La Fiera del Libro di Torino. Note di boicottaggio.

 

La Fiera del Libro di Torino. Note di boicottaggio

di Gianluca Bifolchi

Vi è la diffusa opinione che la fine del regime dell’Apartheid in sud Africa sia il risultato della lotta dell’ANC e di Nelson Mandela contro il regime bianco di Pretoria, il che rende per lo meno merito all’eroismo di essa. E a giusta ragione. Ma questa è solo una parte della storia. L’altra parte è quella della lenta evoluzione, nella percezione internazionale della situazione sudafricana, dalla sostanziale indifferenza verso le enormi violazioni dei diritti umani in quel paese, fino ad una condanna senza appello che culminò nelle sanzioni internazionali. Poche parabole sono significative come quelle del vice presidente americano Dick Cheney, che oggi definisce Mandela un "grande uomo", ma che nei cruciali anni 80 fu uno dei più impegnati boicottatori del boicottaggio internazionale all’economia sudafricana all’interno dell’amministrazione Reagan. In quegli anni, ricordiamolo, negli USA Mandela e l’ANC erano considerati terrorismo.

Questo cambiamento di percezione deve molto al mondo degli affari. Fino alla fine degli anni sessanta l’economia sudafricana, benché relativamente prospera, era ancora incentrata sul settore agricolo ed estrattivo-minerario, ed attirava consistenti investimenti stranieri, soprattutto dal mondo anglosassone. E questa era la ragione principale per cui il regime di segregazione razziale trovava poco spazio sulla stampa e turbava assai lievemente la sofisticata coscienza occidentale.

Di lì a poco l’economia del paese cominciò a svilupparsi in senso più industrialmente moderno e, di conseguenza, nacque anche un settore del terziario avanzato. La minoranza bianca non era demograficamente sufficiente per fornire il nuovo tipo di manodopera di cui l’economia del paese aveva bisogno, cioè quella di quadri e operai specializzati, capaci di leggere istruzioni complesse e svolgere lavoro di supervisione. L’assenza di un contesto imperiale, come quello britannico di inizio secolo, impediva l’immigrazione di un ceto commerciale e professionale di serie B (ricordiamoci degli Indiani e di Gandhi ad inizio carriera), facilmente controllabile e soggiogabile, e dunque utile a mantenere i neri nella loro condizione di pariah. Dunque, occorreva integrare i neri a livelli più alti della produzione economica, ma non era possibile fare ciò senza riconoscimento di un minimo di diritti civili.

Questo fu l’inizio della fine dell’Apartheid, e il cambiamento nella stampa internazionale rifletteva il cambiamento degli interessi negli investitori economici, che non desideravano più il mantenimento delle precedenti strutture feudali nel paese africano.

Questa periodizzazione nella storia della lotta contro l’Apartheid sudafricano può essere utile ad inquadrare la lotta del popolo palestinese contro l’apartheid israeliano, e ad inserirla nel più ampio contesto internazionale, dando il peso dovuto ai fattori economici.

Da questo punto di vista c’è subito da cogliere e sottolineare una differenza tra il Sud Africa e Israele. Le complicita occidentali con gli Afrikaaner erano principalmente dovute alla preoccupazione di salvaguardare gli investimenti stranieri dai rischi rappresentati dalla lotta per la libertà del popolo nero. Viceversa, Israele non è una piazza molto significativa per il capitale internazionale, o comunque non al punto da offrirgli il livello di complicità di cui godeva il regime di Pretoria. Ma Israele è un importante caposaldo occidentale in Medio Oriente, e la sua mera presenza è fomite di un’instabilità che permette la continua ingerenza USA nell’area più ricca di petrolio nel mondo. E non solo da parte degli USA. Si pensi alle grottesche pose antisiriane da parte della Francia di Chirac prima e di Sarkozy dopo in materia di politica interna libanese, benché Parigi sia la nazione più ficcanaso di tutte nel paese de cedri. Si tratta di un’insolenza tributaria dell’instabilità della regione, di cui Israele è la causa principale, anche se non l’unica.

Di qui l’imponente sforzo propagandistico, nei paesi occidentali, per conservare ad Israele un livello minimo di rispetto da parte delle rispettive opinioni pubbliche. Un rispetto che non merita.

