La relazione di codipendenza tra USA e Israele

israel lobbyPIC. “Dobbiamo guardarci indietro di venticinque anni per realizzare quanto è diminuito il sostegno del mondo verso Israele”, scrisse il celebre studioso ebreo e sociologo dell’università di Harvard Nathan Glazer nel 1976.

Negli ultimi quarant’anni, da quando Glazer scrisse il suo articolo, scoperto e diffuso da Philip Weiss, la perdita di supporto globale di Israele è andata molto oltre. Il Paese, che una volta attraeva sia il capitalismo americano sia il socialismo dell’Unione Sovietica, è, sì, forte dal punto di vista militare, ma politicamente isolato dallo scenario internazionale.

La percezione fuorviante che Israele sia un “faro” tra le nazioni è svanita. Ancor peggio, l’ultima volta che questa frase è stata pronunciata a livello internazionale è stato ad opera di Geert Wilders, un politico danese populista di destra percepito da molti come razzista e islamofobico.

Inoltre, quanto più Israele si isola, quanto più cresce la sua dipendenza dagli Stati Uniti.

“Sostenere Israele non rientra negli interessi dell’America”, scrisse Weiss. “Infatti Israele rappresenta uno svantaggio strategico per gli USA. Questo fa dell’influenza degli ebrei d’America l’ultimo baluardo per la sopravvivenza di Israele”.

Sebbene i sionisti spesso parlino di un legame storico tra gli Stati Uniti e il popolo ebraico, niente può essere più lontano dalla verità.

Il 13 maggio 1939, ad una nave carica di centinaia di ebrei tedeschi fu proibito di raggiungere le coste statunitensi e fu rispedita in Europa.

Quello non fu un caso fortuito di politica estera. Tre mesi prima, nel febbraio 1939, i membri del Congresso avevano rigettato un progetto di legge che aveva lo scopo di permettere a 20.000 bambini ebrei di giungere negli USA dalla Germania al fine di sfuggire alla guerra e al possibile sterminio per mano nazista.

Non solo il Congresso respinse la proposta, ma anche da parte del pubblico non c’era alcun interesse nella questione, dal momento che, a quel tempo, fare entrare gli ebrei negli Stati Uniti era alquanto impopolare.

Andando velocemente avanti di otto decadi, le cose sono cambiate solo nominalmente.

Nonostante la maggior parte degli ebrei americani continuino a sostenere Israele, si oppongono all’amministrazione Trump, da loro giustamente percepita come pericolosa e ostile nei confronti di tutte le minoranze, ebrei inclusi.

Tuttavia, Israele non sembra farsi molti scrupoli con la nuova amministrazione. Al contrario, i più ardenti rappresentanti del movimento sionista israeliano apprezzano particolarmente la combriccola trumpiana composta dai suoi spregevoli politici.

Pochi giorni dopo la vittoria di Trump alle elezioni presidenziali statunitensi, i sionisti americani si sono mossi velocemente per assicurare che gli interessi di Israele fossero salvaguardati in toto dalla nuova amministrazione.

L’Organizzazione Sionista in America non ha sprecato un minuto del suo tempo a fraternizzare con individui accusati di portare avanti programmi contro gli ebrei. Il gala annuale dell’organizzazione ha ospitato, il 20 novembre, nientemeno che Steve Bannon, leader della cosiddetta “al-right” o “destra alternativa” (estrema, ndr), altrimenti conosciuta come “supremazia bianca” negli USA.

Sotto questa leadership, Breitbart, noto esponente del movimento, ha alimentato l’antisemitismo (così come tutte le altre forme di razzismo), come hanno sostenuto Alex Amend e Jonathan Morgan in Alternet.

L’osservare i maggiori dirigenti israeliani e leader della comunità ebraica degli Stati Uniti ospitare – sempre  in maniera così entusiasta – Bannon al gala annuale dell’Organizzazione Sionista d’America risulta per alcuni sconcertante.

Tuttavia i legami di Bannon con i sionisti risalgono a molto tempo prima della sorprendente vittoria di Trump alle elezioni.

In un articolo intitolato “La rete di stranezze di Steve Bannon: incontro con i bizzarri miliardari che stanno dietro al capo stratega del presidente eletto”, Heather Digby Patron ha fatto i nomi di alcuni di questi miliardari. Questi includevano Sheldon Adelson, un miliardario di destra proprietario di un impero del gioco d’azzardo, che “è singolarmente interessato alla questione dello Stato di Israele”.

