Land grabbing israeliano nei TO: devastazione ambientale, saccheggio delle terre coltivate, politiche coloniali di demolizione

Land grabbing israeliano nei Territori Palestinesi Occupati: devastazione ambientale, saccheggio delle terre coltivate, politiche coloniali di demolizione. lReport 2020

Di Lorenzo Poli, per InfoPal.

Irrorazione di pesticidi israeliani nei campi gazawi.

I rapporti di fonte palestinese sui pesticidi israeliani che distruggono l’agricoltura di Gaza sono comparsi per la prima volta alla fine del 2014. A fine 2015 il portavoce dell’esercito israeliano ha confermato al sito web +972 che si stava effettuando l’irrorazione di pesticidi. Ad oggi né l’Israeli Defence Force né il Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori[1] fanno parola sull’argomento. Secondo il ministero della Difesa israeliano, “l’irrorazione viene eseguita da compagnie debitamente autorizzate in base alla legge del 1956 relativa alla protezione delle piante” o addirittura, si afferma che è necessario spruzzare periodicamente per distruggere la vegetazione che oscura la visione dei soldati israeliani nella zona e che consente ai “terroristi” di nascondersi.

L’irrorazione di erbicidi e pesticidi è a base di componenti chimici come il glifosato, l’oxifluorfen e il diuron, ovvero gli stessi che vengono usati in Israele, ignorando i rischi ambientali e per la salute. Sebbene i pesticidi siano identici sia a Gaza sia in Israele, l’impatto sulla popolazione è diverso a livello economico. Un raccolto distrutto a causa di prodotti chimici può impedire ad una famiglia palestinese di permettersi un paio di scarpe.

Molte famiglie palestinesi con i lavori agricoli mantengono una continuità, nonostante siano rifugiati ed abbiano perduto le loro terre, come nel caso di Salama su cui Israele ha costruito la colonia illegale di Kfar Shalem. Intanto Israele mantiene la continuità danneggiando le loro fonti di reddito e la loro salute. Negli ultimi anni centinaia di famiglie gazawi hanno imparato a temere i piccoli aerei civili che in primavera, in autunno, a volte anche in inverno, per diversi giorni, al mattino, sorvolano la barriera di separazione. Le loro emissioni sono trasportate dal vento verso occidente, attraversano il confine e raggiungono i campi di Gaza

L’esercito israeliano ed il ministero della Difesa sanno che queste sostanze chimiche irrorate vengono trasportate dal vento. Il danno sistematico portato ai raccolti palestinesi dall’irrorazione ha lo scopo di distruggere i raccolti. L’esercito israeliano a Gaza decide ed il ministero della Difesa paga le compagnie aeree civili, come Chim-Nir e Telem Aviation, per diffondere i pesticidi al di sopra della barriera di confine. Un’altra forma di guerra contro la salute e il benessere dei palestinesi, e tutto sotto la logora copertura della sicurezza.

I pesticidi hanno danneggiato 14.000 dunum di terra agricola a Gaza dal 2014 al 2018, distruggendo tutte le colture seminate lì, afferma il ministero dell’Agricoltura Palestinese.

Nel gennaio 2020, l’esercito israeliano ha ripreso a spruzzare pesticidi lungo il confine della Striscia di Gaza per tre giorni, dopo essersi astenuto per tutto il 2019. Alla domanda sul perché l’irrorazione è ripresa dopo una pausa di un anno, il Ministero ha risposto: “La spruzzatura aerea viene effettuata di volta in volta in base alle esigenze di sicurezza, ma esclusivamente all’interno del territorio di Israele”.

Il 16 gennaio 2020, le organizzazioni per i diritti umani Gisha, Adalah e Al Mezan hanno inviato una lettera all’allora ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett, all’avvocato generale Sharon Afek e al procuratore generale Avichai Mandelblit con una richiesta urgente di astenersi dal condurre ulteriori irrorazioni aeree di erbicidi all’interno e vicino alla Striscia di Gaza a causa dei gravi danni alle colture e dei rischi per la salute per i residenti di Gaza. Nella risposta, l’ufficio dell’avvocato generale militare ha confermato che le sostanze chimiche utilizzate erano effettivamente erbicidi e ha affermato che era stata introdotta una nuova sostanza chimica per frenare la diffusione degli erbicidi in profondità nella Striscia di Gaza.

