La crisi del giornalismo? ‘Non date la colpa a internet’.

Di Serge Halimi
counterpunch.org

Le Monde Diplomatique e la crisi del giornalismo

Le Monde Diplomatique (di cui io sono il direttore) per circa 20 anni ha continuato a mettere in guardia riguardo ad una bufera economica, e ora questa bufera sta devastando il mondo della carta stampata. Capirne le cause non mette al riparo dai suoi effetti. Le Monde Diplomatique percepisce gli effetti della flessione, anche se meno di altre pubblicazioni e in modo differente. Né la nostra sopravvivenza né la nostra indipendenza sono al momento minacciate, ma non abbiamo risorse per crescere. Ci stiamo appellando ai nostri lettori, in modo che Le Monde Diplomatique possa continuare a giocare la sua parte nella battaglia delle idee.

I lavoratori nelle industrie tessili, di metalli e di auto dei paesi del nord sono stati i primi a sperimentare cambiamenti strutturali nelle loro fabbriche, e hanno pagato un alto prezzo, vedendosi trasferire al sud. Ora i giornalisti vedono scomparire i propri impieghi, poiché i lettori si stanno spostando verso internet. Si potrebbe dire che un modello economico sta prendendo il posto di un altro, e pensare che tutto sommato non c'è niente di male, che così è la vita.

Ma c'è un problema di democrazia. Le auto, ci dicono, non sono un bene pubblico insostituibile, ma un prodotto di mercato. Possono essere costruite ovunque e in qualunque modo, o rimpiazzate con altri mezzi di trasporto, non è un grosso problema.
La stampa, invece, ha un ovvio asso nella manica per catturare l'attenzione dell'opinione pubblica: quando si ha la sensazione che possa essere minacciata, può innalzare lo stato di allarme sociale molto più facilmente, rispetto ad una fabbrica che viene chiusa. Per chiamare a raccolta i propri sostenitori gli basta dire “ogni volta che un giornale chiude, una parte della democrazia muore”. Questo è ridicolo: andate da un qualunque giornalaio e vi renderete conto che dozzine di titoli potrebbero smettere di esistere domani stesso, senza alcun danno per la democrazia. Questo non ha nulla a che vedere con la validità dei giornalisti. Ma sulla terra ci sono miliardi di persone in grado di difendere il proprio diritto al lavoro senza dover inventare alcuna giustificazione diversa dal fatto che gli permette di guadagnare un salario.

I giornali hanno attraversato periodi di declino, ma il giornalismo ha sperimentato una depressione ben più lunga. I contenuti editoriali non erano poi così meravigliosi 20 anni fa, quando la maggior parte dei periodici erano mezzi pubblicitari con l'autorizzazione a stampare moneta. A quei tempi i mastodonti statunitensi, The New York Times, Washington Post, Gannett, Knight Ridder, Dow Jones, e Times Mirror facevano profitti 20 volte superiori a quelli dell'era Watergate, l'apice del loro “contro-potere” (1). Margini di profitto che raggiungevano il 30% e il 35% hanno forse prodotto giornalismo audace, creativo e indipendente?

In Francia, l'informazione critica ha forse raggiunto il pubblico quando – con miliardi da spendere – i gruppi di Lagardère e Bouygues si sono spartiti il controllo del canale televisivo TF1? O quando, nella competizione per raggiungere un minimo comune denominatore, i canali privati si sono moltiplicati e hanno pagato salari esorbitanti ad alcuni giornalisti particolarmente mansueti? Un certo numero di proprietari di testate si sono ora associati per richiedere aiuti finanziari da quello che altrimenti chiamerebbero con disprezzo lo stato balia.

Se il pubblico rimane immobile, è in parte perché si è reso conto del fatto che l'argomento della libertà d'espressione è spesso usato come fumo negli occhi, a vantaggio dei proprietari dei media. “Tutto considerato, col passare delle decadi”, dice Alexander Cockburn, cofondatore del sito web di informazione alternativa counterpunch.com, “i quoditiani principali hanno ostacolato e sabotato – spesso con accanimento – gli sforzi fatti per migliorare le nostre condizioni sociali e politiche” (2). L'ormai sempre più raro giornalismo di reportage e d'inchiesta serve solo a mantenere un'idea erronea di quello che è la stampa – mentre le altre pagine vengono rimepite di sciocchezze, profili, recensioni dei consumatori, previsioni del tempo, sport e i complimenti reciproci sulle pagine dei libri. E poi ci sono i lavori di copia e incolla dei comunicati stampa, per mano di impiegati sempre più incompetenti.

