La fabbrica del falso: il caso israeliano (I parte).

La fabbrica del falso: il caso israeliano    

Dossier ISM-Italia 2008/02

La militarizzazione della cultura

Note a margine dell’invito dello Stato di Israele come ospite d’onore al Salone del Libro di Parigi e alla Fiera del Libro di Torino, in occasione del ’60 anniversario della pulizia etnica della Palestina o, se proprio preferite …, della costituzione dello Stato di Israele.

Ovvero delle menzogne profuse a piene mani dagli organizzatori della Fiera del Libro con il concorso attivo di politici e intellettuali e il sostegno sistematico dei media nazionali.

Indice

1.      Heri dicebamus

2.      Verità scomode – una sintesi dai documenti successivi

3.      La Fiera del Libro in pillole, ovvero l’arroganza di un ambasciatore e di un plenipotenziario

4.      Il complesso culturale-militare-industriale in Israele secondo Baruch Kimmerling

5.      La Fiera del libro di Torino e la buona vecchia Europa, una lettera aperta di Yitzhak Laor

6.      L’immaginazione letteraria aiuta le pubbliche relazioni di Shiri Lev-Ari

7.      Israele al Salon du Livre di Parigi: intervista con Benny Ziffer

8.      L’influenza della occupazione sulla cultura israeliana – Intervista ad Aharon Shabtai

9.      Sul contratto tra gli intellettuali israeliani e il loro ministero degli esteri di Yitzhak Laor 

Allegati

1.      Israele ospite d’onore alla fiera del libro di Torino 2008 – La militarizzazione della cultura, a cura di ISM-Italia, 6 gennaio 2008

2.      Scopriamo l’altro volto di Israele, intervista all’ambasciatore israeliano Ghideon Meir

3.      Il vero volto dell’antisionismo è il suo razzismo culturale di Angelo Pezzana 

ISM-Italia

Torino, 29 settembre 2008

1. Heri dicebamus

Sull’invito dello Stato di Israele come ospite d’onore dell’edizione 2008 della Fiera del Libro, ISM-Italia ha espresso il suo parere in diversi documenti, uno dei quali è riportato in allegato 1, nel quale, tra l’altro, dicevamo:

"La decisione dei responsabili della Fiera del libro di invitare lo stato di Israele come ospite d’onore non ha nulla a che vedere con la cultura.

Non è solo una palese violazione del principio della autonomia della cultura.

Non è solo un atto di servilismo politico per permettere a Israele la propaganda più strumentale. Segna un passo emblematico in direzione della militarizzazione della cultura.

Passerà del tempo, ma alla fine il mondo guarderà con occhi assai critici ai crimini, alle complicità, agli opportunismi, ai silenzi e alle viltà che hanno accompagnato il conflitto israelo-palestinese e altri conflitti, in questo passaggio d’epoca."

La dizione "militarizzazione della cultura" ha colpito la suscettibilità di alcune "anime belle", impegnate e protese a difendere la " Kultura" .

In questo dossier sono state raccolte tre interviste, una apparsa su Haaretz il 6 agosto 2007, di Shiri Lev-Ari a Dan Orian, che ha lavorato come capo del Dipartimento per la letteratura presso la Divisione per gli affari culturali e scientifici (DCSA) del ministero degli esteri israeliano, la seconda di Frédéric Martel (non fiction.fr) a Benny Ziffer, direttore del supplemento letterario del quotidiano israeliano Haaretz del marzo 2008, la terza del 2007 a Aharon Shabtai, il poeta israeliano che ha rifiutato di partecipare al Salone del Libro di Parigi e che ha preso parte a Torino al seminario, promosso da ISM-Italia, "Le democrazie occidentali e la pulizia etnica della Palestina", tre interviste precedute da una lettera aperta, "La Fiera del libro di Torino e la buona vecchia Europa" di Yitzhak Laor e seguite da un suo articolo, "Sul contratto tra gli intellettuali israeliani e il loro ministero degli esteri", apparso su Haaretz nel luglio scorso.

Basta leggere questi documenti, con una minima attenzione, per rendersi conto che, con l’ultimo articolo dii Yitzhak Laor, il cerchio si chiude intorno alle menzogne degli organizzatori della Fiera del Libro.

