In 110 ammassati in una casa e bombardati l’Onu denuncia il massacro di 30 civili

Finalmente, un po’ di notizie.

Noi l’abbiamo pubblicato il 5 gennaio: Eccidio sionista: 70 membri di una famiglia chiusi in una casa e bombardati dall’esercito di Israele.

Da www.repubblica.it

Tra le vittime nel quartiere di Gaza City un’intera famiglia, molti bambini
I soldati ammettono: nella scuola dell’Unrwa non c’erano militanti armati

In 110 ammassati in una casa e bombardati
l’Onu denuncia il massacro di 30 civili

Il racconto di un ragazzo sopravvissuto, che ha perso madre e fratelli. Nella zona almeno 50 morti, si scava tra le macerie

GAZA – “Abu Salah è morto, sua moglie è morta. Abu Tawfiq è morto, suo figlio è morto e anche sua moglie. Mohammed Ibrahim è morto, e sua madre è morta. Ishaq e Nasar sono morti. Tanta gente è morta”. Ahmed Ibrahim Samouni ha tredici anni e quel che gli tocca raccontare è un massacro, la distruzione di gran parte della sua stessa famiglia e di altre decine di persone che come lui sono rimasti 24 ore chiusi in una casa che doveva essere il loro rifugio ed è diventata una trappola.

Ammassati in casa e poi bombardati. Sono morti così almeno una trentina di palestinesi in un’unica casa a Zeitoun, quartiere a sud di Gaza City. “Uno dei più gravi episodi dall’inizio delle operazioni”, denunciano le Nazioni Unite. Le vittime del bombardamento del quartiere arriverebbero almeno a cinquanta. Tra le macerie si cercano ancora decine di dispersi, secondo i soccorritori il bilancio è destinato a salire.

Una famiglia sterminata. Il 4 gennaio scorso, raccontano testimoni oculari citati dal Coordinamento degli Affari umanitari dell’Onu (Ocha), centodieci persone, oltre la metà bambini, sono stati radunati in un edificio a un piano dai militari dell’esercito israeliano.

Da un giorno l’esercito era penetrato via terra, e sono stati proprio i soldati a raccomandare ai civili di restare chiusi dentro “per la loro stessa sicurezza”. Il giorno dopo, la casa è stata sottoposta a un violento bombardamento. Tra le vittime, sedici membri della famiglia Samouni, sette donne, tre bambini e tre uomini. Sono stati i sopravvissuti della famiglia a ricostruire l’accaduto con le agenzie dell’Onu e i volontari di B’Tselem, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani israeliana.

Due membri della famiglia hanno raccontato che domenica mattina, dopo i pesanti bombardamenti della notte, decine di loro parenti erano stati riuniti dai militari e gli era stato ordinato di rimanere chiusi in casa mentre erano in corso perquisizioni porta a porta. Ahamad Talal Samouni, 23 anni, ha raccontato che la famiglia era stata riunita dai soldati armati nella casa di cemento appartenente a uno dei membri del clan. “I soldati ci hanno detto di non uscire. Avevamo fame. Non c’era latte per i bambini, medicine per i piccoli che stavano male”.

La casa della strage. Poco prima dell’alba di lunedì, tre uomini della famiglia hanno deciso di lasciare la casa per andare a prendere altri parenti e portarli dentro, ha raccontato Meysa Samouni, 19 anni, a B’Tselem. Mentre stavano per uscire un colpo d’artiglieria ha centrato l’ingresso, uccidendo uno di loro. Subito dopo una grande esplosione ha devastato il tetto e fatto tremare tutto l’edificio. Lei è caduta a terra, coprendo sua figlia con il corpo. “Tutto era coperto di polvere e fumo. Sentivo gridare e piangere. Quando il fumo si è diradato ho visto decine di corpi, almeno trenta, e una ventina di feriti”. Sua figlia aveva perso tre dita di una mano. Lei e sua figlia sono state soccorse dai soldati, medicate e fatte uscire di casa. Ma mentre usciva ha visto che i soldati avevano già occupato la casa e avevano bendato e legato una trentina di uomini.

Wael Samouni, che nel bombardamento ha perso tre figli piccoli, ha raccontato ai funzionari dell’Onu la dinamica dell’episodio. Con i giornalisti della Reuters ha parlato suo figlio tredicenne, Ahmed Ibrahim, dal letto di ospedale dove è ricoverato per le ferite. Un racconto chiaro e agghiacciante, che esce con voce flebile, e comincia dal giorno prima, da quel che successe in casa loro. “Dormivamo tutti in una stanza”, ricorda. “Eravamo tutti addormentati quando i carri armati e gli aeroplani hanno cominciato a colpire. Un proiettile ha raggiunto la nostra casa, grazie a dio non siamo rimasti feriti. Siamo corsi fuori e c’erano quindici uomini… Atterravano dagli elicotteri sui tetti delle case”. I soldati, racconta Ahmed, percuotevano le persone e le costringevano a entrare tutti in una casa.

