Incontro con un artista “ex israeliano” che osserva l’esperienza coloniale sionista da un nuovo punto di vista

MEMO. Di Anjuman Rahman. Residente nel Regno Unito, l’artista cinquantenne è noto per aver affrontato l’occupazione israeliana. Nel suo lavoro si è concentrato sull’ostilità e sugli atteggiamenti razzisti messi in atto dalla maggioranza ebraica israeliana nei confronti della minoranza araba.

In un paese testimone di sfollamenti senza precedenti, estremismo religioso omicida e nazionalismo belligerante, l’arte ha svolto un ruolo importante nella creazione di una cultura dei diritti umani per il popolo palestinese.

Mentre l’industria israeliana avanza, permangono minacce contro i diritti umani dei cittadini palestinesi residenti in Israele, che costituiscono circa il 20% della popolazione.

“I palestinesi che vivono in Israele con identità israeliana devono fare i conti con un duplice razzismo, quotidiano e istituzionale. Gli ebrei israeliani rendono impossibile la vita dei palestinesi”, afferma l’artista dissidente arabo-ebreo Gil Mualem-Doron.

Nel 1948, almeno 800.000 palestinesi diventarono rifugiati. Le forze sioniste occuparono più del 78% della Palestina storica, ripulirono e distrussero etnicamente circa 530 villaggi e città e uccisero circa 15.000 palestinesi in una serie di atrocità di massa, tra cui si ricordano oltre 70 massacri.

Dal 1967, Israele ha demolito oltre 25.000 case palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, cacciando oltre 160.000 residenti. Ha sradicato più di 800.000 alberi di ulivo con l’obiettivo di tagliare il sostentamento economico di circa 80.000 famiglie, per le quali il raccolto costituisce la principale fonte di reddito.

Adalah, il Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ha un database di oltre 65 leggi israeliane che discriminano direttamente e indirettamente i cittadini palestinesi dello Stato.

Un più recente tentativo di cementare ulteriormente questa realtà di discriminazione è arrivato nel 2018 con l’approvazione, da parte di Israele, della Legge sullo Stato-nazione, che nega ai non ebrei “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale”.

La mostra online di Mualem-Doron “Cry, the Beloved Country“, lanciata online la scorsa settimana per commemorare il 72° anniversario della Nakba, rappresenta dieci anni di arte e funge da atto d’accusa contro la patria. Una patria, afferma, “che ha violato il santo giuramento di fornire uguali diritti a tutti i suoi cittadini”.

Residente nel Regno Unito, l’artista cinquantenne è noto per aver contrastato l’occupazione israeliana. Nel suo lavoro si è concentrato sull’ostilità e sugli atteggiamenti razzisti messi in atto dalla maggioranza ebraica israeliana nei confronti della minoranza araba.

Mentre gli ebrei israeliani celebravano il Giorno dell’Indipendenza, arabi israeliani e palestinesi dall’annessa Gerusalemme Est hanno protestato nel sito di un villaggio palestinese che è stato demolito durante la guerra.

Sotto lo slogan “La tua festa dell’indipendenza è la nostra Nakba”, i manifestanti si sono radunati vicino alla città araba israeliana settentrionale di Umm Al-Fahm dove hanno sventolato bandiere palestinesi e cantato l’inno palestinese.

“Gran parte della popolazione di Umm Al-Fahm proviene da un villaggio chiamato Al-Lajoun. Nel 1948, questo villaggio fu bombardato dai soldati israeliani e la popolazione fuggì nei campi vicini. Ma le forze di occupazione proibirono loro di tornare al villaggio, che venne distrutto l’anno successivo”.

Da allora Israele ha rifiutato di accettare qualsiasi ricorso alla giustizia da parte dei palestinesi rimasti apolidi nel 1948. Ai rifugiati è espressamente negato il ritorno, le loro proprietà sono state confiscate dallo Stato e distribuite ai nuovi arrivati dall’Europa.

Persino gli sfollati interni hanno perso le loro proprietà e sono stati definiti – incredibilmente – come “assenti presenti”.

