguinei fascisti. Una strage di innocenti non dissimile da quella negoziata dai boss dello Juedischer Bund  con i gerarchi hitleriani perché gli ebrei di Germania, perseguitati, si decidessero a occupare la Palestina. E ora arriva Lebanon, che, lacrimando sulle fragilità psichiche dei carristi nella loro marcia di sterminio, quando non c’è palestinese o arabo che non ne sappia la ben coltivata ferocia (ricordate la maglietta, popolarissima tra i soldati di Tsahal dopo Gaza, con donna palestinese incinta: “un colpo due colpiti ”?), prova a stendere un velo di umana comprensione-compassione su questa Marzabotto di Israele. E Silvestri, che per una volta si districa dall’ingarbugliata selva di citazioni, parentesi, richiami, che ne rendono incomprensibile i film commentati, giustamente s’indigna: “Da compatire  e ricordare con commozione dopo l’aggressione in Libano del 1982 non sono i massacrati civili o in armi, ma la psicologia fragile dei delicati massacratori. Missione riuscita. Bravo Silvestri.

 

Peccato che su tutto il paginone di fronte si inneggi a “Donne senza uomini”, Leone d’argento per la dama iraniana dissidente, annidata ovviamente negli Stati Uniti, che alle telecamere veneziane ha offerto, insieme alla sua mise  da vedette della rivoluzione verde, l’abbraccio più caloroso, e ovvio, a quel Maoz che l’aveva preceduta all’oro per superiori meriti lobbistici. Una coppia ben assortita, il gatto e la volpe della lobby imperial-sionista. Shirin Neshal non è finita sotto l’affilata lama ideologica di Silvestri, ma tra le coccole di Cristina Piccino, una delle signore del giornale che sistematicamente, spesso orgasmaticamente, come nel caso ormonale obamisterico di Ida Dominjianni,  assidua presenza televisiva specie da Gad Lerner, prendono fischi per fiaschi, delinquenti per taumaturghi. La volpina furberia della cineasta persiana Shirin Neshal – lì esaltata per “la zampata della  leonessa…raffinatissima, gli occhi truccati di nero, sostenitrice del movimento verde, nel cuore di tutti gli iraniani, nientemeno – sta nell’utilizzo di una vicenda di liberazione nazionale e progressista, come quella del premier Mossadeq, rovesciato dalla Cia nel 1953 e sostituito col mezzano Usa già cacciato a furor di popolo, Shah Reza Pahlevi, a supporto della recente sedizione delle classi alte iraniane. Classi Dolce e Gabbana, bulimiche di profitti e libero mercato, innescata dal solito sodalizio USraeliano contro un regime che i suoi calcoli, in collusione con l’imperialismo (con l’Iraq) o in collisione (per l’egemonia regionale), insiste a farseli da solo. Operazione non meno sconcia di quella del carrista strizzacervelli israeliano, ma ancora più scandalosa. Mossadeq si rivolta nella tomba con simili apologeti. Una strategia, quella di Israele e dei più esitanti Usa, che data da molto lontano, addirittura da prima dell’assalto all’ostacolo primario Iraq.

 

