La campagna per la liberazione di Ahed Tamimi dovrebbe riflettere il suo esempio

MEMO. Di Ramona Wadi. Dall’arresto della giovane attivista palestinese Ahed Tamimi da parte delle forze di sicurezza israeliane, è scattata una mobilitazione frenetica sui social media per richiederne la liberazione. Le sue continue provocazioni all’occupazione israeliana l’hanno presto resa un personaggio noto, spingendo così le autorità israeliane a un arresto che dovrebbe suggerire un rafforzamento del controllo internazionale sul trattamento dei minori che esercitano il loro diritto legittimo all’autodeterminazione contro il dominio coloniale.

Non c’è dubbio che l’arresto della sedicenne, così come l’istigazione israeliana che desta preoccupazione per la sua incolumità in carcere, finiranno per renderla l’emblema della resistenza palestinese. Di conseguenza, capire come gestire il simbolismo associato ad Ahed Tamimi è essenziale per far sì che la sua lotta e la sua esperienza personale siano costruttive non solo per lei stessa, ma anche per la Palestina.

Il ministro dell’Istruzione israeliano Naftali Bennett ha di fatto chiesto la sua condanna all’ergastolo, mentre il giornalista Ben Caspit avrebbe incitato alla violenza contro la sua persona da commettere “al buio, senza testimoni né telecamere”, secondo quanto riferito da diversi mezzi di informazione. Alla luce di tali minacce aperte, è fondamentale operare affinché la detenzione di Ahed non finisca nel dimenticatoio del circuito dei media. Ciò, tuttavia, deve essere realizzato nell’ottica della sua sicurezza e di quella di altri bambini detenuti nelle carceri israeliane.

Lo scorso agosto, il capo della Commissione palestinese per i Detenuti, Issa Qaraqe, ha dichiarato che 400 minori palestinesi sono detenuti nelle carceri israeliane. Dalla dichiarazione rilasciata da Donald Trump su Gerusalemme tre settimane fa, sono stati 620 i palestinesi arrestati dagli israeliani, tra cui si contano 170 bambini. Vi sono varie ragioni che concorrono a esporre un determinato individuo alle luci della ribalta mentre altri sono ridotti a mere statistiche. Ciononostante, tutte le famiglie dei bambini palestinesi detenuti condividono lo stesso grande dolore.

Perciò, se si intende portare avanti una campagna di successo per la liberazione di Ahed, occorre innanzitutto chiarire che Israele prende di mira nel complesso i bambini palestinesi. L’evidente resistenza di Ahed, registrata su un filmato diventato virale, è solo un capitolo che si inserisce in una ben più ampia lotta, la quale coinvolge tutti i palestinesi che si oppongono alla violenza dello Stato e dei coloni di Israele.

Se si distinguesse tra un determinato minore e gli altri bambini detenuti da Israele, la campagna rischierebbe di cadere nella trappola dell’associazione selettiva e del clamore mediatico. Tale simbolismo potrebbe, inoltre, alimentare il complotto di tutti gli attori politici e le istituzioni internazionali che hanno scelto di tacere sull’arresto di Ahed. La propaganda evidenzia questa discrepanza nel contesto della normalizzazione della violenza perpetrata da Israele, elemento regolarmente trascurato dall’Autorità palestinese e dalla comunità internazionale. Tuttavia, una volta considerata questa dissonanza, sarà anche possibile scorgere un silenzio collettivo che interessa la detenzione di centinaia di altri bambini palestinesi nelle carceri israeliane che sposano le stesse speranze, aspirazioni e ideali di Ahed. Le statistiche non fanno che annullare i volti di tutti coloro che prendono parte a una lotta unitaria, estraniandoli così da Ahed in termini di visibilità.

Sebbene l’inarrestabile ciclo di violenze messe in atto dallo stato israeliano e dai coloni lasci poco tempo alla riflessione, a meno che il programma aggressivo di Israele non venga fermato, nuove vittime continueranno inevitabilmente ad alternarsi con vari gradi di risalto mediatico. La notorietà di una svanirà all’emergere della successiva e così via: non dimentichiamo che il clamore mediatico non è sempre costruttivo e non ha alcuna correlazione con la difesa dei diritti umani.

Tra il caotico susseguirsi di immagini rese disponibili da una parte contrapposte a numeri e statistiche dall’altra, è più facile associare la lotta con l’individuo, piuttosto che l’individuo con la lotta. Se la campagna per la liberazione di Ahed mette in secondo piano le vite di altri bambini nelle carceri israeliane, l’attivismo sfocerà infine in quella tendenza allo sfruttamento di un simbolo.

Ahed Tamimi non ha combattuto la sua resistenza in solitudine, perciò anche le voci che reclamano la sua liberazione devono riflettere il suo esempio.

Traduzione di Daniela Aronica