La documentazione di Al Mezan indicava tuttavia che i prodotti chimici spruzzati danneggiavano le colture a una distanza di almeno 600 metri dalla barriera perimetrale, con un’area totale di danni ai terreni coltivati ​​che superava i 280 ettari. Almeno 350 agricoltori palestinesi hanno subito perdite finanziarie, collettivamente superiori a 1 milione di dollari, a seguito dell’irrorazione di gennaio.

Molti agricoltori gazawi riferivano che non hanno avuto alcun preavviso, ricordando come queste irrorazioni abbiano portato alla perdita di decine di dunum di grano, orzo e prezzemolo. Gli agricoltori palestinesi hanno dichiarato a Haaretz che il 2019, quando non c’è stata alcuna irrorazione, è stato un anno eccellente per i raccolti.

Un rapporto di Forensic Architectur[2] del 2019 ha confermato che i pesticidi spruzzati su Israele si diffondono anche a Gaza, raggiungendo una distanza di oltre 300 metri dalla barriera di confine. Il rapporto ha integrato testimonianze palestinesi, riprese video dell’aprile 2017, fotografie satellitari, dati su tempo e direzione del vento, test di laboratorio sulle foglie danneggiate e sulla composizione chimica del terreno.

Il contratto del ministero della Difesa, con le società che effettuano l’irrorazione, impone alla compagnia di alzare bandiere e bruciare pneumatici per controllare la direzione del vento prima di iniziare a spruzzare (altra attività inquinante). Quindi vuol dire che Israele sa dove cadono le irrorazioni sfruttando il vento per colpire i raccolti palestinesi.

Il Coordinamento israeliano delle attività governative nei Territori (COGAT) aveva dichiarato a gennaio che i pesticidi utilizzati lungo il confine non danneggiano né la terra né gli esseri umani, poiché i pesticidi sono spruzzati da aerei a bassa quota per garantire che vadano solo dove dovrebbero andare, ha aggiunto, e gli spruzzatori tengono conto della direzione del vento. Poco dopo, il ministero dell’Agricoltura palestinese aveva pubblicato una risposta denunciando le “bugie” del COGAT, esortando i media palestinesi a diffondere il comunicato.

Il 9 aprile il Centro legale per la libertà di movimento, il Centro per i diritti umani Al Mezan e Adalah – Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele hanno inviato una lettera urgente alle autorità israeliane chiedendo un immediato blocco dell’irrorazione aerea di erbicidi sulla Striscia di Gaza orientale, dopo che il 5 aprile, aerei israeliani hanno volato lungo il confine che separa Gaza e Israele, spruzzando sostanze chimiche che si presume fossero erbicidi, colpendo prima le zone orientali del distretto della città di Gaza, poi a sud, sulle aree orientali del distretto di Gaza centrale. Nello stesso periodo i palestinesi gazawi stavano vivendo la crisi sanitaria da coronavirus e cercavano di prevenire lo scoppio della pandemia tra la popolazione.

Questa è solamente una piccola parte dell’enorme campagna israeliana di greenwashing: mostrarsi un Paese avanzato nello sviluppo eco-sostenibile e nelle tecnologie per la sostenibilità ambientale, per coprire la sua repressione d’apartheid, le sue monocolture intensive che richiedono il surplus di pesticidi tossici, la devastazione ambientale e l’esproprio delle terre coltivate palestinesi, l’esproprio delle risorse idriche e la devastazione violenta degli uliveti palestinesi.

Devastazione ambientale del Negev e il greenwashing israeliano.

La trasformazione del Negev in un “paradiso terrestre” è un brand che Israele ripropone da anni per mostrare come la tecnologia eco-sostenibile sia messa al servizio di zone desertiche, come finalmente si possano far sbocciare i fiori nel deserto e come si possano sviluppare orti molto produttivi che vengono studiati da imprenditori e studenti di agraria in tutto il mondo per esportarne le biotecnologie. In nome dello “sviluppo eco-sostenibile”, però, Israele ha trasformato il “deserto” in una immensa serra in barba a tutto il delicato ecosistema del deserto, provocando una forte crisi ecologica ed idrica nel Negev, zona arida e inospitale e che, solo grazie ad anni di studi e sperimentazioni, i ricercatori israeliani hanno potuto trasformarlo in una delle principali zone agricole. Questa falsa “eco-sostenibilità” ha portato a gravi problemi per l’ambiente, l’acqua e altre risorse naturali sia in termini economici e sia in termini di eco-sostenibilità poiché, come ci insegnano gli studi di ecologia sociale, non è per niente ecologico trasformare un territorio naturalmente arido in territorio artificialmente fertile.

