La risoluzione dell’Onu sugli insediamenti: di chi è la vittoria?

consiglio-di-sicurezza-ONUPIC. Di Jamal Juma. Il testo della risoluzione dell’Onu approvata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 23 dicembre scorso è fortemente rivoluzionario: esso riafferma l’illegalità degli insediamenti israeliani. C’è da notare, tuttavia, che la risoluzione riconosce esplicitamente che la politica israeliana degli insediamenti, di fatto consolida, oggi, «una realtà a uno Stato».
Ciò appare evidente a chiunque dia un’occhiata a una mappa della Cisgiordania, che mostra come i palestinesi siano ingabbiati tra il muro dell’apartheid e frammentati dagli insediamenti, da zone militari e da posti di blocco.
Ciò nonostante, questa risoluzione ha spezzato un ostinato mantra diplomatico, secondo il quale si stanno facendo degli sforzi per «lavorare a una soluzione a due stati», camuffando la realtà delle politiche di annessione israeliane, dei trasferimenti di popolazione e di altri crimini internazionali.
E’ interessante notare, però, che oltre all’usuale richiesta al segretario generale dell’Onu di relazionare regolarmente al Consiglio di sicurezza sull’argomento, l’unica richiesta concreta della risoluzione alla comunità internazionale è un pronunciamento sugli Stati, «per distinguere, nei loro rapporti, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967».

Ciò ribadisce gli obblighi legali già invocati dalla Corte di Giustizia internazionale nel 2004, durante le direttive sulla costruzione del muro israeliano in Cisgiordania.
Una risoluzione del Consiglio di sicurezza del 1980 si spinse oltre, e richiese agli Stati di «non fornire a Israele alcuna assistenza che possa essere rilevante (sic) agli insediamenti nei Territori occupati». Due anni più tardi l’Assemblea generale aprovò una risoluzione che richiedeva un pieno embargo militare e sanzioni economiche e diplomatiche a Israele.
Purtroppo, né la Corte di Giustizia internazionale né alcune delle centinaia di risoluzioni dell’Onu – 18 delle quali emesse nel solo 2016 – a supporto dei diritti dei palestinesi sono riuscite a far cambiare le politiche israeliane. Neppure quest’ultima risoluzione ha in sé il carattere dell’obbligatorietà.

La reazione di Israele

I media e i politici israeliani definiscono la risoluzione una «disgrazia», e la considerano un nemico contro il quale far fronte comune. Nel frattempo funzionari israeliani l’hanno considerata un appoggio per il boicottaggio, e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rassicurato con aria di sfida i coloni israeliani, dicendo loro che Israele ignorerà la risoluzione, la qual cosa sorprende poco considerate tutte le precedenti risoluzioni Onu ignorate sull’argomento.
Questo dramma nasconde il fatto che in realtà la risoluzione conviene a Netanyahu; essa infatti distoglie l’attenzione dalla disputa sulle tattiche usate da Israele per far avanzare i propri progetti di insediamento, che ha recentemente diviso il governo e il partito del Likud.
Questa divisione è stata scatenata dallo spostamento imminente dell’insediamento di osservazione di Amona alcune centinaia di metri più lontano dal luogo originario, in ciò che Israele considera «terra statale», ben all’interno della Cisgiordania occupata.
Israele ha usato fin dall’inizio escamotage legali – giochi di prestigio – per espropriare i palestinesi senza violare esplicitamente i diritti alla proprietà privata. Una proposta di legge, che mira a cambiare tattica legalizzando la pratica di costruire insediamenti su ciò che Israele definisce «proprietà privata palestinese», ha causato una violenta discussione tra i partiti israeliani. Questa crisi irrisolta è stata per il momento accantonata grazie alla risoluzione sugli insediamenti.

Una vittoria per tutti?

Tutti i principali protagonisti hanno qualcosa da vincere. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon ha definito la risoluzione «un passo significativo che dimostra quale sia la leadership più richiesta del Consiglio». In un momento in cui l’Onu non è capace di tener fede al proprio proposito di mantenere la pace internazionale e la sicurezza nel mondo, questa risoluzione su un argomento fondamentale sembra dare un po’ di respiro.
L’amministrazione Obama può a sua volta ritenere di aver dimostrato carattere nei confronti di Netanyahu dopo anni di provocazioni diplomatiche da parte israeliana. Ma, considerata la frase pronunciata da Trump: «Le cose cambieranno dopo il 20 gennaio», l’asse israelo-statunitense sicuramente non si indebolirà nel prossimo futuro.
Anche la Francia può celebrare dato che la risoluzione appoggia esplicitamente l’iniziativa francese per un’ulteriore conferenza di pace. L’iniziativa, alla quale si oppone innanzitutto Israele, manca di prospettive di risultato reali, se non quelle di far crescere il prestigio diplomatico globale della Francia stessa. Inoltre la risoluzione riflette – anche in termini di trattamento differenziale degli insediamenti – le posizioni dell’Unione Europea. Perciò ci sono poche possibilità che qualcosa cambi nelle politiche europee con Israele.
Solo il Senegal sta ora affrontando conseguenze negative. Dopo l’appoggio dato alla risoluzione, Israele ha ordinato la cessazione di programmi di aiuto attivati con il paese africano.