Qualcuno obietterà che vi sono anche altre ragioni, come i vecchi (e quanto mai giustificati) sensi di colpa dell’Europa, o in genere dell’Occidente, verso gli Ebrei. Ma si tratta di un fattore piuttosto esagerato. Norman Finkelstein ricorda che negli USA dell’immediato dopoguerra, se ti mettevi a parlare dei campi di sterminio nazisti e del genocidio ebraico venivi preso per comunista. E questo, essenzialmente, perché solo ai comunisti importava qualcosa degli Ebrei, mentre Washington era impegnata a sostenere il fedele alleato tedesco Konrad Adenauer nello sdoganamento di tutto quello che si poteva sdoganare del passato nazista, e nel porre le basi di un’occupazione militare permanente del paese. Gli Ebrei erano un argomento piuttosto scomodo, e l’uso politico dei sensi dei colpa è uno strumento che si costruisce a freddo, secondo le necessità del momento.

Sia come sia, vi sono sufficienti ragioni di interesse economico e geostrategico per difendere ideologicamente Israele. Al punto che i fantasiosi miti della sua fondazione, screditati persino dalle ricerche di uno storico israeliano di simpatie sharoniane come Benny Morris, riceveranno uno spazio d’onore privilegiato alla prossima Fiera Internazionale del Libro di Torino, che aprirà i battenti l’8 Maggio.

Tra le giustificate reazioni di protesta (ahimé, ancora deboli) e i sacrosanti propositi di boicottaggio per quest’atto di legittimazione di un regime di apartheid peggiore di quello sudafricano, ho colto però un elemento che vorrei discutere in modo un po’ più dettagliato.

Lo sdegno verso questa decisione si rivolge ad un bersaglio, per l’appunto l’organizzazione della Fiera, che viene presentato come un soggetto politico, che prende decisioni di natura politica, assimilabili a quelle dei governi o dei grandi partiti. Ma non è affatto così. La Fiera viene organizzata dagli uffici marketing delle grandi case editrici, e questi seguono unicamente considerazioni di natura affaristica e mercantile. La vera domanda da porsi non è perché la Fiera abbia deciso di dare una mano ad un regime apartheid, ma perché le grottesche mistificazioni a proposito della nascita dello stato d’Israele siano una mercanzia che si vende ancora abbastanza bene presso l’intellettualume che compra i libri degli editori italiani. E non perché si preveda di vendere libri israeliani, o prevalentemente israeliani, ma perché Israele appare come un efficace sponsor in una kermesse che serve a vendere libri che trattano dalla sifilide di Nietzsche alle vicende giudiziarie di Paris Hilton, passando per le liste della spesa di Giacomo Leopardi.

Non è una questione di lana caprina, ma un punto cruciale delle strategie di boicottaggio finalizzate alla difesa dei diritti umani. Queste complesse e dispendiose azioni hanno qualche possibilità di successo solo se chi le organizza e vi prende parte ha l’abilità di far entrare in rotta di collisione gli interessi mercantili e gli interessi della propaganda ufficiale. Da questo punto di vista non ho grandi consigli da dare, se non una considerazione di ordine generale.

E’ bene non farsi illusioni, nei mesi che ci separano dalla Fiera del Libro non è possibile organizzare un boicottaggio che abbia ripercussioni troppo pesanti sull’evento stesso. Tutt’al più c’é la speranza che gli organizzatori mettano in programma anche qualche tavola rotonda in cui siano presenti portavoce palestinesi non
troppo addomesticati. E anche per questo occorrerà lottare con le unghie e con i denti.

Suggerirei quindi di dotarcisi di abbondanti riserve di Maalox in previsione dello spettacolo dei nostri intellettuali, il nostro ministro degli esteri, il nostro capo del governo e il nostro presidente della repubblica che si recheranno a Torino per scambiarsi pacche con le spalle con i rappresentasnti dello stato più razzista del mondo. Ma il fatto che la Fiera non possa essere colata a picco come meriterebbe, non significa che il boicottaggio non vada fatto, o che non sortirà effetti. Starà agli amici del popolo palestinese di avere l’abilità di sfruttare, come in un incontro di judo, la prevalente forza dell’avversario per farla agire contro di esso.

Se si riesce a organizzare e mettere in pratica un’azione di boicottaggio proporzionata all’enfasi che la Fiera porrà su Israele, gli strascichi di questo messaggio contrastante saranno significativi al di là del bilancio apparente della Fiera, e da quel momento in poi gli uffici marketing di chiunque voglia vendere qualcosa ci penseranno due volte prima di compromettersi con l’immagine di Israele. Chi è in affari, soprattutto se si rivolge al grande pubblico, non ha piacere di vedersi associato alla violazione sistematica dei diritti umani. I boicottatori devono comprendere e saper sfruttare questa debolezza.

Nonostante tutto la Fiera è una buona occasione da non perdere. 

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