Israele e i suoi arabi. Di terza classe.

Dal Manifesto del 29 marzo 2008

Israele e i suoi arabi. Di terza classe

Reportage Domani è il Giorno della terra in cui i palestinesi
celebrano la catastrofe del ’48. Oggi sono il 20% della popolazione
israeliana ma per loro è riservato solo il 3.5% del territorio.

Michelangelo Cocco
inviato a Jaffa

Bandiere della Palestina, invocazioni «Allah u akbar» degli islamici
guidati da Sheik Raed Saleh, t-shirt con slogan in ebraico dei
pacifisti israeliani. Bambini, donne e tanti giovani: oltre 4.000
persone hanno marciato ieri pomeriggio nelle strade di Jaffa per
protestare contro la demolizione di 500 case dei residenti arabi della
città costiera. La Giornata della terra, il corteo con cui, dal 1976,
ogni 30 marzo i palestinesi d’Israele manifestano contro la confisca
delle terre, è sbarcata per la prima volta in quello che – fino alla
nascita dello Stato ebraico nel 1948 – era il porto più importante
della Palestina, a metà strada tra Beirut e Alessandria.
Nel quartiere Ajami 500 palazzine dai colori pastello e le facciate
scrostate dalla salsedine rischiano di essere buttate giù: la
ristrutturazione del lungomare prevede la costruzione di appartamenti
di lusso e gli arabi che vi risiedono dal ’48-’49 dovranno sgombrare.
Sami Abu Shade è uno dei leader della protesta: «Il governo sostiene
che le discriminazioni contro di noi non c’entrano e che, d’altro
canto, non può mettere il bastone tra le ruote del libero mercato. Ma
perché non costruisce altri distretti arabi? Dal 1948 ci hanno
confiscato centinaia di chilometri di terra e hanno edificato una sola
città araba, Rahat, per i beduini del Negev». Dal ’48 al ’93 i
palestinesi non hanno avuto nemmeno un consigliere comunale a Jaffa
dove negli ultimi anni un numero crescente di ebrei israeliani
impoveriti ha abbandonato i propri appartamenti, acquistati dalla
classe media araba. «Adesso siamo rappresentati in Muncipio, ma con
questo piano di espulsione – denuncia Abu Shade – le autorità vogliono
recuperare il terreno perduto nell’equilibrio demografico».
«La convivenza può battere i bulldozer, come dimostra questa marcia in
cui arabi ed ebrei difendono assieme i diritti umani», dichiara
Mohammed Barakeh, il leader del Partito comunista israeliano Hadash.
Per Eyal, di Socialist struggle, «il corteo evidenzia che i
palestinesi d’Israele negli ultimi tempi si stanno organizzando
radicalizzando». Un timore quest’ultimo agitato come uno spauracchio
dai media.
Anche metà dell’unico cimitero musulmano della città rischia di dover
lasciare spazio alla speculazione edilizia. La situazione ad Ajami e
la controversia sul camposanto hanno convinto i palestinesi a
«traslocare» a Jaffa la Giornata della terra, dal ’76 celebrata
soprattutto nella regione settentrionale della Galilea, dove domani ci
saranno comunque altri cortei.
Il Comitato popolare promotore ha voluto «suonare un grido d’allarme
in faccia all’establishment» sulla situazione degli arabi in questa
che, prima del conflitto del 1948, era una città portuale dove
vivevano 70.000 palestinesi. Dopo il conflitto che per Israele fu la
«guerra d’indipendenza» e per i palestinesi rappresentò la nakba
(catastrofe), con la distruzione di 400 villaggi e l’esodo di 700.000
persone, non ne erano rimasti più di 4.000.
«Il problema arabo» lo definivano i capi dell’yishuv, la comunità
ebraica in Palestina prima della nascita d’Israele: del milione e
100.000 residenti nell’area riservata dall’Onu (risoluzione 181 del
1947) al futuro Stato, il 45% erano arabi. Le operazioni militari
dell’ Haganah trasformarono la maggior parte dei palestinesi in
profughi dando l’illusione di aver risolto il «problema», tanto che,
alla fine del ’48, il primo ministro Ben Gurion disse che «agli arabi
della terra d’Israele ormai resta un solo ruolo: quello di fare le
valigie».
I palestinesi però sono rimasti attaccati alla loro terra e oggi, con
1.200.000 cittadini, costituiscono il 20% della popolazione d’Israele.
Ma secondo Adel Manna, che all’Istituto Van Leer di Gerusalemme dirige
il Centro per lo studio della società araba in Israele, «sono stati
trasformati in cittadini di terza classe». Seduto nel suo studio di
quella che è considerata l’istituzione più prestigiosa d’Israele nelle
scienze sociali, Manna si ritiene fortunato di appartenere alla élite
di docenti universitari arabi in Israele (l’1%), e sta per mandare in
stampa il secondo volume de La società araba in Israele. «Le
rilevazioni dell’Ufficio centrale di statistica parlano di un divario
crescente tra maggioranza ebraica e comunità araba», dice.
«Il 90% dei palestinesi d’Israele vive in città o villaggi arabi dove
le municipalità rappresentano la principale fonte di reddito –
continua -, la disoccupazione arriva al 20%, oltre il doppio della
media nazionale, e i servizi, le infrastrutture riservati agli arabi
sono da paese in via di sviluppo». Per Manna l’origine della
discriminazione è da ricercare nel fatto che «i leader di questo paese
credono che Israele appartenga solo agli ebrei». Fino al ’67
sottoposti al governo militare, secondo Manna «per i palestinesi la
situazione è migliorata tra il ’92 e il ’95, durante il governo di
Rabin. Da allora siamo solo tornati indietro».
Jeff Halper, analista politico e direttore del Comitato israeliano
contro la demolizione delle case (Icahd), ricorda che «il 93% della
terra è gestita dalla Israel land administration e dal Fondo nazionale
ebraico che la danno in concessione solo a ebrei. In questo modo –
spiega – gli arabi, il 20% della popolazione, sono stati confinati nel
3,5% del territorio del Paese».
La recente archiviazione dell’inchiesta sul massacro dell’ottobre 2000
– quando 13 palestinesi d’Israele che manifestavano solidarietà
all’intifada nei Territori occupati furono uccisi dall’esercito in
Galilea – ha contribuito ad accrescere la disaffezione di questa
componente d’Israele nei confronti dello Stato. Dal 1948, ogni 20 anni
questa minoranza ha subìto un massacro.
Nella seduta della Knesset del 5 marzo scorso il deputato di Unione
nazionale, Effie Eitam, ha commentato così le manifestazioni dei
palestinesi della Galilea, che avevano incitato «i martiri di Gaza» a
proseguire la loro battaglia: «Un giorno vi espelleremo da questa casa
e dalla casa nazionale del popolo ebraico». Qualche giorno dopo il
massacro nella yeshiva di Merkaz Harav, l’ex ministro Avigdor
Lieberman ha dichiarato, rivolgendosi ai deputati arabi non presenti
in aula: «una nuova amministrazione verrà creata e allora ci
prenderemo cura di voi».

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