Israele, il muro della vergogna

Israele, il muro della vergogna

Le Monde Diplomatique > Archivio > Novembre 2002

 

La fine del governo di unità nazionale, con l’uscita dei laburisti, e le conseguenti elezioni previste per la fine del gennaio 2003 rendono più rigida la posizione di Israele di fronte alle richieste della comunità internazionale, in particolare rispetto a un eventuale ritiro dai territori rioccupati. Nel tempo così guadagnato, il governo dello stato ebraico accelera la costruzione di un muro con cui, fin da oggi, procede all’annessione unilaterale di una parte della Cisgiordania.

Matthew Brubacher

Il «muro di sicurezza» che il governo israeliano costruisce attorno alla Cisgiordania e a Gerusalemme modificherà radicalmente il paesaggio sia geografico che politico del Medioriente. Innalzando una chiusura tre volte più alta e due volte più larga del muro di Berlino – quello che la Ddr chiamava «il muro della pace» e la Germania federale il «muro della vergogna» – Israele procede all’annessione unilaterale di una parte considerevole della Cisgiordania e rafforza gli sbarramenti militari attorno alle città palestinesi, imprigionandovi così gli abitanti.
Un primo muro era stato costruito attorno a Gaza già ai tempi della prima Intifada (1987-1993), allorché lo stato ebraico circondò quella striscia di terra con una barriera elettrificata ermeticamente chiusa.
Ciò gli permise di conservare la sua autorità sulle sedici colonie ebraiche e di controllare i movimenti dei palestinesi. Attualmente, Israele mantiene sotto il suo controllo il 20% di Gaza, costringendo i suoi 1,2 milioni di abitanti a vivere nei tre cantoni separati in uno spazio che è appena il doppio rispetto a quello di Washington D.C.
I palestinesi della Cisgiordania subiranno lo stesso destino di quelli di Gaza. La prima tappa consiste nel separare Israele dalla maggior parte del nord della Cisgiordania. La chiusura segue le frontiere del 1967, pur con l’annessione di numerose colonie; chiude in una stretta numerosi territori chiave palestinesi, e ne spezza numerosi altri. Alcune zone palestinesi come il villaggio di Qaffin si vedono sottrarre il 60% dei loro terreni agricoli, mentre altre, come la città di Qalqilya, non solo vengono privati delle loro terre, ma vengono separate sia dalla Cisgiordania che da Israele. Questa parte del muro costa al governo israeliano oltre un milione di dollari a chilometro, ed è fortificata da pareti di cemento armato di otto metri, da torri di controllo ogni 300 metri, da trincee profonde due metri, da recinzioni di filo spinato e strade di aggiramento.
La prima parte di questo muro «del nord» si estende su 95 chilometri, da Salem a Kafr Kassem, e porterà ad una annessione di fatto dell’1,6% della Cisgiordania, includendo 11 colonie israeliane e 10.000 abitanti palestinesi. Lo stato ebraico ha il progetto di incorporare questa zona in Israele in modo che, allorché riprenderanno i negozi sullo status finale, un ritorno al passato costerebbe talmente caro dal punto di vista politico, che questa annessione sarà considerata irreversibile.
Ci si trova quindi di fronte ad una strategia mirante a modificare la linea verde.
La costruzione del muro attorno a Gerusalemme est è ancora più devastante per le aspirazioni ad uno stato palestinese. Mentre a nord il muro non si spinge mai più di otto chilometri all’interno delle terre, a Gerusalemme penetra molto più in profondità. Questa differenza dimostra che gli israeliani seguono una logica variabile, a seconda che si tratti del muro del nord o del muro di Gerusalemme. Le aspirazioni minime di Israele, conformemente alle proposte formulate agli incontri di Camp David nel luglio 2000 e di Taba nel gennaio 2001, dimostrano che lo stato ebraico intende conservare le colonie situate al nord e che si trovano attualmente al di là del muro. Ciò conferma, come hanno ripetuto sia il primo ministro Ariel Sharon che l’ex ministro della difesa Benyamin Ben Eliezer, che il muro in questa regione non rappresenta una frontiera politica. Per contro, a Gerusalemme, la sua costruzione riflette le aspirazioni israeliane e rappresenta pertanto una frontiera politica.
Per consolidare il proprio controllo sulla Grande Gerusalemme, lo stato ebraico concentra le proprie costruzioni in questa regione.
Nel «piano di avvolgimento di Gerusalemme» a cui Sharon ha dato via libera all’inizio di quest’anno, il muro dovrebbe seguire le frontiere di Gerusalemme così come gli israeliani le avevano definite dopo l’annessione di Gerusalemme est nel 1967, includendovi inoltre i due grandi blocchi di colonie di Givon e di Maale Adumim, che si trovano al di fuori di tale territorio.
Questa incorporazione della Grande Gerusalemme nello stato ebraico pone numerosi e gravi problemi, perché porta ad incorporare un gran numero di palestinesi, sottolineando una volta di più le contraddizioni esistenti tra gli imperativi demografici e quelli della sicurezza.