La relazione di Adelson con Bannon (e Trump) è di gran lunga precedente alla vittoria di Trump, e sembra curarsi poco del fatto che Bannon e la sua cricca siano visti da molti ebrei americani come spaventosi, razzisti, antisemiti e con agende minacciose.

Ad Adelson, tuttavia, poco importa dei veri razzisti. La sua ossessione di proteggere l’agenda militante sionista israeliana ha surclassato tutte le altre apparenti seccature.

Ad ogni modo, il magnate delle scommesse non rappresenta l’eccezione tra tutti i sionisti più potenti negli USA, e, nonostante la retorica ufficiale di Israele, il Paese non prende mai decisioni politiche basate sul bene pubblico della collettività ebraica.

Scrivendo su Mondoweiss, l’International Jewish Anti-Zionist Network ha spiegato: “Dagli zar russi ai nazisti, a Mussolini, all’impero coloniale britannico e alla Destra Cristiana – Sionisti Cristiani -, all’appoggio sionista a Trump, il rinomato e reazionario stratega politico, Steve Bannon, non è un’eccezione”.

Il commentatore israeliano Gideon Levy concorda.

In un articolo pubblicato da Haaretz il 21 novembre, Levy scrisse: “Quando l’amicizia con Israele è giudicata esclusivamente sulla base del sostegno dato all’Occupazione, allora Israele non ha amici se non i razzisti e i nazionalisti”.

Di conseguenza, non è una sorpresa che Adelson stia finanziando massicciamente ricche campagne e sfarzose conferenze per combattere l’influenza del movimento ‘Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni’ (BDS), sostenuto dalla società civile, mentre contemporaneamente complotta contro i palestinesi usando gli stessi elementi americani che considerano la parola ‘Ebreo’ una parolaccia nel proprio lessico sociale.

Mettendo al primo posto Israele e il movimento sionista, questi ricchi individui, potenti lobby politiche, centinaia di esperti, migliaia di reti in tutto il Paese e i loro alleati nella destra religiosa, sono ora i principali e più accaniti sostenitori di ogni questione concernente sia la politica estera statunitense nel Medio Oriente che gli interessi della sicurezza e della politica israeliana.

Senz’alcuna evidenza empirica, del resto, Israele insiste ancora sul legame tra gli interessi americani e il sostegno ad Israele.

Parlando dalla Casa Bianca il 15 febbraio, durante una conferenza stampa congiunta con il Presidente Trump, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ringraziò cordialmente Trump per la sua ospitalità, poi pronunciò queste parole: “Israele non ha miglior alleato degli Stati Uniti. E io vi voglio assicurare che gli Stati Uniti non hanno miglior alleato di Israele”.

Ma era soltanto una mezza verità. Gli USA sono stati, infatti, valorosi sostenitori di Israele, offrendogli oltre 3,1 miliardi di dollari in assistenza finanziaria ogni anno negli ultimi decenni, una somma che è drasticamente salita a 3,8 miliardi di dollari durante la presidenza di Barack Obama. Unitamente a centinaia di milioni in più concessi loro sotto forma di altri aiuti finanziari, di assistenza militare e ‘prestiti’, tutti prevalentemente non tracciabili.

Il peso di Israele non è soltanto finanziario, bensì anche strategico.

 

Sin dalla Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno lottato per raggiungere due principali obiettivi politici in quella zona del mondo: il controllo della regione e delle sue risorse, così come il sostegno dei suoi alleati, mantenendo, al contempo, un livello di ‘stabilità’ tale che gli Stati Uniti sono in grado di condurre i loro business senza alcun impedimento.

Nonostante tutto, Israele resta sul piede di guerra. Le guerre che Israele non poteva combattere da solo hanno richiesto l’intervento dell’America, come nel caso dell’Iraq. Il risultato è stato disastroso per la politica estera statunitense. Perfino i più incalliti uomini dell’esercito iniziarono a notare il cammino distruttivo scelto per difendere Israele.

 

A marzo 2010, il Generale David Petraeus, allora Capo dello United States Central Command, disse al Comitato delle Forze Armate del Senato, durante una deposizione, che Israele era diventata una peso per gli Stati Uniti e che rappresenta una sfida alla ‘sicurezza e alla stabilità’ che la sua nazione mirava a raggiungere.

Sebbene i recenti sondaggi abbiano mostrato che i giovani americani – specialmente tra i sostenitori del Partito Democratico e i giovani ebrei americani – stiano perdendo il loro entusiasmo per Israele e la sua ideologia sionista, la battaglia degli USA per rivendicare la propria politica estera e il senso della morale verso la Palestina e il Medio Oriente sembra essere lunga e ardua.

 

(Traduzione di Giusy Preziusi)