Disse Netaniahu, la sera dell’11 settembre che aveva visto agenti israeliani filmare e saltare di gioia su un terrazzo prospiciente le Torri Gemelle: “E’ stato un bene. Beh, forse non un bene, ma produrrà un sacco di simpatia per Israele”.  In precedenza lui e il suo SS- Kamerad Sharon avevano osservato che “solo quando gli americani proveranno le nostre pene (dell’Intifada) avrebbero potuto comprendere la difficile situazione delle vittime israeliane”. Le guerre dell’intelligence e relative campagne di disinformazione-diffamazione si basano su modelli matematici che permettono di anticipare la reazione del target al’interno di una gamma accettabile di probabilità. Con una provocazione bene pianificata, la reazione prevista può diventare un’arma nell’arsenale dell’agente provocatore. In risposta all’11/9 sarebbe forse stato difficile prevedere che gli Usa avrebbero impiegato la propria potenza militare, interamente in mano agli infiltrati sionisti nel complesso militar-industrial-mediatico, per vendicare l’attacco? Attacco mai rivendicato da Osama bin Laden in vita, ma tosto attribuitosi dal suo ectoplasma e dalle registrazioni, elaborate nei più avanzati laboratori della manipolazione audio video, diffuse dopo la sua documentata morte nel dicembre 2001 (successiva al ricovero per dialisi a Dubai, luglio 2001, dove lo visitò il padrino, capostazione Cia). Cinque anni prima, nel documento neocon-sionistaA clean break. Una nuova strategia per garantire il regno (di Israele)”, Richard Perle, del Consiglio di Difesa Usa, consigliere chiave dell’allora premier Netanjahu, indicò la necessità di rimuovere Saddam Hussein come elemento fondamentale della strategia per il Grande Israele. Dettero poi la precedenza all’Afghanistan, ritenuto più facile da punire per la presunta debolezza dei Taliban che, rifiutando il servaggio alla petrolifera Unocal, si erano mostrati ingrati dell’appoggio ottenuto contro il precedente governo comunista e i suoi soccorritori sovietici. Venne la provocazione dell’11 settembre, seguita da altre dello stesso stampo. Venne, prima, settembre 2000, la provocazione dell’irruzione militarizzata di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee e lo  scontato appoggio iracheno, unico tra gli arabi, all’insurrezione palestinese. Venne l’invasione della “comunità internazionale”  in Iraq, con quasi 5000 soldati Usa (dieci volte tanti, in verità, calcolando i contractors) sacrificati agli interessi israeliani più che a quelli statunitensi, l’accesso delle cui multinazionali al petrolio iracheno era comunque garantito, sebbene in termini di equità tra Stati sovrani, ma sicuramente a minori costi di quelli che hanno contribuito in misura determinante all’attuale sfacelo dell’economia Usa e occidentale. Ma vennero anche i due milioni di ulteriori vittime irachene, la distruzione e frammentazione del più forte e militante paese arabo (cui hanno dato man forte squadroni della morte israeliani). E venne infine la pelosa alleanza Usa-Iran (già in atto durante l’attacco persiano a Baghdad 1979-1988), stretta per questa bisogna. Ed è qui che per Israele si presenta una nuova urgenza di attivare la propria cupola a Washington, nella finanza e nei media, al fine di attirare gli Usa in una nuova impresa vicaria, funzionale agli interessi di dominio regionale israeliano, più che a quelli di un USA stremata dalla crisi e dalla sovra-estensione militare dal Medioriente all’Asia, dall’America Latina all’Africa. 

 

Si tratta di ripartire alla grande con la manipolazione dell’ambiente mentale condiviso per creare percezioni e impressioni che diventino consenso di opinione pubblica, da destra all’estrema sinistra, con tanto di pontieri alla Bertinotti, Vendola e certe gazzettiere della stampa “alternativa”. Manipolando questo ambiente mentale condiviso, tutto basato su proprie creature fittizie ( Al Qaida, terrorismo islamico e suoi promotori come Saddam, persistentemente presentato come sostenitore di Al Qaida e dell’operazione 11/9, Ahmadinejad, i Taliban, Chavez, Morales, i partigiani somali, il Sudan, velo e burka), si possono poi condurre guerre in piena vista e su molteplici fronti. Quanto a Israele, vale il paradigma che coloro i quali sono di piccola dimensione devono condurre guerre via vittimismo e inganno e, se non sono in grado di condurle in prima persona, farle fare dal fratello grande. Sistemato lo scoglio maggiore, l’Iraq, o così si ritiene, ora tocca estendere la manovra all’Iran, passando prima o dopo per i suoi alleati vicini, Hamas e Hezbollah. E gli Usa, che ancora frenano alla vista degli sconquassi che Tehran gli combinerebbe in Iraq e della sua utilità per la preziosa morsa Usa-Iran-India contro l’Afghanistan e il Pakistan da ridurre in condizioni irachene, alla fine dovranno ben adattarsi a dissanguarsi un altro po’ su quel fronte a vantaggio di Israele. Dovrebbe garantirlo il fatto che non c’è quadro nel vertice dell’amministrazione che l’uomo nero del change non abbia tratto dalla confraternita della buona sorte sionista. Capito in che quadretto si inseriscono i trionfatori di Venezia e il loro scambio di amorosi sensi sul palco mondiale della vittoria? Nel sottofondo l’ipnotico borbottio della parallela campagna di guerra dell’intelligence : l’ennesimo berciare audio del para-Osama che si appropria, in funzione di amalgama tra “terrorismo Al Qaida”, fatto da USraele, e lotte di liberazione, fatte dai popoli, della rabbia planetaria contro il mattatoio imperialista (Osama va sempre resuscitato quando si tratta di vivificare le guerre dell’impero); la verniciata che il cripto-Bush di pelle nera dà alla “guerra al terrorismo”; il suo rinnovo dell’embargo a Cuba; la sua nuova aggressione a una Somalia  fin qui saccheggiata da tutti noi, ma colpevole di produrre forze sane, sebbene islamiche, che rivogliono il loro Stato;  i nuovi golpe e la criminalizzazione degli avversari – “fucina di terrorismo islamico” –  in America Latina; il veleno della destabilizzazione-colonizzazione che il nazi Lieberman, ministro degli esteri israeliano, sta iniettando in Africa con la visita a regimi reazionari disposti a fiondarsi su qualsiasi singulto di emancipazione con il concorso di tecnologie, spie e specialisti di operazioni sporche, di cui Tel Aviv è prodiga alle destre mondiali.