“Immaginate”, dice lo studioso statunitense Robert McChesney, “che il governo federale abbia emesso un'ordinanza richiedendo che ci sia una forte riduzione del giornalismo internazionale, o che le sale stampa locali vengano chiuse, o i loro staff e i loro budget tagliati in modo netto. Immaginate se il Presidente avesse diffuso un ordine affinché i media si concentrassero sulle celebrità e altre banalità, piuttosto che investigare rigorosamente e seguire gli scandali e le scorrettezze della Casa Bianca… Professori di giornalismo e comunicazione avrebbero iniziato scioperi della fame… intere università avrebbero chiuso per protesta. Tuttavia, quando gli interessi commerciali quasi monopolistici fanno sostanzialmente la stessa cosa, lasciando la nostra società così impoverita culturalmente… questo passa con solo piccole proteste nella maggior parte dei programmi di giornalismo e comunicazione” (3).

McChesney chiede: “Quando, esattamente, gli americani hanno approvato l'idea che una manciata di società che vendono pubblicità siano validi amministratori dei media, o che sia inappropriato anche solo contestare il loro potere?… Quando ha avuto luogo questo dibattito nella storia americana? Quando è successo che gli americani hanno ratificato il sistema dei media legati alle società come quello giusto per gli Stati Uniti ?”.

Nel 1934 il politico radicale francese Édouard Daladier denunciò le “duecento famiglie” che “si erano assegnate posizioni di potere” e che “intervenivano in faccende riguardanti l'opinione pubblica attraverso il controllo della stampa”. Ora circa 20 dinastie esercitano un'influenza confrontabile, ma su scala globale. Il potere di queste dinastie feudali – Murdoch, Bolloré, Bertelsmann, Lagardère, Slim, Bouygues, Berlusconi, Cisneros, Arnault (4) – eccede spesso quella dei governi. Se Le Monde diplomatique fosse stato posseduto da loro, si sarebbe occupato del controllo di Lagardère sull'editoria o delle piantagioni di Booloré in Africa? (5).

Serge July, ricordando il modo in cui lasciò Libération, il quotidiano che aveva fondato, dopo che Édouard de Rothschild ne aveva acquistato un pacchetto azionario nel 2005, ha detto: “Rothschild… ha iniziato ad essere coinvolto finanziariamente a condizione non solo del fatto che io mi dimettessi dal mio ruolo, ma anche che ponessi fine ad ogni tipo di coinvolgimento con il giornale. Non ho avuto scelta – ho accettato subito” (6). Eppure il suo successore, imposto da Rothschild, si presenta oggi come difensore della libertà di stampa.

Non è internet

Internet non ha distrutto il giornalismo. Ha incespicato per qualche tempo sotto il peso della ristrutturazione, dei contenuti imposti dal marketing, del disprezzo per i lettori della classe operaia, e sotto l'influenza di miliardari e inserzionisti. Non è stato internet a diffondere le menzogne degli alleati durante la prima guerra del Golfo (1991) o quelle della Nato durante il conflitto in Kosovo o quelle del Pentagono durante la guerra in Iraq. E non si può nemmeno incolpare internet per l'incapacità dei media di portare all'attenzione pubblica il collasso delle casse di risparmio negli Stati Uniti nel 1989 e quello delle nazioni emergenti otto anni dopo, o di non aver avvertito della bolla speculativa sui prezzi delle case di cui stiamo ancora pagando il prezzo. Quindi, se la stampa ha davvero bisogno di essere salvata, i soldi pubblici sarebbero spesi meglio se indirizzati su quella che provvede all'informazione in modo attendibile ed indipendente piuttosto che su quella che va a caccia di pettegolezzi. La stampa che guadagna attraverso investimenti o giornalismo freelance può trovare risorse altrove (7).

Le accuse che vengono mosse ad internet spesso rivelano più di una legittima preoccupazione riguardo ai modi in cui la conoscenza viene diffusa: la paura che il regno di poche figure editoriali forti stia finendo. Dispensando favori con metodologie in stile feudale, hanno creato i loro domini, predisposto le proprie, e hanno avuto il potere di costruire e distruggere ministri e reputazioni. Un'approvazione unanime ha dato il benvenuto ai loro progetti e editoriali (8). Qua e là pochi articoli irriverenti hanno tenuto duro. Ma poi un giorno orde di incivili sono apparsi con i loro computer portatili.

A Le Monde diplomatique non siamo stati esonerati dai tumulti delle industrie. Dopo una salita ininterrotta delle vendite tra il 1996 e il 2003, le vendite in edicola della nostra edizione francese sono diminuite in modo significativo tra il 2003 e il 2008. Il numero di abbonati, tuttavia, è continuato a salire. In quanto al numero di copie vendute, la diminuzione è reale e ci riporta indietro ai livelli del 1994, quando avevamo avviato una vendita parziale delle azioni del giornale. È vero che il quadro generale è sostanzialmente migliore quando si tiene conto delle 73 edizioni internazionali (la prima, in Italia, risale al 1994; quella inglese invece al 1997), che tutte insieme coinvolgono un totale di due milioni e centinaia di migliaia di lettori online.