2. Verità scomode – una sintesi dai documenti successivi

Seguono alcuni dei passaggi, ritenuti tra i più significativi, dei documenti successivi, tutti di voci israeliane, sufficienti, insieme al paragrafo 3, per farsi una prima idea del senso del dossier.

Per Yitzhak Laor, scrittore e poeta, "Non è l’occupazione ad aver cambiato natura. È l’Europa occidentale che è cambiata, che è tornata al suo vecchio modo di guardare i non-europei con odio e disprezzo. Nell’immaginario della sinistra italiana, i palestinesi hanno perso lo «status» simbolico di cui godevano un tempo (la kefia al collo di decine di migliaia di giovani italiani, ad esempio) e sono passati nell’hinterland dell’Europa: dove gli americani possono fare quello che vogliono, e l’avida Europa, come sempre, si schiera dalla parte dei più forti. I palestinesi sono ancora una volta solo degli arabi che sanguinano, e il sangue arabo – proprio come in passato il sangue ebraico – vale poco."

….."Il nostro stato, che da 41 anni sta privando un’intera nazione di qualunque diritto se non quello di emigrare, viene celebrato dalla Cultura. Bene, questa è l’Europa – dopo tutto, la stessa Europa che noi e i nostri genitori abbiamo conosciuto: la Cultura è sempre stata la cultura dei Padroni. Il dibattito sulla Fiera del libro può dimostrare come la sinistra, un tempo la più sensibile d’Europa verso la causa palestinese, sia diventata la più cinica sinistra filo-israeliana. Ha perso il suo orizzonte politico, e in questo vuoto ideologico ciò che si è realmente verificato è il ritorno del Coloniale. È questo il contesto storico in cui va letta l’estinzione della nazione palestinese, celebrata attraverso il 60° anniversario di Israele. L’Europa si sta espandendo fino a includere Israele, come «isola di democrazia», di «diritti umani»."

Per Dan Orian, capo del Dipartimento per la letteratura presso la Divisione per gli affari culturali e scientifici (DCSA) del ministero degli esteri israeliano, "la cooperazione tra scrittori israeliani e il ministero degli esteri è basata su un interesse reciproco: gli scrittori e i poeti cercano all’estero la massima visibilità per i loro lavori e il ministero degli esteri vuole usarli per presentare il volto sano e attraente d’Israele".

….."La cultura è uno strumento magnifico per aiutare la carretta a correre liscio."

…..Il Dipartimento di letteratura presso il DCSA opera attraverso diversi canali: finanzia in parte o completamente i viaggi all’estero degli scrittori o dei poeti israeliani, abitualmente dopo la pubblicazione di uno dei loro libri; aiuta ad ospitare scrittori ospiti e fornisce assistenza finanziaria per tradurre lavori in altre lingue.

….."L’idea è quella di mostrare che Israele è molto di più della battaglia tra israeliani e palestinesi su un pezzo di terra. Quando Zeruya Shalev va in Germania, c’è gente anche fuori all’auditorium per ascoltarla. Noi siamo percepiti come aggressivi, come quelli che impongono le chiusure sui Territori, e improvvisamente appare un’autrice che parla delle relazioni all’interno della famiglia e il cui modo di scrivere è veramente non politico. Questo può cambiare l’intera percezione della società israeliana" .

….."Diamo aiuto per la traduzione della letteratura israeliana in lingue straniere, circa 2.000 dollari per traduzione".

….."Mandiamo all’estero una media di 120 scrittori all’anno e generalmente paghiamo il loro biglietto aereo"

Per Benny Ziffer, direttore dell’inserto letterario di Haaretz, (rispondendo alla domanda di nonfiction.fr: Perché aver lanciato questo appello al boicottaggio?)

"Ci sono diverse problematiche. La prima è che il nostro governo, la nostra ambasciata, che hanno fatto la selezione, hanno scelto solo scrittori di lingua ebraica escludendo di fatto due terzi della scena israeliana: ora, questa conta un’enorme comunità tanto di lingua russa che di lingua araba. E’ dunque molto riduttiva. La seconda questione è la scelta arbitraria degli scrittori fatta dai burocrati dell’Ambasciata che hanno escluso grandi figure come quella del nostro poeta nazionale Nathan Zach. Eppure scrive in ebraico! La terza questione è che lo Stato Israeliano considera che gli scrittori siano degli agenti di propaganda. A partire dal momento in cui l’amministrazione finanzia il biglietto aereo, stima che lo scrittore è lì per servire la causa israeliana ed esige ufficialmente questo ”fare propaganda" in un contratto che tutti gli scrittori devono firmare. E’ quello che è successo con il Salon du Livre di Parigi e con la Fiera del Libro di Torino."