 

S’infila nel coro anche il correligionario sudafricano di Netaniahu, Richard Goldstone, inviato ONU a Gaza per i diritti umani, che già si era rivelato ottimo strumento giudiziario dell’imperialismo quando all’Aja dirigeva il famigerato tribunale sulla Jugoslavia (assassino della Serbia, della verità e di Milosevic). Ora il suo rapporto ha l’impudenza di distribuire crimini contro l’umanità alla pari tra Il macello di civili a Gaza (1.450 morti in tre settimane) da parte della quarta potenza militare mondiale e qualche dozzina di razzi di Hamas (13 morti in 8 anni), legittimamente (Carta dell’ONU) tirati sugli occupanti e ladri della propria terra. Il calcolo è astuto: su un mindset, uno scenario mentale, già predeterminato a favore di Israele, vittima perenne e strutturale  avvolta nella Shoah, e contro bande di “terroristi estremisti e oscurantisti” come i partigiani palestinesi, ogni formale equilibrio diventa una bilancia squinternata a favore di Israele. Non c’è solo l’assurda equiparazione tra gli effetti da mortaretto dei Kassam e l’apocalisse dei Merkava e degli F-16, ma si tralascia il dato decisivo, quello che invertirebbe la bilancia: gli uni, da 60 anni aggressori e genocidi, gli altri, aggrediti, occupati o assediati, e sterminati, in lotta per la giustizia a termini di diritto internazionale. Conclusione di Goldstone: se Hamas non avesse tirato i razzi, non sarebbe successo niente (senza contare che la Resistenza aveva smesso di sparare e che la tregua fu rotta da un’incursione omicida di Israele il 2 novembre). Chi è causa del suo mal… Non poteva mancare Londra, che sulla scia del Tony Blair che discuteva con Bush a Downing Street come turlupinare l’opinione pubblica sulle armi di distruzione di massa di Saddam (ci sono i verbali), ha fatto ricicciare, processandoli e condannandoli, tre poveracci anglo-pakistani che, a conferma della paternità islamica della bufala degli attentati al metrò, avrebbero nel 2006 programmato di far esplodere aerei Londra-New York con una mistura di liquidi casarecci. Proposito che, a detta di tutti i tecnici del ramo, avrebbe potuto funzionare come un fischietto d’arbitro per suonare la Nona di Beethoven.

 

Come si vede, al comando del campione del we can, tutti i pifferai si sono rimessi in marcia. Al passo. Ci resta un sorriso: si è schiantato, dopo aver dato del suo meglio nella mattanza al fosforo di Gaza, il topgun  israeliano Assaf Ramon. Era figlio di Ilan Ramon, astronauta a sua volta esploso in volo con la navicella Columbia. Esploso sopra una cittadina nel Texas dal nome – guarda un po’ quanto è spiritoso il destino – Palestine.       

E Minzolini? Che c’entra il direttore del TG1 che sta al giornalismo come un macellaio sta a un chirurgo? Ha corredato l’autodafé della verità e della decenza, consumato dalla giuria veneziana, con il seguente sondaggio tra le talpe che percorrono i tunnel neri del suo notiziario: Chi ha violato il diritto internazionale? Israele con le bombe al fosforo in centri urbani; Hamas usando civili, donne e bambini, come scudi umani; tutti e due; nessuno dei due. La risposta delle talpe: un linea rossa per la prima domanda, lunga venti volte la seconda. Grazie al cazzo. La guerriglia non ha territori liberati né campi di battaglia su cui operare. Combatte tra le gente, con la gente, e se solo osasse nascondere il suo fucile dietro a un concittadino avrebbe perso la battaglia decisiva, quella del pesce nel proprio mare. E’ la logica. La logica da sconfiggere con la manipolazione dell’ambiente mentale di cui sopra. Vasta la lobby, vasta e fetida.