Ma i lettori e le entrate sono concetti molto differenti. Le vendite in edicola e gli abbonamenti sono le nostre due principali fonti di guadagno (9). I lettori online contribuiscono all'influenza del giornale, ma non alla sua esistenza. E i lettori che non contribuiscono ai nostri guadagni sono come passeggeri clandestini. L'edizione inglese di LMD – la voce di Le Monde diplomatique attraverso i paesi di lingua inglese – è ampiamente letto su internet e attraverso le agenzie di stampa; dipende completamente dalla versione originale, che lo possiede interamente ma che non può permettersi di promuoverlo dal punto di vista commerciale, e questo comporta grandi sforzi finanziari. Per poter sopravvivere, alcuni quotidiani hanno deciso di allineare i propri contenuti in maniera più stretta ai gusti dei loro lettori. “Le nostre ricerche mostrano che le persone hanno bisogno di servizi di maggiore utilità da parte dei giornali,” dice Sammy Papert, capo esecutivo della Belden Associates, che fa ricerche per conto dei quotidiani americani, “le persone vogliono che i giornali dicano loro come guadagnare più soldi, e come possono organizzarsi la serata… Al Zero Hora, un giornale brasiliano di proprietà del gruppo RBS, il dipartimento che si occupa della tiratura chiede ogni giorno a 120 lettori cosa pensino del giornale e Marcelo Rech, l'editore, riceve un rapporto alle 13.00. 'Solitamente vogliono un maggior numero di supplementi riguardanti ricette e case e meno su Hizbullah e terremoti', dice il signor Rech” (10). Le Monde diplomatique probabilmente non fa per loro.

Questa caduta in disgrazia è come lo scoramento avvertito da coloro che hanno realizzato che, senza i mezzi per diffondere il messaggio e influenzare i processi politici, esporre semplicemente il modo in cui funzionano i sistemi sociali e internazionali ha avuto poco effetto sulla durata di questo metodo. La domanda “qual è il punto?” è stata progressivamente sostituita da “cosa ci proponiamo di fare?” che, nel nostro caso, non è del tutto giustificata, visto il numero dei progetti proposti negli anni (l'abolizione del debito del Terzo mondo, la riforma delle istituzioni internazionali, la Tobin tax, la nazionalizzazione delle banche, il protezionismo europeo, lo sviluppo di un'economia basata sulla solidarietà e della sfera non commerciale).

Il declino dell'anti-globalizzazione sembra averci colpito più forte rispetto ad altri.

L'egemonia intellettuale del neoliberalismo è stata contestata, ma non a lungo. La critica non è abbastanza, e non lo sono nemmeno i progetti proposti: l'organizzazione sociale non è un testo che ha bisogno di essere distrutto per potersi ricostruire da solo. Molte idee possono sgretolarsi di fronte al mondo reale, ma i muri non crollano. Tuttavia, ogni tanto ci aspettiamo che gli eventi si pieghino in modo da adattarsi alle nostre speranze condivise, e quando questo non succede veniamo accusati di essere scoraggianti.

Causa di speranza

Quando si parla del futuro di questo giornale, noi basiamo il nostro ottimismo sulla forte convinzione che possiamo contare sul vostro aiuto. Per il momento non stiamo aumentando i prezzi. Continueremo a tenerli bassi nei paesi più poveri. Incoraggeremo nuove edizioni internazionali attraverso bassi costi di lancio. Manterremo alti i nostri livelli di tecnologia, cosa assai importante se vogliamo continuare a raggiungere le nuove generazioni e diffondere i valori intellettuali e politici del nostro giornale. Continueremo a commissionare i reportage e le inchieste più importanti a giornalisti, ricercatori e attivisti che si occupano di crisi, conflitti e che propongono soluzioni alternative e nuove iniziative.

Ma il nostro sviluppo dipende in larga misura dal vostro coinvolgimento diretto, attraverrso l'acquisto del giornale in modo più regolare o scegliendo di abbonarsi. Confrontandole a quelle di altre pubblicazioni, le nostre perdite sembrano essere modeste (per l'edizione francese erano di 330.000€ nel 2007, mentre nell'ultimo anno 215.000€), ma nessuna banca farà un passo avanti per coprirle, dal momento che i membri del nostro staff sono tutti azionisti, i nostri lettori regalano abbonamenti alle biblioteche e alle prigioni che mancano di risorse, e la carica di direttore viene assegnata tramite elezione.