Per Aharon Shabtai, poeta, "Lei si riferisce agli intellettuali e agli scrittori di successo, quelli che il mio amico Nimrod Kamer chiama "la sinistra soft": Amos Oz e David Grossman, per esempio. Nel loro caso direi che ha funzionato il principio della cooptazione.

L’establishment li adotta, li coopta, è il suo metodo. Su un piano generale loro si oppongono a voce alta all’Occupazione, e questa posizione dà loro credibilità quando sostengono il regime su importanti argomenti specifici. Ad esempio hanno sostenuto gli Accordi di Oslo, l’imbroglio di Camp David del luglio 2000, le misure prese contro l’Intifada e la seconda guerra del Libano. Gli scrittori della sinistra soft non danno un contenuto politico alla letteratura, anzi al contrario, invece di spingere a decidere o ad agire sublimano in cultura ciò che è politico. Nelle loro mani l’Occupazione diventa la psicomachia dell’anima bella, tormentata, di Israele. Sono riusciti a farne un clichè del discorso culturale israeliano. Persino Ariel Sharon ed Ehud Olmert hanno detto di essere contro l’Occupazione. È stata normalizzata. È diventata parte della cultura, materiale per una infinita autoflagellazione narcisistica, soggetto per film, conferenze, dottorati e carriere accademiche. In questo modo l’Occupazione è stata espunta dal campo della lotta per essere compressa in un asilo infantile psicoterapeutico. Infine si raggiunge il punto in cui l’Occupazione diventa grafomania. La gente non ne può più di sentirne parlare.

E’ questo il motivo per cui da Oslo in poi nessuna grande letteratura si è sviluppata in questo paese, dove si sono prodotte soltanto cose mediocri che contribuiscono ad una vita sociale gretta, che ricicla "l’esperienza israeliana" impantanata nella sua fissazione.”

E infine Yitzhak Laor riporta alcune parti del contratto che scrittori e artisti israeliani devono firmare per poter andare all’estero: "Il service provider è consapevole che l’obiettivo di affidargli servizi è di promuovere gli interessi politici dello Stato di Israele tramite la cultura e l’arte, incluso il contribuire a creare un’immagine positiva di Israele."

Ma per comprendere il significato della militarizzazione della cultura nel quadro più ampio del “militarismo civico" che caratterizza la società israeliana possono essere utili alcuni passaggi dal capitolo 7, “The Code of Security: The lsraeli Military-Culture Complex", del saggio di Baruch Kimmerling “Invention and Decline of Israeliness – State, Society, and The Military", University of Califomia Press 2001, per i quali rimandiamo al paragrafo 4.

Dedichiamo questo dossier al cinismo, morale, culturale e politico, dei responsabili politici e organizzativi della Fiera del Libro di Torino:

al Presidente e ai Co-Presidenti dell’Alto Comitato di Coordinamento della Fiera Internazionale del Libro:

Sergio Chiamparino, Sindaco della Città di Torino

Mercedes Bresso, Presidente della Giunta Regionale del Piemonte

Antonio Saitta, Presidente della Provincia di Torino

agli altri soci fondatori Renato Cigliuti, Carla Gatti e Roberto Moisio

ai membri del Consiglio di amministrazione:

Rolando Picchioni, Presidente

Fiorenzo Alfieri, Walter Barberis, Francesca Ciluffo, Valter Giuliano, Enrico Grosso e Federico Motta

ai membri del Consiglio di indirizzo:

Piero Bianucci, Pier Giovanni Castagnoli, Alberto Conte, Giovanni De Luna, Lorenzo Mondo, Alberto Nicolello, Marco Polillo, Giuliano Soria

al direttore editoriale, Ernesto Ferrero.

Ci permettiamo anche di consigliare loro la lettura del saggio: "La fabbrica del falso – Strategie della menzogna nella politica contemporanea", di Vladimiro Giacchè, Derive/Approdi 2008.

Strategie della menzogna che coinvolgono sia la politica che la cultura.