Operazioni di greenwashing, ovvero “dipingere come ecologico ciò che ecologico non è”, da parte di Israele, si è visto anche nella proposta di continuare la piantumazione del Negev con il fine di negare le terre ai beduini palestinesi. Secondo l’Israel Land Authority il piano, che interessa 40.000 dunum, servirebbe a “preservare gli spazi aperti e la natura dal controllo illegale”, cosa che risulta illogica dal momento che il Negev è stato tolto dal controllo delle popolazioni beduine locali già da molti anni, concentrandolo nelle mani degli occupanti israeliani.

In linea con la devastazione ambientale, con la crisi idrica che il lago di Tiberiade vive da molti anni per la “fertilizzazione” del Negev, Israele usa strumentalmente il “progresso eco-sostenibile” per una nuova piantumazione di una parte del Negev con il fine di negare ai residenti beduini palestinesi l’accesso alle loro terre, alcune delle quali oggetto di azioni legali riguardo la proprietà e alcune delle quali sono utilizzate per l’agricoltura. Sebbene la Society for the Protection of Nature in Israel (SPNI) ha affermato che questa mossa avrebbe anche ripercussioni distruttive e impattanti per l’ambiente tipico del deserto, il 13 luglio, il Comitato Interministeriale di Coordinamento ha discusso il piano che ha approvato. Israel Skop, della Israel Land Authority, ha diretto la commissione che Israele ha voluto per l’approvazione di tutti i progetti di “impianti agricoli”, da quando è stata presentata la petizione di SPNI all’Alta Corte di Giustizia contro le piantumazioni anti-ecologiche dell’ILA e sulla base della violazione delle procedure di pianificazione.

In quelle settimane è stato svolto un lavoro nelle vicinanze del villaggio beduino, non ancora riconosciuto ufficialmente, di Hirbat Al-Watan, a est di Tel Sheva, dove vivono 4.500 persone. La piantumazione del Negev è sempre stata una costante, ma ora il Comitato ha deciso di iniziare a piantare alberi solo in alcune terre.

In questo caso, i residenti si sono rivolti al ministro dell’Economia e dell’Industria Amir Peretz, che è responsabile dell’Authority for Development and Settlement of the Bedouin, il quale si è inutilmente attivato per fermare i lavori dal momento che l’ILA ha l’autorizzazione per continuarli.

I lavori sono stati interrotti, poi ripresi e poi successivamente interrotti dopo le proteste delle comunità beduine, ma ciò non ha fermato l’ira di Bezalel Smotrich, il parlamentare di estrema destra che ha subito chiesto spiegazioni al primo ministro Netanyahu per l’interruzione di “un atto sionista di impareggiabile importanza”. Ovviamente il danno ecologico dato dalla piantumazione e la negazione delle terre ai beduini palestinesi sono coperti dalla grande immagine pubblicitaria dello “sviluppo tecnologico eco-sostenibile”.

 

Devastazione e saccheggio degli uliveti palestinesi

Israele in questi anni ha usato la retorica della riforestazione del paesaggio, della creazione di banche del germoplasma, della resa fertile dei terreni aridi e dei 240 milioni di alberi piantati in 70 anni, mentre allo stesso tempo ha incrementato la devastazione degli uliveti palestinesi. La raccolta delle olive è la principale fonte di reddito per migliaia di famiglie palestinesi nei Territori Occupati, ma devono affrontare molti ostacoli a causa dell’occupazione israeliana, tra cui le restrizioni imposte da Israele ai contadini per accedere alla terra e gli attacchi dei coloni.

Centinaia di migliaia di ebrei vivono in 250 colonie nei Territori Palestinesi Occupati e rendono la vita molto difficile ai palestinesi che vivono sotto la brutale occupazione militare israeliana fin dal giugno 1967, quando Israele ha occupato la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Dal 2000 i coloni, le Israeli Occupation Force (IOF) e la Israeli Occupation Autority (IOA) attaccano ripetutamente terreni e proprietà agricole palestinesi in Cisgiordania e costringono i palestinesi ad uscire dalla loro terra. I coloni, con il supporto delle IOF, sabotano la stagione della raccolta delle olive palestinesi, privando i palestinesi delle loro fonti di reddito, bruciando, tagliando, sradicando e avvelenando, ancora oggi, centinaia di migliaia di ulivi palestinesi.