Senza acqua. Il giorno dopo la casa è stata bombardata, la madre di Ahmed è morta, con tre suoi fratelli. Ahmed ha cercato di tenere in vita i suoi tre fratellini più piccoli e di aiutare i feriti che giacevano in mezzo ai cadaveri. “Non c’era acqua, non c’era pane, niente da mangiare”, ricorda il bambino. “Mi sono alzato, avevo bendato la mia ferita e mi sono trascinato fuori per prendere l’acqua cercando di ripararmi dai tiri dei carriarmati e degli aeroplani. Sono andato dai vicini e ho cominciato a chiamarli finché non sono quasi svenuto. Ho portato indietro cinque litri d’acqua”.

Lo shock dei soccorritori. Quando gli operatori della Mezzaluna Rossa e della Croce Rossa hanno finalmente ottenuto il permesso di accedere alla zona hanno trovato bambini ancora abbracciati alle madri morte, troppo deboli per mettersi in piedi, e feriti tra i corpi. Alcuni dei cadaveri riportavano anche colpi d’arma da fuoco oltre alle ferite del bombardamento, indicazione di un possibile intervento ravvicinato o successivo dei soldati.

“Abbiamo cominciato a chiamare: ‘C’è nessuno vivo in questa casa?’ – racconta un medico palestinese che era tra i soccorritori – e abbiamo sentito le voci dei bambini”. I piccolo stavano morendo di fame, aggiunge.

Il quartiere di Zeitoun aveva già subito distruzioni considerevoli tra il primo e il 3 gennaio, e l’esercito aveva negato alla Croce Rossa l’accesso alla zona per evacuare i feriti. I soccorritori della Croce rossa avevano ricevuto richieste d’aiuto fin da sabato ma non hanno avuto accesso alla zona fino a ieri. “Ci sono ancora persone tra le macerie – ha detto al Washington Post Khaled Abuzaid, autista di ambulanza della Croce Rossa – Ma senza acqua o elettricità sono sicuro che moriranno”.

Abuzaid conferma che, oltre a bloccare loro l’accesso, i soldati israeliani li avevano preavvertiti che non avrebbero potuto portare sul luogo del bombardamento macchine fotografiche, radio o telefonini – tutte attrezzature standard per le squadre di soccorso.

Aiuti ostacolati. I blocchi di terra costruiti dai bulldozer israeliani hanno impedito il passaggio delle ambulanze. I feriti più gravi sono stati caricati sui carretti trainati dagli asini. Chi ha potuto muoversi a piedi ha raggiunto il centro abitato più vicino, a due chilometri di distanza, e da lì i feriti sono stati trasportati in veicoli civili agli ospedali della zona. Tre bambini, il più piccolo aveva cinque mesi, sono morti al loro arrivo all’ospedale.

L’accesso al quartiere rimane ristretto. La Croce Rossa e la Mezzaluna rossa sono tornate oggi durante la tregua di tre ore e hanno soccorso 103 persone che erano rimaste intrappolate senza cibo né acqua in tre case nello stesso isolato dell’abitazione dei Samouni.

L’accusa dell’Onu. L’Ocha non accusa l’esercito israeliano di aver agito deliberatamente, ma ha chiesto l’apertura di un’inchiesta. La Croce Rossa internazionale ha accusato l’esercito israeliano di “non rispettare gli obblighi imposti dalla legge umanitaria internazionale circa le garanzie di soccorso e cura dei feriti”. “I militari erano consapevoli della situazione – aggiunge Allegre Pacheco, vice-direttore dell’Ocha – ma non hanno assistito i feriti. Né hanno permesso a noi o alla Mezzaluna rossa di soccorrerli”.

In una risposta scritta, l’esercito israeliano afferma di lavorare in coordinamento con le organizzazioni di aiuto umanitario “per garantire assistenza ai civili” e che “in alcun modo ha colpito intenzionalmente dei civili”.

La scuola bombardata. Si stanno intanto chiarendo i contorni di un’altra vicenda controversa, su cui l’Onu ha sollevato ufficiali proteste. La scuola dell’Agenzia per i rifugiati dell’Onu colpita martedì scorso a Jabaliya e in cui sono morti 40 civili sarebbe stata colpita per errore: non c’erano infatti uomini armati all’interno dell’edificio, come in un primo tempo hanno sostenuto le autorità israeliane. Lo ha dichiarato ad Haaretz il portavoce della Unrwa Chris Gunness che afferma inoltre che gli israeliani hanno diffuso, a sostegno della tesi ufficiale, immagini vecchie, risalenti al 2007.

“In un briefing con diplomatici stranieri alti ufficiali dell’esercito israeliano hanno ammesso che gli spari ai quali le forze israeliane hanno risposto a Jabalya non provenivano dalla scuola – ha detto Gunness – l’esercito israeliano in quell’occasione ha ammesso che l’attacco al sito dell’Onu non è stato intenzionale”.

Ora l’Unrwa insiste nel chiedere un’inchiesta obiettiva per stabilire se il bombardamento della scuola sia stata una violazione del diritto internazionale e delle leggi umanitarie. E per portare eventualmente i responsabili di fronte alla giustizia.

(9 gennaio 2009)

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