Mualem-Doron ritiene che, in un Paese in cui il colonialismo israeliano e le narrazioni patriarcali dominano gli spazi pubblici, l’arte possa spingere le persone a discutere di questi complessi problemi, diventando uno strumento potente in grado di generare resistenza, riflessione e comprensione.

L’artista ha invitato i residenti locali a scattare foto sullo sfondo di immagini storiche di Al-Lajoun, prese dall’archivio della Galleria Umm Al-Fahm. (Vedi foto qui).

“La maggior parte delle immagini coloniali, sia in Medio Oriente sia in Africa, mostra gli spazi colonizzati come vuoti. E in particolar modo con il sionismo, le immagini coloniali raffigurano la Palestina come uno spazio vuoto”.

Tuttavia, la cultura palestinese non è mai esistita in isolamento e Mualem-Doron sta decolonizzando quella storia dell’arte.

“Non sono solo i sionisti a forzare queste immagini. Ci sono cristiani (persino Mark Twain, il famoso scrittore americano) che hanno visitato la Palestina nel XVIII e XIX secolo e l’hanno sempre raffigurata come una terra biblica e vuota”, spiega Mualem-Doron.

L’artista ha quindi curato la serie di fotografie come una provocazione performativa, invitando gli spettatori a osservare da un punto di vista diverso l’esperienza coloniale. La sua arte sfida le politiche di confisca delle terre attualmente in corso e le pratiche di occupazione che privano i palestinesi dei loro diritti fondamentali.

Attraverso tali tecniche artistiche, il lavoro di Mualem-Doron diventa una ricca fonte di conoscenza, documentazione e comprensione dei meccanismi interni di una formazione statale oppressiva.

“Si tratta, in un certo senso, di proiettare la realtà sull’immagine coloniale del vuoto – afferma – A tenere le foto storiche sono i palestinesi che vivevano lì o i loro figli. Lo fanno con grande orgoglio”.

La serie, composta da palestinesi di tutte le età, bambini e anziani, costringe gli spettatori a vedere qualcosa di più nel vuoto: il movimento, il commercio, la vita che un tempo si animava.

Il pubblico si ritrova a compiere un viaggio interiore, nel quale si presta particolare attenzione ai sentimenti e ai pensieri che i palestinesi nelle immagini potrebbero provare.

Con così tante cose importanti da dire, l’intrigante serie di foto a volte sembra raccontare molto più che mostrare.

Il colore è molto importante nell’opera di Mualem-Doron. Ispirato dall’ambiente naturale del conflitto in Palestina, l’oscurità domina la maggior parte delle foto.

La sua interpretazione dell’annessione degli ultimi frammenti di territori occupati, che ha distrutto ogni speranza di uno Stato palestinese, si compone di tegole rustiche e colorate, frantumate e stampate con schemi di ricamo palestinesi. Elementi che sarebbero stati rinvenuti in molte case bombardate.

“Questa mostra non è facile. Si tratta di un argomento davvero difficile non solo per i palestinesi, ma per chiunque sia solidale con la causa palestinese. È un argomento complesso anche per me, perché da ex israeliano lo percepisco come parte delle mie responsabilità”.

Mualem-Doron osserva che, nonostante l’arte possa dare un po’ di conforto alle vittime e persino agli artisti stessi, quel conforto non cancella le violazioni dei diritti umani.

“Se credi in uno Stato ebraico, alla fine dovrai uccidere o cacciare gli arabi da quello Stato. Non ci sono vie di mezzo. O dai diritti uguali a tutti come in ogni stato normale, o finirà molto male”.

“Vedo la cultura palestinese come parte della mia cultura. Vengo da quello che ora si chiama Israele, ma prima era la Palestina”, spiega.

La mostra al P21 era originariamente prevista per aprile 2020 ma è stata rinviata a causa della pandemia di coronavirus. Sarà aperta al pubblico a partire dal 24 settembre 2020.

Traduzione per InfoPal di Sara Zuccante.