 

Invece sono cento e cento le immagini degli eroici miliziani di Tsahal  con un bambino palestinese legato sul carro armato, sul blindato, legato in ginocchio davanti al cecchino,

mandato in testa alla pattuglia nell’irruzione nelle case. Noi, invece, abbiamo un giornalista vero: Muntazer Al Zaidi, l’eroico lanciatore di scarpe iracheno, carcerato, torturato, liberato l’altro giorno a furor di popolo incorrotto. Cosa dice il nostro sindacato, la prudente Federazione Nazionale della Stampa? Quella che, codarda, codina e scandalosa, ha appena revocato la vitale manifestazione nazionale a Roma per la libertà d’espressione sgretolata dalla loggia al potere. Cosa dice l’Ordine dei giornalisti che sovrintende alla deontologia e alla rettitudine? Programmano una manifestazione nazionale, bravi, quando i buoi stanno tutti fuori e caricano come matti contro deontologia, rettitudine e verità. Poi, quando il massacro dell’Afghanistan e l’invio alla morte di concittadini di quella manifestazione giustificherebbe il potenziamento, da veri embedded  di La Russa la cancellano. E il becchino del giornalismo Minziolini, il postribolare Vespa, lo scamiciato della lingua italiana Riotta, lo svendolianoSionetti?  Nel nostro futuro c’è una scarpa.

Io del “manifesto”, a dispetto di quanto dolorosamente mi corre l’obbligo, giornalistico e dunque etico e politico, di biasimare, ho anche stima. Dopotutto c’è Vauro, c’era Chiarini, c’è l’attenzione al sociale (anche se menomata dall’indefettibile sentinella della CGIL), ci sono molti illuminanti interventi esterni, come quello dell’ostracizzato Daniele Luttazzi, mercoledì 16 settembre, le lettere rettificatrici di lettori spazientiti dagli slittamenti nelle compatibilità e nell’avallo delle frodi propagandistiche a livello internazionale. Avallo, per esempio dannante, di un’ormai sputtanatissima storia ufficiale dell’11 settembre e di Al Qaida, giro di boa storico imposto dagli assassini di massa all’umanità, quando dovere di un giornale che si picca di essere la voce “altra” sarebbe stato di dare spazio perlomeno ai dubbi grossi dieci volte le Torri Gemelle, generati dalle ricerche, prove, testimonianze di un grande e sapiente movimento. E invece ne dobbiamo sorbire, dell’11/9, nei giorni della ricorrenza, la stantìa celebrazione, quasi fosse un qualsiasi Washington Post  o Corriere della Sera, fiancheggiata dalle inesauste, querule rimostranze della teodem Sgrena sui terribili Al Qaida che insistono a impedire la normalizzazione dell’Iraq o della Somalia.

C’è qualcosa di misterioso, neanche tanto, che unisce ginocrazia, fatta passare per femminismo, a obamisteria. Transeat  che sul giornale straparlino bravi statunitensi come il regista Oliver Stone, autore di una benemerita opera sull’America Latina in progress, o Mike Moore, con la sua saga sul capitalismo un “tempo buono” al quale “l’uomo del cambiamento” sta riportando il mondo, quando ci compiangono per non avere anche noi un Obama. Sono ignari di risultare volenterosamente, disperatamente, ciechi ai nefasti sociali, repressivi, bellici  di questo imbonitore “We can”. We can cosa? Wars, terrorism, extraordinary renditions, torture, Patriot Act, safe the banks, safe the managers, Bagram after Guantanamo, contractors in Iraq, for ever with Israel, blow up Somalia, launch Africom on Africa, launch Fourth Fleet on Latin America, support fascist Micheletti in Honduras, block Cuba…  Ecco cosa “we can” ! Mantenere e diffondere l’illusione su questo burattino del Pentagono e di Wall Street è pernicioso assai, ma in questi bentenzionati nordamericani è frutto un po’ di infantilismo ideologico, un po’ dell’impreparazione classista, un po’ del non saper più a che santo votarsi. Se gli si scioglie anche Obama, nemesi dei neri e catarsi dopo l’orrore bushiano, dove vanno a sbattere?