Il popolo palestinese

L’Autorità palestinese (Anp) ha festeggiato la risoluzione come «giorno della vittoria». La diplomazia Onu è divenuta ultimamente uno strumento di legittimazione per l’Anp, e un modo per conservare la pantomima della soluzione a due stati, continuando ad agire come un guardiano delle enclavi che Israele ha ritagliato per il territorio palestinese.
Ma poiché la comunità internazionale ammette che i palestinesi stanno per affrontare un futuro di apartheid a uno stato, imposto da Israele, questa strategia potrebbe essere a rischio.
L’aperta ammissione dell’annessione de facto del 60% della Cisgiordania tramite le imprese colonizzatrici israeliane, muro compreso, evidenzia inevitabilmente che l’Anp è diventata una struttura che non ha più nulla su cui esercitare un’autorità. Ciò mette in dubbio la mera ragione di esistere dell’Anp.
Ogni nuova risoluzione approvata all’Onu fa aumentare la pressione sull’Anp, non solo nel festeggiare votazioni diplomatiche, ma nell’utilizzarle come un mezzo per assicurarsi che misure efficaci, comprese le sanzioni e il boicottaggio, vengano prese contro le attività di insediamento e le violazioni dei diritti umani da parte israeliana, e che i responsabili vengano riconosciuti tali a livello internazionale. Ciò a sua volta comporta il rischio che Israele demolisca l’Anp.
Il popolo palestinese ha in gran parte ignorato la risoluzione, in quanto impegnato a cercare di sopravvivere e a resistere all’occupazione israeliana, alla continua espansione degli insediamenti, alle demolizioni di abitazioni e alle confische di terreni, al brutale assedio di Gaza e a un regime di segregazione ormai completamente avviato. I palestinesi sanno che anche un’ulteriore risoluzione di condanna verso Israele non farà la differenza.
Questa risoluzione e il modo in cui è stata accolta è in realtà una replica della promozione che era derivata dall’opinione consultiva della Corte di Giustizia internazionale nel 2004. Dopo che l’opinione consultiva affermò l’illegalità del muro e chiese l’obbligo internazionale a non riconosce, a non aiutare e a non assistere Israele nella grave violazione del diritto internazionale, Israele e i propri lobbisti considerarono il fatto un disastro nazionale. La campagna Stop the wall ha ritenuto, a suo tempo, che solo uno sforzo globale avrebbe assicurato un impatto significativo alla decisione della Corte di Giustizia internazionale.
Come previsto il solo seguito offerto dall’Onu fu l’istituzione di un ufficio che registra i danni connessi con il muro stesso. Al primo anniversario della campagna della Corte internazionale la società civile palestinese pubblicò una richiesta di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) contro Israele.
Da allora, insieme ad organizzazioni, movimenti e attivisti di tutto il mondo, abbiamo costruito un movimento potente, capace di far pressione su multinazionali, istituzioni e governi per porre fine all’aiuto e all’assistenza a Israele nelle violazioni dei diritti umani. Oggi il movimento Bds è considerato da Israele come una delle maggiori sfide al proseguimento delle sue politiche di segregazione e di occupazione.
Se questa risoluzione avrà degli effetti, la gente in tutto il mondo deve garantire che la promessa della risoluzione stessa di «esaminare metodi pratici e mezzi per assicurare la piena implementazione dei propositi elencati» si traduca in sanzioni a Israele.
E’ una responsabilità lasciata alla gente esercitare le pressioni necessarie affinché questa risoluzione possa essere un passo verso la realizzazione delle risoluzioni Onu approvate nel 1980 e nel 1982. La richiesta di sanzioni, 35 anni fa, derivò dall’annessione di Gerusalemme est e delle alture siriane del Golan. Ora che Israele ha quasi completato l’annessione effettiva della Cisgiordania, l’azione è urgente e tardiva.

Traduzione di Stefano Di Felice