Intervista a Fulvio Grimaldi: collaborazionismo, consapevolezza politica, “fightwashing” e l’annientamento del popolo palestinese

InfoPal. Di L.P. Intervista a Fulvio Grimaldi: collaborazionismo, consapevolezza politica, “fightwashing” e
l’annientamento del popolo palestinese.

Come nasce il collaborazionismo palestinese? In che circostanze politiche si definisce e quali eventi storici l’hanno segnato?
Tutto nasce dalla lontana trattativa degli accordi di Oslo nel 1993. Sono stati micidiali ed avuto la
capacità di creare un’illusione paralizzante di gran parte della società palestinese a causa di una
dirigenza politica che, con il passare degli anni, ha contribuito a spegnere la loro determinazione.
Forse anche a causa dell’età di Yasser Arafat. Questo è stato il punto di partenza che ha portato a
percorrere una strada con continui cedimenti, progressivi arretramenti e compromissioni con la
complicità di una disastrosa classe dirigente guidata da al-Fatah che da anni governa abusivamente.
Ricordo di essere stato in Palestina alla vigilia del nuovo millennio ed ho assistito ad una
rappresentazione visiva della degenerazione del conflitto che avrebbe portato alla eliminazione
della parte più consapevole, più cosciente e più combattiva del popolo palestinese rappresentata da
Marwan Barghuthi durante la Seconda Intifada. Marwan è stata l’unica figura carismatica di
dirigente per il recupero di valori che con Oslo erano impalliditi e svuotati. Abbiamo avuto
incontri con Barghuthi ed altri compagni nel pieno dell’Intifada che si stava allargando a tutta la
zona della Palestina. Abbiamo poi assistito anche ad un incontro con i
dirigenti dell’Intifada e Yasser Arafat. Era evidente, anche dal punto di vista fisico, come queste
diverse personalità che si esprimessero in termini completamente contrastanti gli uni dagli altri.
Prima parlarono i compagni di Marwan e poi parlò Arafat, che aveva delle difficoltà evidenti ad
esprimersi in maniera coerente e lucida poiché era molto segnato dall’età. Nello stesso momento era
circondato da personaggi della vecchia guardia, quella che ora sopravvive con Abu Mazen, che lo
sosteneva ed appoggiava, lo correggeva e interveniva quando era in difficoltà. Chiaramente
rappresentava un’opzione alternativa e contrastante con quella della giovane direzione dell’Intifada.
Gli israeliani si sono resi contro molto presto che questo giovane gruppo dirigenziale, che aveva
l’opportunità di prendere in mano l’organizzazione palestinese con il sostegno delle organizzazioni
politiche palestinesi di sinistra come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e il Fronte
Democratico, avrebbe comportato una ripresa della consapevolezza tale da riportare la questione
palestinese all’attenzione del mondo esattamente come fecero i combattenti dell’IRA in Irlanda non
accettando compromessi e portando avanti la battaglia ancora per trent’anni. Si resero conto di
questo grave pericolo ed intervennero pesantemente usando le forze di
Arafat, che fu una grande persona in anni precedenti, ma che in seguito rappresentò un ostacolo alla
continuità della coscienza di resistenza popolare. Arafat era un punto di riferimento per tutti i
palestinesi, quindi il suo cedimento non poteva non riflettersi anche nella prontezza e nella lucidità
delle masse. Questo permise alle Forze di Difesa Israeliane di metter le mani su Marwan Barghuthi
che venne arrestato nel 2002 a Ramallah, venendo condannato a tre ergastoli, portando la
rassegnazione nella popolazione che soffrì per la perdita di questo pezzo forte della Resistenza.