Nessuna indulgenza va invece riservata alla stampa “comunista” quando ripete queste fanfaluche sulla più grossa burla politica del nuovo secolo. Per quanto tempo nelle bacheche di questi giornali resteranno appese  le copie di edizioni i cui titoli inneggiavano all’”angelo” Hillary, alla rivoluzione di Obama, o alla “sobria professionalità” di quel Mike i cui funerali di Stato sono stati cento volte più offensivi del cavallo fatto senatore da Caligola? Quanto ci vorrà prima che gli autori le facciano divampare in una fiammata di autocritica e se ne sparpaglieranno le ceneri sul capo? C’è lì una campionessa di quel femminismo, anch’essa cara a Gad Lerner per il suo accanimento contro la violenza degli uomini sulle donne, che regolarmente sorvola leggiadra sullo sterminio, stupro, mercimonio di donne (e di omosessuali) che con dettagliati piani quinquennali si pratica in Iraq o Palestina. E’ un femminismo spurio, asimmetrico e aristocratico. Rasenta la nevrosi e si radica in inconfessate ma praticate velleità ginocratiche e dal quale prendono le distanze le donne-donne, che non prendono per eroine e neanche per agnelli sacrificali le mercenarie del boss che si fanno ricattatrici quando la mercede non gli risulta sufficiente, o quando un’altra, più cospicua se ne prospetti da altre fonti. E che scaricano la combinazione dna-ambiente dalla quale emerge l’imbarazzante teoria ininterrotta e foltissima di virago micidiali alla Teodosia,  Lucrezia, Margaret Thatcher, Hillary Clinton, Mariastella Gelmini…sulla scappatoia che si tratterebbe di “femmine virilizzate dai maschi”. E’ stata una gran crescita quella di sparigliare l’assetto socioculturale fondato su misoginia e omofobia. Ma a me pare che ci siano motivazioni non chiare quando se ne fa uso per spostare in un orizzonte più lontano lo scontro tra le classi che sono tutte ambigenere e di più. Quando una si fa missile nucleare contro il velo e al tempo stesso impone un fitto burka di disattenzione a milioni di donne vedove, comprate, vendute, squartate nel mattatoio della civiltà occidentale, la cosa puzza. Quando una, dopo ormai nove mesi di obbrobri sociali e bellici, perpetua una demenziale fede in Obama e le affianca due paginoni di intervista sdraiata, modello Vespa, alla meretrice Patrizia D’Addario, vendutasi non per pane ma per residence o scranno elettivo, non a uno qualunque ma al peggio boss nel lupanare di Palazzo Graziosi (L’ho fatto per superare dei problemi, ma senza mai starci bene… e dietro c’era un fidanzato violento)  la cosa puzza. Quando questa e l’infelice ritardataria Veronica Lario, complice per un quarto di secolo delle nefandezze del devastatore del nostro paese, vengono poste sul piedistallo delle vindici della liberazione femminile, ebbene la cosa puzza di ottusità, o del suo contrario furbesco. Non di giustizia. Reagisce così agli anatemi per la “miseria maschile”, contrapposta a codeste eroine vittimizzate, un saggio lettore: Che valore hanno le parole di una donna che ancora oggi dichiara: “Ciò che mi rattrista di più è che un uomo come Silvio si sia ridotto così. Ha fatto così tanto, ha ottenuto così tanto e ora la gente mette in secondo piano ciò che lui è realmente?”  Siamo sicuri che non esista anche una miseria femminile di cui parlare? Siamo sicuri di non portare acqua al mulino dell’ideologia  individualista (e per questo funzionale al mercato) a forza di esaltare l’autonomia di ogni pensiero femminile, da qualsiasi parte essa provenga?  Nell’incurabile giornale, sotto, c’era la vignetta di una Pat. Una figura femminile dice: una moglie che parla in libertà (Veronica), una figlia che sostiene la madre (Barbara), una escort che non sta zitta (D’Addario); l’altra risponde contenta: due femministe che vedono rosa. La mafia nella quale hanno prosperato non l’hanno mai vista.  Diventa addirittura quanto meno una compagna di merende femministae la ministra-calendario Mara Carfagna. Ha convocato una “Conferenza internazionale delle donne” in cui ha offerto all’altra metà del cielo la salvifica ciambella della legge sullo “stalking”. Un provvedimento talmente assurdo e indefinibile che non se n’è trovato neanche un termine italiano. Sappiate solo che se prima un invito a cena poteva passare per “molestia sessuale”, lo stesso invito ripetuto tre volte diventa “stalking” e vi caccia in galera. Alla stessa stregua di quel nostro concittadino finito in galera in Brasile per aver baciato la propria figlioletta. Le psicosi ad arte coltivate dal potere a questo devono portare: il sospetto su qualsiasi nostra manifestazione di vita. Fino alla criminalizzazione degli abbracci per sospetto H1N1. A preoccupare non è neanche tanto la misura di evidente controllo sociale e arbitrio poliziesco-giudiziario della carfagnata, quanto la distruzione degli affascinanti giochi di una seduzione che da sempre è motrice di vita e benessere e che ora si vuol rappresentare soltanto nelle sue forme degenerate. Sono giochi per i quali la natura ci ha dotato di ormoni, costumi e apparenze. Ora allieteranno la vita solo degli animali.   

