La psiche scissa di Israele.

Riceviamo da Al-Awda -Italia e pubblichiamo.

Da Vittorio.

Avevo già notato e apprezzato questo articolo di Carlo Strenger,
apparso sul quotidiano israeliano Ha’aretz il 2 luglio scorso, ma le
incombenze quotidiane mi avevano costretto a metterlo da parte e poi
a dimenticarlo. Per fortuna, ancora una volta, soccorre l’aiuto della
preziosa traduzione del sito Arabnews, riportata qui di seguito.

In questo articolo, Strenger mette bene in evidenza l’anomalia di uno
Stato e di una collettività che, da una parte, formalmente
riconoscono i diritti umani fondamentali e, dall’altra, li negano con
spietata ferocia e determinazione ai Palestinesi che vivono nei
Territori occupati.

Il filosofo ebreo si rende ben conto del profondo degrado morale –
peraltro già da altri segnalato – che la società israeliana
attraversa a causa dell’occupazione e della difesa ad oltranza di
colonie e "avamposti" illegali, e lo ricollega a quella sorta
di "sindrome dell’accerchiamento" che continua ad attanagliare gli
ebrei israeliani (ma anche quelli della diaspora…), facendoli sentire
perennemente assediati e in pericolo di fronte ad un nemico
soverchiante ed ostile, sì da giustificare ogni crimine e ogni
abominio in nome della "sicurezza" di Israele e dei suoi cittadini.

Tale degrado morale, aggiungo io, non si limita peraltro solo
all’occupazione e alle politiche di apartheid praticate nei Territori
palestinesi, ma si estende pericolosamente anche all’interno di
Israele, con il prevalere di pratiche legislative e amministrative
caratterizzate da una palese discriminazione razziale.

Scrive Strenger che "solo quando (noi israeliani) ci sveglieremo al
mattino con la consapevolezza che non ci sono più orrori
indifendibili da mettere a tacere, non più giovani soldati inviati a
compiere un incarico che li segnerà per tutta la vita, e non più
donne palestinesi che perdono i loro bambini solo perché non riescono
a giungere in tempo all’ospedale, noi saremo capaci di superare gli
enormi problemi interni alla nostra società".

Si tratta di un appello accorato su cui ogni persona di buon senso in
Israele dovrebbe riflettere.

Da Haaretz del 2 luglio 2008

La psiche scissa di Israele.

In occasione del convegno annuale sullo "stato della nazione"
organizzato dall’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, il
deputato Avishay Braverman (membro del partito laburista, n.d.t.) ha
lamentato che Israele sta andando in pezzi. Il nostro sistema
educativo, di cui un tempo in Israele s’andava fieri, è allo sfascio;
la corruzione nella pubblica amministrazione è alle stelle; le nostre
università stanno morendo di fame; e il debito pubblico è drammatico
quasi quanto quello del Brasile.

Le lamentele di Braverman riflettono un disagio generalizzato che
pervade lo stato d’animo della popolazione israeliana. Per la prima
volta nella storia di Israele lo scetticismo riguardo alle sue
possibilità di sopravvivenza, le preoccupazioni sul suo sistema di
norme statali, e l’interrogativo se esisterà ancora fra 50 anni,
serpeggiano nella società e nei media. Ciò è strano, se si pensa che
in passato Israele è stato in situazioni di pericolo esterno ben più
gravi, e che oggi le sue risorse economiche e militari sono meglio
sviluppate che mai.

Allora perché Israele è incapace di affrontare i suoi problemi
sociali? Perché gli scandali per corruzione, lo stato penoso del
nostro sistema educativo, o lo stallo della nostra situazione
geopolitica, non portano la gente in piazza? Dopo Sabra e Chatila
l’opinione pubblica israeliana era eccitata: centinaia di migliaia di
persone si mobilitarono per dimostrare in quella piazza dove 13 anni
più tardi Yitzhak Rabin sarebbe stato assassinato. La Commissione
Kahan, nominata a seguito delle pressioni della protesta popolare,
stabilì che Ariel Sharon non era adatto a svolgere il ruolo di
ministro della difesa in futuro.

In passato Israele era certo della sua moralità. Il sentimento
attuale che la società israeliana stia andando in pezzi riflette
invece qualcosa di essenzialmente inedito: Israele non è più certo
dei suoi fondamenti morali. Tale paralisi riflette un diffuso senso
di colpa riguardo al comportamento attuale di Israele. Da un lato
Israele sta facendo un grosso sforzo per dar vita a una società
morale, democratica e creativa; dall’altro, nei Territori occupati
Israele continua a costruire doppi sistemi stradali, a espropriare le
terre palestinesi, a tagliare in due i villaggi palestinesi con il
muro di sicurezza, a impedire alle donne palestinesi di raggiungere
gli ospedali per partorire. Sotto questo aspetto, la psiche
collettiva di Israele ricorda quella di una personalità scissa in
situazione post-traumatica. Gli uomini che hanno subito un trauma, in
genere legato al servizio militare, spesso sono capaci di mantenere
una apparenza di rispettabilità durante il giorno, per poi dare sfogo
a scoppi di violenza apparentemente inspiegabili quando ritornano a
casa la sera.