Questo quindi portò ad un annientamento della lotta di liberazione palestinese?
Il decadimento politico e fisico di Arafat portò ad una rassegnazione che influenzò sul piano
d’azione sia la lotta di liberazione sia la lotta di classe che si stava svolgendo in Palestina. Avvenne
un punto di svolta, in negativo, rispetto alla resistenza dei Fedayyn e dell’OLP nella Prima Intifada.
Assistetti alle principali fasi del conflitto israelo-palestinese e ebbi la fortuna, nel 1967, di
coprire la Guerra dei Sei Giorni come inviato del quotidiano romano Paese Sera. Lì mi feci una prima idea di quello che stava accompagnando l’offensiva israeliana in Galilea e verso
Gaza. Da un lato vedevo quello che stavano facendo, sentendo le notizie dai media israeliani, che dettavano la linea ai media di quasi tutto il mondo; dall’altro vedevo la realtà dei
villaggi palestinesi bruciati senza che venisse evacuata la gente. Ricordo quando noi giornalisti
andammo con un pulmino guidato da un israeliano verso Rafah e il Sinai e c’erano, lungo la strada, i
corpi carbonizzati al sole di soldati egiziani. Domandai il perché quei soldati egiziani non
fossero stati restituiti al loro Stato, come prevedono le norme di guerra, e mi risposero invece che tutti dovevano vedere quei cadaveri perché “l’unico arabo buono è l’arabo morto”. Questa è una frase che dà l’idea di che competizione ci fosse tra colonizzatori e colonizzati. Poi tornai un’altra volta e
mi aggregai ad una unità del Fronte Democratico Popolare nella Valle del Giordano, sopra le
colline che guardano il confine tra Giordania e Palestina. Lì partecipai con i Fedayyn alla lotta e
alle loro attività per molti mesi e testimoniai una giovane generazione di palestinesi, di grande calibro politico, ideologico e militare, impegnati nella lotta  che suscitava una prospettiva di rivolta con quelle azioni che invece in Occidente venivano chiamate “terroristiche”, in riferimento ai
dirottatori del Fronte Popolare. Erano comunque impegnati in una resistenza che il mondo intero
osservava e sulla quale si dibatteva, non dando ragione alla propaganda dei disinformatori
israeliani. Poi son dovuto tornare in Italia perché si scatenò il Settembre Nero.

E con la seconda Intifada?
Con la Seconda Intifada, per un periodo, si riprese lo stesso modus operandi con un certo
rigore ed una certa prospettiva dopo la sconfitta sul piano diplomatico, politico ed ideologico degli
Accordi di Oslo. Israele fu avvantaggiato dalla collaborazione implicita di Arafat, che in seguito
venne ucciso, forse per la collaborazione, da collaborazionisti palestinesi. Il decadimento politico e
fisico di Arafat e l’arresto di Marwan Barghuthi segnarono la fine della determinazione politica
di un popolo e l’inizio del suo annientamento. Ciò permise l’ascesa di opportunisti,
burocrati, autocrati che si spinsero fino alla collaborazione con i servizi segreti e i servizi della
repressione israeliana. Questo distrusse lo spirito di resistenza di questo popolo, che stava vivendo un contraccolpo dopo l’altro. Quando non si ha una leadership che indica una strada che sia in difesa della dignità, della volontà di liberazione e di rivincita, si è sguarniti. Oggi c’è Hamas che si
trova essenzialmente a Gaza anche se è molto presente nel tessuto sociale ma non si sa quale ne sia il
consenso in Cisgiordania, poiché Abu Mazen non lascia votare. Oggi la Palestina vive le
repressioni – esterna del sionismo ed interna del frazionamento politico che non è riuscito a costituire un fronte unitario di liberazione nazionale, anche se l’hanno proclamato a parole molte volte senza mai applicarlo.