Le vicende della Fiera del Libro di Torino potrebbero costituire un case study per confermare le tesi di Giacchè.

3. La Fiera del Libro in pillole" ovvero l’arroganza di un ambasciatore e di un plenipotenziario

Una semplice sequenza:

1. Conferenza stampa del 18 dicembre 2007

Secondo una nota apparsa su "La stampa": "Per l’assessore provinciale alla cultura Valter Giuliano, sarà l’occasione per «stimolare un dialogo sulla pace», ma anche, “per presentare il vero Israele – ha detto il ministro plenipotenziario (israeliano) in Italia Elezar Cohen -, quello che va oltre il tema del conflitto così spesso al centro dell’interesse dei mass media»".

Il Cohen aveva ripassato la lezione, in particolare il paragrafo 12 del contratto che scrittori e artisti israeliani devono sottoscrivere con il loro ministero degli esteri (vedi Sul contratto tra gli intellettuali israeliani e il loro ministero degli esteri di Yitzhak Laor, Haaretz, 27 luglio 2008): "Il fornitore si impegna ad agire lealmente, responsabilmente e con il massimo impegno per assicurare al Ministero servizi del più alto livello professionale. Il fornitore è consapevole che l’obiettivo di affidargli servizi è di promuovere gli interessi politici dello Stato di Israele tramite la cultura e l’arte, incluso il contribuire a creare un’immagine positiva di Israele."

2. L’ambasciatore israeliano in Italia Ghideon Meir rilascia (marzo 2008) una intervista a Shalom, mensile ebraico di cultura e informazione (allegato 2):

"La stampa europea presenta Israele sotto una luce molto negativa, ignorandone completamente il contesto. Il pubblico europeo conosce Israele solo attraverso il conflitto mediorientale. Non si sa che Israele è anche un Paese democratico, con valori democratici, con libertà di parola e diritti civili universali, di cultura meravigliosa, con una fioritura economica notevolissima rispetto all’occidente. Tutto ciò è ignorato.

Credo che il sessantesimo anniversario sia per noi l’occasione per portare alla luce e a conoscenza degli italiani l’altro volto di Israele, il contesto. Il conflitto è contro un paese sovrano, ebraico, democratico, che ha valori universali: è molto importante che il pubblico italiano capisca questo. Noi faremo in modo che tutto ciò venga compreso attraverso una lingua che è sicuramente condivisa dagli italiani, la lingua della cultura: musica, arte figurativa, scultura."

….."A questo aggiungo che in Italia gli scrittori israeliani, dell’importanza di Oz, Shalev, Grossman,  Yeoshua, Appelfeld (sperando di non aver dimenticato nessuno), sono tra i più letti: anche attraverso la letteratura noi dobbiamo rappresentare e mostrare l’altra faccia di Israele. So che in Italia molti si sentono legittimati a criticare Israele per il fatto che questi scrittori criticano proprio la politica. Questa settimana, ho avuto una conversazione interessante con David Grossman: egli è uno dei più grandi rappresentanti della letteratura israeliana. Lo dico sempre a lui come agli autori israeliani: nel momento in cui i palestinesi avranno scrittori del loro calibro, che criticheranno anche loro apertamente le azioni dei loro governi e parleranno di pace con Israele, allora saprò che siamo sulla strada per la pace."

….."Io l’ho detto e lo ripeto: che non ci sia nessun compromesso in questa Fiera. Ci hanno invitato perché siamo un Paese sovrano, perché i nostri scrittori sono tra i più riusciti e letti in Italia, e perché rappresentano una cultura. il giorno in cui vorranno invitare nazioni arabe, ci saranno nazioni arabe. Non può essere che invitano Israele solo se invitano anche i palestinesi, questo accordo non può esserci. Io l’ho detto: se chiameranno anche i palestinesi, noi non ci saremo. Semplicemente, non ci saremo.

In Medio Oriente c’è un Processo di Pace, e A.D. Yehoshua lo ha scritto (il 4 febbraio n.d.r.) in modo esemplare su La Stampa: "ciò nuoce al processo di pace", e questa affermazione non viene certo da uno che non critica lo Stato di Israele! Egli invita gli italiani a non andare oltre. Le parole di Fassino e Bertinotti mi incoraggiano: si tratta di un evento culturale, di una fiera del libro, ed è vietato politicizzare un evento tale."