All’intelligente e colto Morgan che, nella trasmissione “X Factor”, aveva reagito alla sparata della signora Claudia Mori sulla violenza contro le donne con un “C’è anche quella delle donne sugli uomini, in particolare sui bambini”, l’irritata virago ha risposto “non ce n’è neanche un caso”. Poche ore dopo le agenzie battevano il terzo infanticidio di una madre nel giro di tre giorni e la giugulare tagliata da una ragazza al fidanzato. Fare il gioco dei numeri sarebbe stolto e di cattivo gusto. Perché questo è ancora niente rispetto al massacro dell’uomo italiano compiuto da madri ansiose di reimpadronirsi di quanto è sfuggito al loro corpo. Ma anche tale nostro retaggio, si sa, è sempre colpa dell’uomo, marito o padre che sia…

Vorrei chiudere, in dissonanza con i pur rispettabili intellettuali statunitensi prima sbertucciati per obamania e a svergognamento dei mezzani mediatici embedded  che imperversano sui nostri schermi e pagine, raccomandandovi nel modo più entusiastico l’opera di una grandissimo, lucidissimo, onestissimo cineasta americano, Brian De Palma. A notte fonda, come suole nell’oscurantismo inquisizionale  del nostro medioevo cristiano, sono stato avvolto in una storia del mio Iraq. Il primo film in assoluto che racconta un Iraq, i suoi carnefici, le sue vittime, veri. Anni luce lontano del lieve brontolio sociale, perlopiù intimista e tra quattro inoffensive mura, che i nostri cineasti osano sul potere. Si racconta la vicenda orripilante dell’orrendo stupro-strage compiuto da un classico manipolo di bruti, della specie che viene formata nei Marines, ai danni di una ragazza irachena e poi della sua famiglia. Il tutto narrato in prima persona dal meno belva del gruppo che si era preposto di filmare la sua avventura di occupante. C’è una sola caduta, dovuta alla potenza tossica della disinformazione anche sul più avveduto. Uno della squadraccia, ovviamente il non partecipante, viene catturato dalla resistenza e, in un video orripilante, decapitato da uomini mascherati. Rovesciamento embedded  della realtà: la guerriglia nazionale non ha mai decapitato, tanto meno in video. I video di queste atrocità, tipiche delle marmaglie delle “operazioni speciali” Usa, israeliane e filo-iraniane, sono stati dimostrati falsi e l’operazione è da attribuire tutta ad agenti assoldati dagli occupanti allo scopo di demonizzare la Resistenza. Il film ti fa attraversare buona parte degli abominii compiuti e in corso da parte dei barbari macellatori dell’Iraq (ieri del Vietnam, oggi anche dell’Afghanistan, da sempre della Palestina): il giocoso massacro di civili ai posti di blocco, le irruzioni di soldataglie alcolizzate e drogate a catturare, uccidere, sfasciare, rubare, la complicità di finti investigatori e giudici, la desertificazione di abitati e società, la sistematica, scientifica protervia inflitta agli inermi. Il tutto sullo sfondo di un paese sbrindellato e ferito a morte, al quale l’autore manifesta la tenerezza e il rispetto che anche i migliori di noi hanno seppellito nell’ignavia eurocentrica e nell’oblio degli opportunisti. Un film nella nobile tradizione contro dei Francis Ford Coppola (“Apocalypse now”) e di Stanley Kubrick (Full metal jacket“). Viva gli americani. Questi americani.    

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