La Nakba, una realtà ancora in corso

_DSC0009-1Di Nora Tamimi (*). Il 15 maggio 1948, 750 mila palestinesi furono sradicati dalla propria terra stringendo nei pugni le chiavi di casa nella speranza di tornare in un immediato futuro. Oggi, 7 milioni di palestinesi rifugiati ancora possegono quelle chiavi, passate da generazione in generazione, assieme ai ricordi di villaggi rasi al suolo e al sogno di ritornare.

Ed è proprio in occasione del 66simo anniversario della Nakba, letteralmente la Catastrofe palestinese, che si chiede giustizia nel rispetto della risoluzione 194 che prevede il ritorno dei profughi nelle proprie terre.

La pulizia etnica del ’48 non è un evento che si può rilegare alle pagine di storia, come se appartenesse a un passato privo di ripercussioni, è invece solo l’inizio di un processo le cui conseguenze son visibili soprattutto nella cosidetta area C dove è proibito costruire, coltivare o piantare, e dove le case spesso sono soggette a demolizioni e i palestinesi a sfratti. Tutte azioni volte a rendere la vita dei palestinesi impossibile, annientare le loro prospettive future ed alimentare un graduale trasferimento forzato, così da permettere allo Stato d’Israele di acquisire altra terra e rafforzare la politica espansionistica sionista nei territori occupati.

Il 15 maggio 2014, Nadim Nuwara, 15 anni, e Muhammad Abu Thaher, 17 anni, amici e compagni nella lotta di liberazione, si sono ritovati con tanti ragazzi ad Ofer per ricordare la Nakba ma anche per manifestare in sostegno ai prigionieri in sciopero della fame contro la detenzione amministrativa. Sono stati uccisi a sangue freddo dalle Forze d’occupazione israeliane. Son stati uccisi perché avevano in mano un sasso, pericoloso grido di rabbia dei giovani palestinesi, più che minaccia fisica per l’esercito più potente dell’area mediorientale. Il loro corpo è stato trapassato da proiettili sparati da snipers posizionati sopra i tetti a quaranta metri di distanza. Colpiti al petto e al cuore, Nadim è stato trasportato d’emergenza all’ospedale dove è deceduto poco dopo, mentre Muhammad è caduto sul cemento senza più rialzarsi.

Il giorno successivo è stato un venerdì di rabbia in tutta la Palestina per i due ragazzi assassinati. Il corteo funebre che è partito da Ramallah è stato seguito da una marea umana che ha partecipato con commozione intonando canzoni di resistenza palestinese e inni dedicati al sacrificio dei martiri.

In contemporanea, nuovi altri scontri sono scoppiati davanti al carcere di Ofer. Diverse centinaia di persone hanno nuovamente manifestato di fronte alla prigione per tornare nel luogo in cui sono stati uccisi i due ragazzi e per continuare a supportare la campagna ”Acqua e Sale” lanciata a sostegno dei 130 prigionieri palestinesi che da 25 giorni stanno sopravvivendo solo d’acqua e sale come forma di protesta verso la detenzione amministrativa.

Questa pratica permette la detenzione senza accusa né processo sulla base di ordinanze militari che rimangono top secret e sono rinnovabili a tempo indeterminato. Il prigioniero quindi non sa quando verrà rilasciato, in quanto la sua detenzione può essere rinnovata ogni sei mesi fino a durare anni.

Addammeer, associazione palestinese che tutela i diritti dei prigionieri palestinesi, ha già denunciato che Isarele starebbe facendo pressioni sui detenuti in sciopero per costringerli a terminare qui la protesta, isolandoli, legandoli per oltre 10 ore al giorno e negando loro il sale, necessario a difendere lo stomaco. Le richieste dei detenuti vanno dalla fine della detenzione amministrativa al rilascio incondizionato di tutti i prigionieri politici.

Per commemorare la Nakba, manifestazioni di massa si sono tenute in tutti i territori palestinesi. Molto significativa è stata quella che si è tenuta ad Al-Wallajah. La manifestazione organizzata da Badil – Resource Center fo palestinian Residency and Refugee Rights e altre organizzazione palestinesi ha visto la partecipazione di 1000 famiglie e numerosi attivisti internazionali, i quali si son diretti verso la Green Line, la linea di confine riconosciuta internazionalmente tra la Cisgiordania e Israele. La storia di al-Wallajah è fortemente connessa agli eventi del ’48 quando gli abitanti furono costretti ad abbandonare il villaggio originario e le cui terre ora si trovano annesse allo Stato d’Israele. La comunità si è stanziata nuovamente su terra agricola a pochi chilometri di distanza in quella che è diventata la Cisgiordania. Negli anni,  altra terra è stata rubata con la costruzione dell’insediamento di Gilo e Har Gilo, oltre che dalla bypass road riservata solo agli israeliani. La minaccia che oggi deve affrontare Al-Wallajah è la costruzione del muro d’Apartheid che oltre a confiscare altra terra circonderebbe il villaggio chiudendolo in una morsa letale.

La marcia quindi ha voluto rivendicare attivamente il diritto al ritorno ed un gruppo di attivisti ha tagliato parte della rete dove dovrebbe sorgere il muro e ha attraversato l’invisibile ”confine” per mettere piede su quella che era la propria terra. Ciò è stato accolto da un urlo di vittoria da parte di tutti i presenti. L’esercito ha reagito con un fitto lancio di lacrimogeni che ha causato molti casi di soffocamento e con l’arresto di cinque persone. La tenda d’accoglienza, dove erano rimasti principalmente donne e bambini, ad un certo punto è stata circondata dall’esercito il quale ha minacciato di arrestare tutti i presenti. Persino il voler ricordare la propria storia diventa un reato secondo l’occupante.

La Nakba del 2014 forse è meno riconoscibile e più strisciante perché opera attraverso un sistema fatto di piani di evacuazione dorzata, come il Prawer plan, ma soprattutto attraverso demolizioni di case, omicidi impuniti e un sistema legislativo apertamente razzista che vuole rendere la vita quotidiana dei palestinesi impossibile così da poter continuare più agevolmente la sua opera di pulizia etnica. Di fronte a tutto ciò, la communità internazionale, come lo fu nel ’48, rimane muta anche quando la risposta del primo ministro Netanyahu alla Nakba è l’approvazione di una legge che definisce Israele come Stato ebraico, legittimando così la colonizzazione ebraica e, con essa, la pulizia etnica dei palestinesi. Ancora in corso.

(*) Attivista SCI – Servizio Civile Internazionale