Per finire, sempre l’ambasciatore, con una menzogna paragonabile a quelle di gwbush o di powell sull’iraq: "Quando Israele reagisce, viene subito criticata. Per esempio per quanto riguarda l’energia a Gaza: è stata tagliata da Hamas al fine di creare un’immagine distorta di Israele, e tutti i leader europei sono caduti nella loro trappola. Ma non è così, Israele non taglia l’energia a Gaza, ma nessuno dice che gli stessi uomini che ad Ashqelon erogano l’energia, sono quelli sui quali arrivano i razzi kassam. Su questo non si dice neanche una parola. Si parla solo di punizione collettiva. Perché, i missili su Sderot, non sono una punizione collettiva? "

Affermazioni un po’ arroganti (gli eufemismi sono d’obbligo), tralasciando la clamorosa menzogna finale su Hamas, in evidente contrasto con quelle del duo Picchioni-Ferrero che hanno continuato ad assicurare che scrittori palestinesi erano stati, erano e sarebbero stati invitati. Comunque viva Fassino-Bertinotti, autorevoli esponenti della più cinica sinistra filo-israeliana (vedi Yitzhak Laor).

Che poi in Medio Oriente fosse in corso (o sia in corso) un processo di pace, malgrado gli stimoli della Fiera del Libro, presunti dall’assessore alla cultura della provincia di Torino, Valter Giuliano, (vedi sopra), non se ne è avuta contezza.

3. Conferenza stampa del 24 aprile 2008

Il plenipotenziario si ripete con maggiore arroganza nella conferenza stampa del 24 aprile.

In un articolo dal titolo "Al via La fiera delle polemiche", Massimo Novelli, (La Repubblica, 25 aprile 2008) scrive:

"Chi ha preparato il programma dei dibattiti e dei convegni che scandiranno la presenza di Israele, come ospite d’onore, alla Fiera internazionale del libro di Torino, in calendario dall’8 al 12 maggio e che verrà inaugurata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano? Elazar Cohen, il numero due dell’ambasciata in Italia dello Stato ebraico, intervenendo ieri alla presentazione della manifestazione, è stato categorico: «Non abbiamo avuto alcuna parte nella elaborazione delle iniziative del nostro stand. è stato Angelo Pezzana (noto libraio torinese, uno dei fondatori della Fiera e dell’associazione Italia-Israele, ndr) a occuparsene. Ha avuto libertà completa, senza richieste di alcun genere o veti. È un programma che riflette la realtà israeliana»."

Massimo Novelli evita di spiegare che Angelo Pezzana è anche uno degli animatori del sito www informazionecorretta.it,  definito “parafascista" dal prof. Piergiorgio Odifreddi, un sito filoisraeliano al di là di ogni immaginazione e di ogni decoro.

Elazar Cohen è stato "categoricamente" ridicolo nella sua spudorata arroganza!

Per comprendere il mistero del come la libertà completa assicurata ad Angelo Pezzana abbia potuto portare a "un programma che riflette la realtà israeliana", è sufficiente la lettura de "Il vero volto dell’antisionismo è il suo razzismo culturale" di Angelo Pezzana (allegato 3).

E’ un po’ come se Silvio Berlusconi dicesse "«Non ho avuto alcuna parte nella elaborazione delle iniziative del mio stand. E’ stato Fedele Confalonieri (con il quale il Silvio suonava da giovane, ora presidente di Mediaset, ndr) a occuparsene. Ha avuto libertà completa, senza richieste di alcun genere o veti. è un programma che riflette la realtà di forza italia». "

4. Il complesso culturale-militare-industriale in Israele secondo Baruch Kimmerling

Per comprendere il significato della militarizzazione della cultura nel quadro più ampio del “militarismo civico" che caratterizza la società israeliana possono essere utili alcuni passaggi dal capitolo 7, “The Code of Security: The lsraeli Military-Culture Complex", del saggio di Baruch Kimmerling “Invention and Decline of Israeliness – State, Society, and The Military", University of Califomia Press 2001.

Questo capitolo è stato pubblicato nel numero 6 della rivista conflitti globali, dedicata al tema israele come paradigma, per la traduzione di Marco Allegra, rivista alla quale si rimanda e per il capitolo integrale e per altri saggi di notevole interesse.