La psiche collettiva di Israele funziona in modo similare: a partire
dal 1948 poco dopo l’Olocausto, fino al 1967, l’esistenza di Israele
fu realmente in pericolo. Il Paese dipendeva soltanto dal suo valore
in battaglia, mentre disponeva solo di pochi alleati fedeli. Proprio
come se non ci fossimo mai affrancati dal passato, continuiamo ad
agire come se Israele fosse ancora un piccolo e isolato `Yishuv’
(letteralmente `insediamento’; con tale termine si indicano gli ebrei
che risiedevano in Palestina prima della creazione dello stato di
Israele n.d.t.) minacciato di estinzione immediata, e come se ogni
nostra azione fosse giustificata dalla necessità di salvaci la vita.
Israele, come società e come paese, accetta e rispetta il principio
morale dei diritti umani universali. Dentro di noi, sappiamo bene che
è moralmente indifendibile il fatto che causiamo sofferenze a milioni
di palestinesi in Cisgiordania per mezzo degli insediamenti costruiti
in profondità nei Territori. Eppure lasciamo questo che accada.
Badiamo alla nostra convenienza e tentiamo di tacitare la nostra
coscienza dicendo: "Non c’è un interlocutore", o "I posti di blocco
sono necessari per impedire gli attacchi terroristici", o
ancora "Guardate che cos’è accaduto quando abbiamo lasciato Gaza! Ce
ne siamo andati, e tutto ciò che abbiamo ottenuto sono gli attacchi
dei razzi Qassam!"

Mentre l’ultima affermazione ha una qualche validità, tutti i
sondaggi evidenziano che la maggior parte degli israeliani crede che
gli insediamenti all’interno della Cisgiordania mettano a repentaglio
la sicurezza di Israele invece di accrescerla; e anche gli esperti
militari sono di questo parere. E questi insediamenti sono la ragione
principale che è alla base della stragrande maggioranza dei posti di
blocco e degli espropri che rendono la vita impossibile ai
palestinesi, e che hanno portato quasi tutti i palestinesi a ritenere
che Israele, in realtà, non desideri la pace.

C’è solo un modo per porre fine al disagio generalizzato e spazzar
via il timore che Israele sia costruito sulle sabbie mobili. È
rimettere in sesto la spina dorsale di moralità che è stata
danneggiata dalla scissione della psiche israeliana tra una metà
rispettabile che crede nella democrazia e nei diritti umani, e
l’altra metà che insensibilmente e automaticamente continua a violare
tutte le norme in cui tutti noi crediamo. Dobbiamo assolutamente
recuperare la capacità di fare un sincero esame di coscienza per
ritornare a essere responsabili delle nostre azioni.

Io prevedo che la paralisi terminerà nel momento in cui Israele
troverà la volontà politica di dire ai coloni: "noi comprendiamo il
vostro dolore e la vostra rabbia, ma abbiamo fatto un terribile
errore inviandovi nei Territori. La sopravvivenza morale e politica
di Israele dipende dal vostro ritorno a casa".

Solo quando ci sveglieremo al mattino con la consapevolezza che non
ci sono più orrori indifendibili da mettere a tacere, non più giovani
soldati inviati a compiere un incarico che li segnerà per tutta la
vita, e non più donne palestinesi che perdono i loro bambini solo
perché non riescono a giungere in tempo all’ospedale, noi saremo
capaci di superare gli enormi problemi interni alla nostra società.

La psiche israeliana ha bisogno di essere liberata dal fardello
insostenibile della colpa, se veramente vogliamo ritrovare la nostra
capacità di superare le avversità, e la convinzione che abbiamo il
diritto di vivere in questa terra. Solo allora sarà liberata anche la
creatività e l’intraprendenza che riconosciamo nella gestione degli
affari di Israele, nella ricerca e nello sviluppo, nel fiorire della
scena artistica, al fine di creare quella società che tutti noi
desideriamo.

Carlo Strenger, filosofo e psicanalista, insegna presso il
Dipartimento di Psicologia dell’Università di Tel Aviv; è membro del
comitato permanente di monitoraggio sul terrorismo della World
Federation of Scientists

Titolo originale: Israel’s split psyche

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