Per risolvere tale problema, Israele tenta di costruire due muri intorno a Gerusalemme: il primo costituisce una separazione interna, costruita essenzialmente attorno alle frontiere municipali definite da Israele. Il secondo costituirà una separazione esterna, attorno a blocchi di colonie. A differenza delle fortezze medievali, questi muri di Gerusalemme saranno costituiti da una barriera elettrificata, una strada di aggiramento e, in alcuni luoghi, da trincee, pareti di cemento armato e apparecchi rilevatori di movimento.
I due muri si presentano come una collana, formando una specie di filo che collega le colonie israeliane esistenti e le postazioni militari. Si tratta di collegare colonie già protette da cordoni di sicurezza, e di rafforzare così il controllo su tutti gli spazi che le separano. Al momento, Israele concentra l’attenzione sulla costruzione di barriere per separare le zone israeliane dalla popolazione palestinese. Nel nord, Israele ha costruito un muro che attraversa la zona di Qalandia per separare Gerusalemme da Ramallah. A est, è stata costruita una parete di cemento armato lungo il Monte degli Ulivi per tagliare le zone palestinesi di Abu Dis e di Azzaria rispetto a Gerusalemme.
A sud, un muro ed una trincea separano Betlemme da Gerusalemme e, come se non bastasse, comportano l’annessione di una parte notevole delle ultime terre municipali palestinesi. Israele si annette così un luogo sacro sia per gli ebrei che per i musulmani, la cosiddetta « tomba di Rachele», che peraltro è situata decisamente all’interno di Betlemme, e confina con due campi profughi.
Incoraggiato dal silenzio della comunità internazionale, che ha evitato di condannare tali azioni, il sindaco Ehud Olmert sta predisponendo inoltre la costruzione di un muro attorno a Kufr Aqab e al campo profughi di Qalandia. Trovandosi nella parte nord della municipalità israeliana di Gerusalemme, gli abitanti palestinesi di questa zona sono muniti di carte di residenza di Gerusalemme e pagano le imposte, ma non hanno accesso ai servizi locali. Al contrario, il check point di Qalandia limita le loro possibilità di entrare a Gerusalemme.
Inoltre, il sindaco Olmert intende costruire un ulteriore muro per separare queste zone dalla Cisgiordania, rinchiudendo così i loro abitanti in una prigione virtuale.
Una volta completato il muro, dal nord della Cisgiordania a Gerusalemme, lo stato ebraico si sarà annesso
il 7% del West Bank, tra cui 39 colonie israeliane e circa 290.000 palestinesi, 70.000 dei quali non hanno ufficialmente diritto di residenza in Israele e pertanto non hanno il diritto di viaggiare o di beneficiare dei servizi sociali israeliani – dopo che Israele li ha privati di qualunque mezzo di sussistenza in Cisgiordania. Questi 70.000 palestinesi vivono in una situazione di estrema vulnerabilità e probabilmente saranno costretti a emigrare. Se il muro verso sud si spingerà fino a Hebron, si ritiene che Israele si sarà annessa un altro 3% della Cisgiordania.
Il governo israeliano costruisce il muro e porta avanti la politica degli insediamenti, forte del principio secondo cui «quello che è costruito oggi, lo conserveremo domani». Benché siano contrarie al diritto internazionale, e in particolare a decine e decine di risoluzioni delle Nazioni unite, non esiste alcun meccanismo per impedire tali azioni. Il rafforzamento degli insediamenti renderà più costoso il loro smantellamento e ancora più difficile se si tiene conto dei parametri proposti, nel dicembre 2000, dallo stesso presidente americano Bill Clinton: «Quello che è ebreo a Gerusalemme sarà israeliano, quello che è arabo diventerà palestinese».
Anche se la comunità internazionale sembra unita a sostegno del «quartetto» (1) e della sua proposta di riprendere i negoziati sullo status definitivo nel giro di tre-cinque anni, non ha riflettuto minimamente al tipo di stato palestinese che a quel punto sarà ancora possibile negoziare.
Perché le trattative abbiano una possibilità di ripartire e di andare avanti, la comunità internazionale non deve limitarsi a imporre il blocco delle colonie, ma deve anche attivare misure atte ad incoraggiare i coloni ad abbandonare i territori occupati. Una simile politica non può essere legata a precondizioni o a un cessate il fuoco. Se è vero che i negoziati di pace dovranno affrontare una lunga serie di problemi, le colonie e la costruzione del muro rappresentano un rischio reale e strutturale per la pace nella regione e, soprattutto, per qualsiasi prospettiva di coesistenza fra due stati indipendenti e destinati a durare nel tempo.

note:
* Ricercatore presso l’Orient House di Gerusalemme, fatta chiudere da Israele. È stato il consigliere dei negoziatori palestinesi sulla questione di Gerusalemme.
(1) Il «quartetto» raggruppa l’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu), gli Stati uniti, la Federazione russa e l’Unione europea per tentare di definire una politica comune sul Medioriente.
(Traduzione di R. I.)

 

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