Baruch Kimmerling (1939 – 2007), professore di sociologia all’Università di Toronto e all’Università di Gerusalemme, ha pubblicato numerosi libri, saggi e articoli su Israele e Palestina.

In italiano sono stati pubblicati:

  • I Palestinesi. La genesi di un popolo, La Nuova Italia 2002, opera scritta con Joel S. Migdal dell’Università di Washington
  • Politicidio – Sharon e i Palestinesi, Fazi Editore 2003  

Seguono alcuni passaggi dal capitolo 7, “The Code of Security: The lsraeli Military-Culture Complex", del saggio “Invention and Decline of Israeliness – State, Society, and The Military":

“Analizzare i testi connessi con la cultura contemporanea israeliana ci offre un punto di partenza per capire l’impatto del lungo conflitto arabo-israeliano sul mainstream ebraico della società israeliana. Questa società e la sua cultura sono il risultato di una combinazione tra questo conflitto, altre traumatiche "esperienze ebraiche" – esilio, lunghe persecuzioni e, infine, l’Olocausto – nonché codici culturali quali etnocentrismo, sciovinismo, ansia e politicizzazione messianica della religione. Il tutto mescolato con i valori universalistici della democrazia e dei diritti umani. Questi contraddittori valori, primordiali e civici, sono stati assorbiti nell’identità collettiva ebraico-israeliana e si sono condensati attorno al codice culturale del militarismo civico. Nello stesso tempo, tuttavia, l’accettazione del conflitto come parte fondamentale dell’identità collettiva è stata accompagnata dalla ricerca di una soluzione pacifica complessiva.

Questi trend contraddittori hanno creato tre orientamenti politici, che si  incrociano all’interno della società israeliana, trasversali rispetto alle maggiori culture che riconosciamo nello stato israeliano. Questi orientamenti sono basati sul comune denominatore del discorso che valorizza il potere, l’autorità e  la capacità di intervento da parte di uno stato forte, che include a diversi gradi le correnti socio-culturali ebraiche ma esclude gli arabi. Tutto ciò che rimane dell’originaria "israelianità" di Israele, fatto salvo l’interesse di tutta la popolazione alla sopravvivenza dello stato, sono i suoi valori militaristi, mentre l”’ebraicità" che esisteva in precedenza è stata marginalizzata e controbilanciata da altri fattori. Questi valori, militaristi e power-oriented, hanno un comune "principio organizzatore" – la necessità, largamente percepita, di un apparato per la violenza istituzionalizzata, che richiede continua preparazione tanto per l’eventualità di una guerra aperta quanto per l’uso occasionale di una limitata pressione militare – e formano quello che possiamo definire un complesso culturale-militare[1]. Un insieme di assetti istituzionali, che riguarda le forze armate e l’economia, con tratti culturali distintivi, esprime questo complesso. Uri Ben Eliezer individua le origini del militarismo israeliano nella risposta della prima generazione sionista autoctona (i sionisti nati in Palestina, i cosiddetti sabra) alla grande rivolta araba del 1936-39. Tramontata l’illusione della pacifica accettazione araba della presenza della settler society di immigrati ebraici, quella generazione arrivò alla conclusione che solo un chiaro e deciso orientamento militarista avrebbe potuto assicurare l’esistenza di una polity ebraica nella regione e che ogni sforzo mirato alla riconciliazione con gli arabi era senza speranza. La leadership sionista adottò questa ideologia power-oriented molto prima del 1948 e da quel momento lo stato israeliano ha perseguito una sistematica politica militarista che ha impedito qualsiasi soluzione pacifica al conflitto arabo-israeliano.

L’impatto della guerra e del protratto conflitto politico-militare sugli israeliani è centrale per l’autoriflessione della società e la formazione delle sue dottrine politiche, sociali, militari, per la politica estera e quella interna. Istituzioni non specificamente disegnate per gestire guerra e conflitti hanno avuto un ruolo cruciale nella formazione della cultura militarista israeliana e, nello stesso tempo, sono state profondamente influenzate da essa.

