Il significato per i Palestinesi di “andare e restare a casa”

MEMO e Pic. Di Hossam Shaker. “Restare a casa” è il monito globale per contrastare la diffusione del coronavirus Covid-19. Per il popolo della Palestina occupata, però, questa affermazione ha un significato molto diverso. 

Come possono funzionare, ad esempio, l’auto-isolamento ed il distanziamento sociale nei campi dei rifugiati palestinesi che sono sovraffollati di gente privata del diritto al ritorno alle loro case? Sembra uno scherzo, non proprio divertente, che preoccupa le centinaia di migliaia di persone accalcate all’interno dei campi. 

Il distanziamento sociale è un lusso che nessuno si può permettere. I rifugiati palestinesi vivono tuttora in rifugi “temporanei” che vennero edificati già pronti per essere disassemblati quando sarebbe arrivato il tempo di fare ritorno alle loro case e terre, che per molti di loro si trovano a brevissima distanza. Tuttavia, dopo decenni, i campi hanno ormai assunto un carattere permanente (non più temporaneo) poiché il numero di rifugiati continua a crescere fino ad oggi. 

Mentre i consigli dei medici sono di tenere gli anziani lontani dagli altri poiché si tratta dei più vulnerabili per il Covid-19, nella realtà ciò è impraticabile in quanto diverse generazioni vivono sotto lo stesso tetto, come in tutti i campi di rifugiati, sia di palestinesi che di altre popolazioni. Si tratta di istruzioni destinate ad “un mondo non nostro”, il titolo di una collezione di storie dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani. 

Questo non riguarda soltanto i campi rifugiati, ma anche i Palestinesi della diaspora, per i quali l’ordine di andare a casa e rimanervi è doloroso in quanto il loro legittimo diritto al ritorno è stato costantemente ignorato. La casa palestinese è quella che si trova “lì”, non “qui”, anche se di essa non resta più niente per colpa dell’occupazione israeliana. La vera casa di ogni Palestinese in esilio rimane viva nella memoria collettiva del periodo prima della Nakba, della Naksa e dello status di rifugiato. La vera chiave è quella vecchia e arrugginita che viene tramandata generazione dopo generazione come simbolo dell’impegno del diritto al ritorno. 

Il significato della crisi del coronavirus grava sui Palestinesi così come su molti altri popoli, in quanto sta obbligando la gente ad una nuova esperienza in ogni luogo in cui è entrato in vigore il “lock-down”, gente che ha avuto sempre la libertà di muoversi e viaggiare. Ora i paesi hanno chiuso le proprie frontiere ed interrotto la maggior parte dei voli e dei trasporti ferroviari. Questa situazione, però, è la norma per i Palestinesi della Striscia di Gaza dove oltre 2 milioni di persone vivono isolati (in lock-down) dal 2006, il che ha trasformato questa piccola zona della Palestina in un carcere a cielo aperto. L’isolamento è anzi ora divenuto un vantaggio che aiuta a proteggere i Palestinesi di Gaza dal rischio di infezioni transfrontaliere, fondamentale per loro data l’impossibilità del settore sanitario sotto assedio ad affrontare ulteriori crisi o pandemie. 

Per quanto riguarda gli israeliani, l’esperienza di un lock-down imposto dovuto al Covid-19 fornisce una rara opportunità di meditazione per militari e coloni. Forse li spingerà a ripensare cosa significhi vivere sotto assedio e oppressione imposti dal governo di occupazione sui Palestinesi di Gaza, e dietro il muro dell’apartheid che divide e blocca la Cisgiordania. E forse cambieranno la loro attitudine ed il loro comportamento nei confronti dei Palestinesi. Il coronavirus non rispetta confini, muri e reticolati di filo spinato.

Traduzione per InfoPal di Aisha Tiziana Bravi