Oggi il collaborazionismo palestinese è così forte e impedisce il potenziale rivoluzionario di questo popolo?
Il potenziale c’è ma è dormiente. La propaganda fa passare l’idea che Israele sia un “polo civile e
democratico” in un ambiente circondato da “barbari violatori di diritti civili”, ma questa è
assolutamente una fake news. Sappiamo benissimo che Israele usa strategie per potersi pubblicizzare al mondo. Credo che questa propaganda sionista venga però diffusa in termini netti e falsi dalla comunità che, all’estero, sostiene il suo stato di riferimento, mentre non è molto presente in un’opinione più generale che non sia quella dei categorici sostenitori di Israele per motivi
confessionali. È ormai di dominio pubblico la strategia terroristica per vessare e
castrare questa popolazione. La persecuzione sistematica viene costantemente oscurata da Israele in
tutti i modi possibili ed immaginabili, ma la reazione palestinese è, ultimamente, ai minimi
storici. Vedo che in Siria si resiste, in Iraq si resiste, in Libia si resiste, mentre in Palestina non si
resiste. Tra repressione israeliana, tradimenti della dirigenza palestinese, inadeguata e corrotta, e
collaborazionismo di ampi settori della borghesia palestinese che pensano solo alla loro sopravvivenza in termini socio-economici, la popolazione si trova anestetizzata. La borghesia
palestinese, in Palestina, non è interessata alla costruzione di una identità nazionale e di liberazione.
Oggi sopravvivono “fuochi fatui” ed attacchi occasionali all’occupazione coloniale che si
verificano come lembi di una resistenza disperata. Per quanto siano molto positive le campagne BDS e per quanto abbiano una grande forza persuasiva nei confronti delle istituzioni, se all’interno di una
situazione di conflitto la parte repressa non manifesta conflitto, la risonanza internazionale
scompare perché attratta da altre situazioni a cui dare sostegno e mobilitazione. Dalla Palestina non
ci viene questo input, ma ci sono solo voci isolate che non sono in gradi di raccogliere forte
consenso per una mobilitazione di massa. Poi ovviamente la storia ci riserva sempre delle sorprese
ed è per questo che dobbiamo essere ottimisti.

Crede che la comunità palestinese in Italia abbia presente il quadro geopolitico per sostenere la causa palestinese senza farsi strumentalizzare?
I rappresentanti della Palestina in Italia sono ottime persone che negli anni hanno consolidato la
situazione a causa della lontananza decennale dalla madre-patria e dai contatti familiari. Negli anni
si sono adagiati a uno stile di vita confortevole e non disperato e questo li ha portati spesso ad avvicinarsi a partiti in Italia dichiaratamente neoliberisti che sono in nettissima contraddizione con la storia della Resistenza palestinese e con i valori rivoluzionari di cui questi palestinesi potrebbero essere portatori. L’appoggio di partiti che non sono propriamente in linea con la causa del popolo
palestinese, permette ad alcune associazioni palestinesi in Italia di esistere, di fare attività politica,
“diplomazia”. Ciò è l’ennesimo lento veleno volto a disarmare le coscienze delle
persone e soprattutto di quei palestinesi che in Italia vivono e lavorano.

Quindi queste forze politiche in Italia giocano sull’assenza di consapevolezza e formazione politica da parte di frange della comunità palestinese?
Bisogna aggiungere che non essendoci in Italia una forza autenticamente antimperialista e
coerentemente di sinistra, rivoluzionaria e antagonista, anche la comunità palestinese ha perso un
punto di riferimento politico e si ritrova in uno stato confusionario. L’inconsapevolezza politica
attuale della maggior parte dei palestinesi rispecchia anche la nostra perdita di riferimenti politici.
La strumentalizzazione del tema dei diritti umani da parte di media occidentali, di intellettuali e di
giornalisti, rovescia la dialettica oppresso-oppressore e spaccia per vittima chi è in realtà il
carnefice. Per questo quando si sente parlare di diritti umani oggi dobbiamo “mettere mano alla
pistola”, poiché si spacciano per vittime chi in realtà è il vero repressore dei diritti umani. Questi
hanno inquinato anche coloro che avevano un’ottima consapevolezza politica e hanno generato
grande confusione nell’analisi geopolitica del Medioriente. 