Il sistema scolastico è stata mobilitato fin dall’inizio per gli scopi della nation building. Le scuole cercavano di creare il "nuovo ebreo", un produttivo pioniere che avrebbe "conquistato il lavoro" (sottraendolo agli arabi), colonizzato la terra (strappata agli arabi) e difeso la comunità (contro gli arabi). Anche quando questi scopi furono superati dagli avvenimenti, il sistema scolastico continuò a essere uno dei maggiori agenti per la socializzazione della visione militarista e del senso di perenne minaccia che domina la società ebraica in generale e, in modo ancora più marcato, alcuni gruppi sociali specifici. La maggior parte degli accademici e dei centri di ricerca che si occupano della sicurezza nazionale appartengono al complesso culturale-militare e, in generale, si pongono al servizio dei suoi scopi in modo prono e acritico.

Tanto i leader militari e civili che la loro audience politica considerano naturalmente gli aspetti militari e strategici come il principale o l’unico parametro del decision-making. Solitamente, si tratta di un atteggiamento inconscio. Steven Lukes lo definisce "la terza dimensione del potere".  In una situazione simile, l’intero asse della società – in termini sia istituzionali (economia, industria, produzione legislativa) sia cognitivi – è orientato verso una permanente preparazione alla guerra, (naturalmente) per difendere la sopravvivenza stessa della collettività. Questo sforzo continuo, divenendo parte integrante della routine sociale, non è più considerato un tema di dibattito pubblico o di lotta politica. Anche quando le performance militari e l’operato delle forze armate sono contestate pubblicamente, la critica è sempre articolata in termini di "tecnica militare" e rinforza gli orientamenti e il discorso militarista. Il sistema israeliano può essere caratterizzato come un "militarismo totale", soprattutto nella misura in cui comprende la maggior parte delle istituzioni sociali israeliane ed è sostenuto dalla percezione che tutta la nazione partecipa allo sforzo e possiede capacità militari, e che la maggioranza dei cittadini è coinvolta in azioni di combattimento. Un simile militarismo civico è per molti versi in contraddizione con il "militarismo professionale" delle stesse forze armate. Quest’ultimo limita il ruolo dei militari alla loro molto più ristretta funzione strumentale. Il militarismo civico, viceversa, lo espande oltre l’idea della preparazione per future guerre coinvolgendo le migliori risorse umane e materiali disponibili.

Il governo, le élite civili, nonché la maggior parte dei membri della collettività, funzionano tutti come agenti del militarismo civico. In questo tipo di sistema non è necessario che i militari – intesi come struttura istituzionale – governino la sfera politica, né che le forze armate siano per forza al centro del "culto dello stato". Il militarismo civico è sistematicamente interiorizzato dalla gran parte delle cariche dello stato, dai politici e dall’ opinione pubblica come una realtà autoevidente, i cui imperativi trascendono l’appartenenza politica o sociale. La sostanza del militarismo civico è che le considerazioni militari, come anche le questioni ritenute rilevanti per la sicurezza, hanno quasi sempre la priorità rispetto a quelle politiche, economiche o ideologiche. In questo modo, dialetticamente, anche fare la pace è una questione militare. Per esempio, durante le elezioni del 1996 e del 1999, l’alternativa per gli elettori era rappresentata dagli slogan "pace nella sicurezza" e "una pace sicura". 

Nel corso del tempo, quantità sempre maggiori di risorse umane e materiali sono state mobilitate, accumulate e investite direttamente per fare fronte al conflitto. Un aspetto della risposta di Israele allo stato endemico di guerra è la predisposizione di una grande varietà di istituzioni e organizzazioni specificamente create per occuparsene, per esempio le forze armate, il sistema della riserva, insediamenti, industrie militari, ricerca e sviluppo in ambito bellico. Altre istituzioni teoricamente dedicate ad altro – la famiglia, il sistema educativo, le istituzioni religiose, i movimenti giovanili, l’assorbimento dell’immigrazione, la cultura e le comunicazioni di massa – sono state più volte mobilitate, adattate e trasformate per gestire i problemi che nascevano dal conflitto.

