La legge israeliana sugli insediamenti: dall’occupazione all’annessione

-849063129PIC. Di Meron Rapoport. Nel marzo 2012 Yaakov Katz, uno degli estremisti del partito di estrema destra di Unità nazionale, ebbe una semplice idea.
Per risolvere il problema degli insediamenti e degli avamposti costruiti su terreni privati palestinesi in Cisgiordania senza autorizzazione ufficiale israeliana, dovrebbe essere promulgata una legge che permetta a Israele di confiscare questi territori ai loro proprietari.
In poche parole, una legge che legalizzi il furto.
Inizialmente Benjamin Netanyahu bloccò questa iniziativa, che venne percepita come una violazione dell’autoproclamato impegno di Israele al diritto internazionale.
Cinque anni più tardi, Katz non è più membro della Knesset e il suo partito non esiste più, ma la sua legge è sopravvissuta.
Con il consenso di Netanyahu – il medesimo primo ministro che a suo tempo la bocciò – la legge sulla confisca di Katz è passata, alcuni giorni fa, a larga maggioranza al parlamento israeliano.
Se pure l’Alto tribunale israeliano invalida questa legge – eufemisticamente chiamata «legge sulla normalizzazione» – la storia della legislazione racconta la storia delle modifiche nella mappa politica di Israele. Le idee che solo pochi anni prima apparivano radicali e estreme, si sono spostate nell’ufficialità.

Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo

La confisca di terreni privati palestinesi non è certamente nuova nella storia israeliana. Subito dopo la guerra del 1948 circa 4 milioni di dunam appartenenti a palestinesi fuggiti o deportati durante la guerra vennero confiscati grazie alla nota legge degli assenti.
Un terzo di area palestinese di Gerusalemme est, annessa dopo la guerra del 1967, venne confiscata per la costruzione di quartieri riservati agli israeliani.
Quasi tutti gli insediamenti in Cisgiordania sono stati costruiti su 90 mila ettari di terra dichiarata da Israele «terra statale».
La «legge della confisca» di recente adozione appare così come una piccola evoluzione di questa problematica tradizione. Ma un tale punto di vista non tiene conto di importanti cambiamenti politici verificatisi negli ultimi anni in Israele.
Dalla guerra del 1967 Israele ha insistito con l’ambigua attitudine nei confronti delle aree che occupa in Cisgiordania e a Gaza.
Allo stesso tempo Israele ha rifiutato di annettere la Cisgiordania e Gaza applicando «volontariamente» la Quarta convenzione di Ginevra che garantisce la protezione della popolazione civile sotto occupazione. In innumerevoli casi in cui i palestinesi si sono appellati al Tribunale israeliano, essi sono stati, secondo quanto riportato, trattati secondo tale convenzione.
Però, contemporaneamente, Israele si rifiutava di ammettere che la Cisgiordania e Gaza erano aree occupate in senso stretto. Ciò gli ha permesso di insediare centinaia di migliaia di suoi cittadini nei territori occupati, mossa rigorosamente proibita secondo la stessa Convenzione di Ginevra.
Questa ambiguità è servita a Israele a livello internazionale, facendo sì che il controllo sulla Cisgiordania fosse negoziabile e facendo apparire gli insediamenti temporanei.
Ma essa ambiguità è stata ancor più importante all’interno di Israele: essa ha salvato i governi israeliani che si sono succeduti dalla difficile scelta tra annettere la Cisgiordania e i suoi 2 milioni e 500 mila palestinesi, o ritirarsi ai confini del 1967.

L’ambiguità allo specchio

In Israele le organizzazioni per i diritti umani come Peace Now, Yesh Din e altre, hanno provato a utilizzare questa ambiguità a loro favore.
Poiché la Convenzione di Ginevra proibisce chiaramente e incondizionatamente la confisca di proprietà privata ai civili sotto occupazione, esse si sono appellate a nome dei palestinesi proprietari, le cui terre legalmente registrate venivano usate per costruirvi degli insediamenti.
Lo scopo era soprattutto quello di restituire i terreni ai loro legittimi proprietari, ma dietro a questi appelli c’era anche una motivazione politica: poiché gli insediamenti erano visti, giustamente, come l’ostacolo principale alla creazione di uno Stato palestinese indipendente, l’idea era, tramite questi appelli, ricordare sia a livello locale che internazionale l’illegalità degli insediamenti in generale, sia costruiti su «terreno statale» che su terreni privati.
Negli ultimi anni alcuni di questi appelli hanno avuto successo, e i coloni sono stati sfrattati e le loro case demolite.
Il più recente, e probabilmente maggior successo si è avuto ad Amona, avamposto illegale edificato su terreno privato del villaggio di Silwad, vicino a Ramallah. Dopo interminabili delibere e ritardi, l’Alta corte israeliana ha ordinato la demolizione di 40 case lì edificate, e la restituzione dei terreni ai loro proprietari. La decisione è stata applicata la scorsa settimana.