C’è l’impressione che sia in atto un’operazione di “fightwashing”, ovvero come forze
liberali usino l’immagine iconica della lotta palestinese per attirare verso di sé consenso palestinese, mirando a scopi ben lontani dal riconoscimento della Palestina. Cosa ne pensa?
Non so quanto questo possa aiutare i palestinesi che oggi sono rappresentanti nella loro comunità nazionale in Italia, che vivono nella loro situazione personale e collettiva di rappresentanti nazionali o politici la loro relazione con partiti di cialtroni ambigui che li sostengono e che danno una prospettiva alla borghesia palestinese di riuscire a sopravvivere in termini di convivenza con lo Stato Etnico sionista. Questa è una gravissima minaccia perché significa che i nostri amici palestinesi vengono così assorbiti in una logica che pone fine alla prospettiva di uno Stato Nazionale libero
antimperialista equo e giusto sul piano sociale. Si entra così nell’ottica normalizzata di uno
“paesucolo” in mano ad una classe di approfittatori che sopravvivono in virtù del loro
collaborazionismo con Israele. È assurdo che alcuni degli esponenti politici che emergono a punti di riferimento della comunità palestinese, facciano parte di un partito che non ha espresso una sola parola sul trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Trattandosi di una violazione di tutte le risoluzioni dell’ONU e persino degli Accordi di Oslo, non c’è stata una
risposta da parte dei partiti neoliberali italiani che si mostrano “comprensivi” sulla situazione
palestinese. Adesso che in Israele si sta formando un governo dal netto sapore fascistoide, che già
ha dichiarato di volersi appropriare delle poche aree in mano ai palestinesi, non esiste alcuna presa
di posizione da parte di questi partiti. Israele sta prendendo dei provvedimenti che vanno contro le
convenzioni ONU senza che nessuno di loro alzi un dito. Il PD non dice niente, sebbene alcuni sui
membri si spaccino come amici dei palestinesi. Questi partiti usano la borghesia palestinese,
purtroppo attualmente priva di formazione politica, a livello d’immagine senza aver mai votato una
mozione in favore della Palestina od aver denunciato le politiche d’Israele.

C’è speranza in Palestina nonostante l’Accordo del Secolo?
Credo che, alla resa dei conti, quando il governo israeliano attuerà i suoi propositi di divorare
i resti della realtà palestinese statuale, forse lì potrà esserci una risposta della popolazione perché è
l’ultima opportunità per la Palestina di tornare ad una prospettiva che non sia quella
dell’annichilimento. Vedendo come la Siria in dieci anni di lotta è riuscita a sopravvivere all’intero
mondo e come l’Iraq si riprenda alcuni spazi d’autonomia e di contrasto agli Stati Uniti, credo che
anche la Palestina abbia un potenziale in questa fase. Ripeto: la storia ci riserva sempre delle
sorprese.

Fulvio Grimaldi è giornalista, documentarista ed attivista politico. Grande esperto di America
Latina ha documentato per anni i processi politici popolari, la Rivoluzione Cubana, la Rivoluzione
Sandinista in Nicaragua, i colpi di Stato fascisti e più recentemente la Rivoluzione Bolivariana in
Venezuela, denunciando fortemente la presenza dell’imperialismo USA e i suoi intenti di
destabilizzazione militare contro Paesi che hanno proposto un’alternativa al capitalismo globale.
Grande esperto di Medioriente, come inviato di guerra ha raccontato la Siria di Assad, l’Iran degli
ayatollah, l’Iraq di Saddam Hussein e il loro continuo stato d’eccezione dato dall’imperialismo
americano. Centrale è stata per lui la questione palestinese di cui ha sempre raccontato le
nefandezze perpetrate da Israele. Un volto noto della controinformazione alternativa che per InfoPal ha rilasciato un’intervista sulle cause dell’annientamento della resistenza palestinese tra
collaborazionismo e assimilazione neoliberista della sua immagine iconica.