Non tutta la società israeliana è modellata dalle spinte provenienti da guerre e conflitti. Un importante obiettivo della ricerca sociale dovrebbe essere quello di scoprire, isolare e studiare le aree e le istituzioni che non sono influenzate da questi elementi, e scoprire perché e come questo accada. Nonostante la centralità e il grande prestigio sociale di cui beneficiano, le forze armate israeliane sono principalmente un’organizzazione di professionisti e non cercano di intervenire direttamente nei processi politici e sociali*. Da questo punto di vista, esse non sono molto più "militariste" di quanto non lo siano le forze armate di un qualsiasi paese democratico. Diversamente, porzioni considerevoli della società israeliana sono divenute altamente militarizzate; la militarizzazione della cultura israeliana si esprime prevalentemente nell’uso eccessivo della forza per la soluzione di problematiche politiche e sociali, nella forma mentis di gran parte della popolazione e della classe politica e nell’aspettativa che le forze armate possano risolvere problemi essenzialmente non militari. Una grave crisi politica, in effetti, potrebbe spingere vasti settori della popolazione a sostenere un regime militare "forte", cosa che rappresenterebbe la fine del sistema parlamentare israeliano. La preparazione alla guerra – e la guerra in sé – si interseca poi con i processi di trasformazione sociale e state building, nonché con l"’irredentismo" israeliano. Questo è un caso piuttosto comune per le società fondate sull’immigrazione di coloni. In tal senso, la logica dello stato prevede la guerra e una serie di pratiche power-oriented, inclusa la possibilità di espansione territoriale. Tuttavia la stessa logica prevede l’idea della pace, complementare a quella della guerra. Dopo l’acquisizione del controllo su di un territorio percepito come parte della nazione, nel periodo di pace successivo lo stato deve consolidare le sue acquisizioni attraverso una combinazione di presenza civile nella forma degli insediamenti – spesso stabiliti con il pretesto delle "ragioni di sicurezza" – e garanzie militari a difesa di questi ultimi. Per portare a termine il processo di state-building, tuttavia, il consolidamento deve implicare

* di parere contrario analisti come Uri Avnery, Gideon Levy, Ilan Pappe e altri (nota di ISM-Italia)

l’accettazione – da parte sia di coloro che vivono sotto questo regime sia della comunità internazionale – di determinati confini e di una data composizione etnica della popolazione. In caso contrario, tale stato è inevitabilmente condannato a dissipare risorse umane e materiali in guerre e conflitti inutili, fino al limite dell’autodistruzione. Nessuno stato o società, tuttavia, possiede meccanismi di regolazione automatica rispetto alla pace e alla guerra; di conseguenza, entrambe le opzioni sono sempre soggette a controversie politiche e culturali.

Nel corso della sua formazione, nello stato di Israele si sono sviluppati valori, gruppi e retoriche orientati sia verso il conflitto e la guerra sia verso il compromesso. Per via della routinizzazione del conflitto, tuttavia, ha avuto modo di sedimentarsi un pervasivo codice culturale militarista, che ha fatto scomparire i confini tra pace e guerra, e – riguardo alla questione del mantenimento del controllo sui Territori occupati – tra gli argomenti di tipo razional-militare e il discorso ideologico-religioso. Il primo accordo "pace contro territori" con l’Egitto fu siglato con lo scopo di incrementare il controllo sulle parti di Eretz Israel chiamate Giudea e Samaria (la Cisgiordania), e fu immediatamente seguito dalla guerra del Libano nel 1982, combattuta per la stessa ragione. Israele accettò gli accordi di Oslo con i palestinesi principalmente perché gli consentivano di liberarsi della responsabilità di aree densamente popolate da arabi attraverso la creazione di meccanismi di controllo indiretto: l’Anp di Arafat ha ricevuto una sorta di subappalto riguardante l’amministrazione, senza però che Israele rinunciasse alla "responsabilità complessiva per la sicurezza" su alcuna parte del territorio. Si arrivò a questo passo solo dopo che le élite politico-militari avevano concluso che non esisteva una soluzione militare accettabile per la questione palestinese (anche se non tutti gli ebrei israeliani concordavano su questo punto). La conclusione di una pace informale con la Giordania, poi, mirava a indebolire ulteriormente la forza politica e militare dei palestinesi.

L’ansia esistenziale insita nell’identità e nella memoria collettiva israeliana rappresenta la base del militarismo civico. Nello stesso tempo, essa rinforza il "militarismo militare" e il complesso cultural-militare, creando un circolo vizioso in cui la profezia sul "caso peggiore" si (auto)avvera sempre. Persino le principali motivazioni per la ricerca di una soluzione negoziata sono determinate da sentimenti xenofobi e segregazionisti o dalla ricerca di una migliore formula di controllo sugli "altri" che consenta il mantenimento della "propria" supremazia militare. (Traduzione di Marco Allegra)

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