«Non ci vergogniamo più»
Ma, mentre questi appelli e queste delibere procedevano, la mappa politica di Israele cambiava. I coloni, rappresentati soprattutto dal partito della Casa ebraica di Naftali Bennet e dal partito al governo del Likud, assumevano un potere politico sempre maggiore. Lo slogan di Bennet alle elezioni del 2016 è stato: «Non ci vergogniamo più».
Il messaggio di Bennet era chiaro: noi, i coloni, non intendiamo rassegnarci a 50 anni di ambiguità sul futuro della Cisgiordania. Queste aree appartengono agli ebrei, a loro soltanto, perciò gli ebrei non possono essere considerati occupanti «sui loro propri terreni». L’idea di uno Stato palestinese indipendente su queste aree dovrebbe essere abbandonata definitivamente.
Bennet non ha ottenuto un grande successo alle elezioni del 2016, ma nel nuovo governo formato da Netanyahu egli ha avuto un ruolo maggiore di quello ricoperto in precedenza. Egli ha ottenuto il ministero dell’istruzione, e l’ancor più importante ministero della giustizia è stato dato alla sua compagna di partito Ayelet Shaked.
Con l’aiuto dei ministri del Likud, simpatizzanti per le colonie, la pressione ad abbandonare le ambiguità sulla Cisgiordania e affrontare una qualche forma di annessione si è consolidata.
Fino all’elezione di Donald Trump, Netanyahu ha preferito non fare alcuna scelta. Egli ha evitato ogni negoziato serio con i palestinesi, e si è astenuto dal cambiare la situazione attuale.

Il circo di Amona
Ma ora le cose stanno cambiando. Sia perché Netanyahu vede in Trump un salvatore o perché le indagini sulla corruzione che lo riguardano stanno avendo effetto, è evidente che Netanyahu sta perdendo il suo vecchio approccio prudente.
Il voto alla Knesset a favore della legge sulla confisca è un indice chiaro di questa nuova direzione. Dopo la decisione finale dell’Alta corte, per Netanyahu e Bennet non c’era nulla da fare per salvare Amona dallo sfratto. Anche i coloni che abitavano questo avamposto erano consapevoli di ciò. Così, l’evacuazione di Amona, la scorsa settimana, è diventata un grande spettacolo.
Tremila poliziotti ci hanno messo più di 24 ore a far evacuare circa 40 famiglie. Persino gli scontri violenti tra una manciata di coloni estremisti e la polizia, nella parte finale delle operazioni, sono apparsi premeditati.
L’evacuazione di Amona vuol essere vista come l’ultima evacuazione. Solo pochi giorni dopo, l’approvazione della legge sulla confisca, che permette al governo di confiscare terreni privati palestinesi sui quali gli insediamenti già sono stati edificati, è stata chiara nelle sue intenzioni.
L’umore politico in Israele si sposta definitivamente verso l’annessione di parti della Cisgiordania, se non verso una annessione completa. I palestinesi, secondo gli scenari avanzati dai politici di destra, dovranno accettare un’autonomia ridotta, oppure vivere come residenti di seconda classe in zone governate direttamente da Israele.
Non è ancora chiaro se si raggiungerà una piena annessione a breve; Netanyahu su questo è ancora cauto. Egli capisce le conseguenze dell’essere dichiarati letteralmente o addirittura ufficialmente Stato di apartheid.
Ma, tentato da Trump, o messo alle strette dal movimento dei coloni e dalle indagini giudiziarie nei suoi confronti, egli potrebbe cambiare direzione. L’occupazione ambigua attuata da Israele potrebbe diventare un’annessione esplicita.

Meron Rapoport è uno scrittore e giornalista israeliano, vincitore del Premio internazionale di Napoli per il giornalismo per un’inchiesta sul furto di alberi di ulivo di proprietà privata palestinese. Egli è ex capo della sezione notizie di Haaretz, e, attualmente, giornalista indipendente.