Ma chi, a parte noi, continuerà a promuovere il giornalismo di interesse generale, aperto al mondo, che si possa dedicare alle miniere in Zambia, alla marina cinese o alla società lettone? Questo giornale ha i suoi difetti, ma incoraggia i suoi autori a viaggiare, fare domande, ascoltare e osservare. I giornalisti che lo fanno funzionare non sono mai invitati dalla Davos o dalla Bilderberg; non sono in alcun modo legati alle lobby farmaceutiche o alle società di imballaggio; non hanno un incarico nelle società dei grandi media. Queste società, che vendono al dettaglio ogni nuova offerta ai quotidiani avversari e che limitano le loro rassegne stampa ai soliti cinque o sei titoli, escludono Le Monde diplomatique nonostante il suo impatto su scala mondiale. Questo è il prezzo della nostra unicità.

Però abbiamo molti amici: gli amici di LMD (principalmente in Francia, ma ce n'è un gruppo anche in Regno Unito) che supportano l'indipendenza editoriale del giornale e organizzano dibattiti su temi di attualità ogni mese; i giornalai che fanno in modo che il giornale rimanga visibile nelle edicole francesi; gli insegnanti che lo propongono ai loro studenti; la stampa alternativa che trae vantaggio dal nostro lavoro e che contribuisce con i propri scritti; molte persone curiose… e tutti voi, senza i quali niente di tutto questo sarebbe possibile.

Serge Halimi è il direttore di Le Monde diplomatique. Ha scritto svariati libri, incluso uno sulla stampa francese, Les nouveaux chiens de garde (I nuovi cani da guardia) e un altro sulla sinistra francese nel XX secolo – Quand la gauche essayait (Quando la sinistra ci provava) – entrambi sono ottimi lavori. Può essere contattato all'inidrizzo Serge.Halimi@monde-diplomatique.fr

Fonte: www.counterpunch.org
Link: http://www.counterpunch.org/halimi11032009.html
3.11.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a acura di Elisa Nichelli

(1) Rivelazioni presenti nel Washington Post del 1972 riguardanti il furto della Commissione Democratica Nazionale nel complesso Watergate di Washington portarono alle dimissioni del presidente Richard Nixon nell'Agosto 1974. Tra il 1975 e il 1989 i profitti del New York Times aumentarono da 13 milioni di dollari a 266 milioni; quelli del Washington Post passarono da 12 milioni a 197 milioni. Nel 1989 Gannett guadagnò 397 milioni di dollari, Knight Ridder 247 milioni, Dow Jones 317 milioni and Times Mirror 298 milioni. (Si veda Howard Kurtz, “Stop the Presses” (“Fermate le stampe”), edizione settimanale di The Washington Post, 3 Maggio 1993.)
(2) Alexander Cockburn, The Nation, New York, 1 Giugno 2009.
(3) Riportato nella Columbia Journalism Review, New York, Gennaio-Febbraio 2008.
(4) Nel Maggio 2008, Bernard Arnault, il secondo uomo più ricco della Francia, amministratore delegato della LVMH società conglomerata per beni di lusso e proprietario del settimanale economico, Les Echos, nominò suo figlio Antoine alla “commissione dell'editoria indipendente” del gruppo Les Echos. In precedenza Antoine Arnault era il direttore del reparto comunicazione di Louis Vuitton.
(5) Si veda Thomas Deltombe “An emperor in Africa” (“Un imperatore in Africa”), Le Monde diplomatique, edizione inglese, Aprile 2009
(6) Serge July, Jean-François Kahn e Edwy Plenel, Faut-il croire les journalistes? (Dovremmo credere ai giornalisti?), Edizioni Mordicus, Parigi, 2009, p 67.
(7) Nell'Ottobre 1984 Claude Julien, allora direttore di Le Monde diplomatique, propose che gli aiuti statali per la stampa, che in Francia ammontavan o al 10% del fatturato dovessero essere riservati alle società no profit. I loro profitti avrebbero dovuto essere “reincanalati in attività di pubblico valore. Quindi i quotidiani che avessero scelto questa opzione non avrebbero avuto possibilità di ricorrere al sostegno di finanziatori poco limpidi”.
(8) Si veda Glyn Morgan, “The where but not the why”, Le Monde diplomatique, edizione inglese, Marzo 2006.
(9) Nel 2008 le edizioni internazionali hanno contribuito con 350,000€ in diritti d'autorea Le Monde diplomatique – circa il 3% dei suoi guadagni annuali.
(10) da “More media, less news”, The Economist, Londra, 26 Agosto 2006

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