Quasi 1.600 alberi sono stati danneggiati dai coloni israeliani nella Cisgiordania occupata da gennaio a marzo 2020, secondo quanto affermato dall’agenzia OCHA delle Nazioni Unite.

Significativo è stato il taglio di una cinquantina di ulivi appartenenti a contadini palestinesi nel villaggio di al-Sawiya, a sud della città di Nablus, in Cisgiordania. Ghassan Daghlas[3] ha riferito ai corrispondenti di WAFA che coloni israeliani di Rahalim[4] sono responsabili dell’azione.

La cittadina di al-Sawiya è una delle aree della Cisgiordania che più è stata colpita dalla violenza israeliana e dall’espansione delle colonie.

A febbraio coloni israeliani hanno sradicato centinaia di ulivi e viti nella cittadina di al-Khader, a sud della città occupata di Betlemme, in Cisgiordania, ed altri coloni israeliani di Eliazar hanno sradicato circa 200 ulivi e 80 viti da terre palestinesi vicino alla colonia.

Fin da inizio anno i coloni hanno sempre più attaccato i villaggi palestinesi, in particolare quelli vicini alle colonie, spianando terre, sradicando alberi ed impedendo agli agricoltori l’accesso ai loro terreni.

Tutte le colonie israeliane sono illegali ai sensi del diritto internazionale, in base all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, tuttavia questo non sembra interessare.

Tra il 3 e il 16 marzo, i coloni israeliani hanno danneggiato almeno 385 alberi e veicoli di proprietà palestinese in Cisgiordania. Tre di questi attacchi hanno coinvolto coloni che hanno abbattuto o sradicato circa 200 ulivi e 150 viti “appartenenti ad agricoltori dei villaggi di al Khader e Khallet Sakariya, piantati vicino alla colonia di Gush Etzion (Betlemme), e 35 ulivi vicino alla colonia di Bruchin (Salfit)”. I coloni israeliani, dopo aver distrutto più di 200 ulivi, hanno spianato e arato le terre per nascondere le prove del crimine commesso.

Nonostante il lockdown per l’emergenza sanitaria da Covid-19, la Cisgiordania ha visto un notevole aumento degli attacchi dei coloni israeliani contro i cittadini palestinesi e le loro proprietà. Non a caso ad aprile, gruppi di coloni israeliani hanno tagliato decine di ulivi di proprietà palestinese sempre nella cittadina di al-Sawiya. Fonti locali, in quel periodo, riportavano che israeliani provenienti dalla colonia illegale di Rahalim hanno distrutto 33 ulivi di proprietà del cittadino palestinese Hamad Hijazi. Secondo le statistiche ufficiali, oltre il 60% dei terreni locali sono stati utilizzati dalle autorità israeliane per costruire o espandere colonie.

Sempre ad aprile si sono verificate incursioni coloniali nel villaggio di al-Sawiya in cui coloni israeliani hanno tagliato decine e decine di ulivi. L’attivista anti-insediamento Ghassan Daghlas ha affermato che un gruppo di coloni di Rahalim ha attaccato un terreno agricolo di proprietà del cittadino palestinese Abed al-Rahman Yousef, abbattendo circa 40 ulivi.

Mentre i palestinesi rimanevano a casa nella Cisgiordania occupata, su richiesta del ministero della Salute per prevenire la diffusione del coronavirus, i coloni israeliani hanno continuato a fare irruzione nei loro villaggi, attaccando le loro case, i terreni agricoli e distruggendo i loro raccolti, mettendo in ginocchio l’economia di sussistenza palestinese.

Agli inizi di maggio diversi coloni israeliani hanno invaso un oliveto palestinese, a sud di Nablus e hanno tagliato più di 40 ulivi. Secondo Ghassan Daghlas sono gli stessi che nello stesso periodo hanno invaso un frutteto nella zona di Ras ad-Deir, nel villaggio di Yitma, a sud di Nablus, dove hanno quindi tagliato più di 40 ulivi, di proprietà di un palestinese, identificato come Mohammad Nassim Najjar, per un totale di 80 ulivi tagliati. Oltre all’attacco dei coloni a Nablus, il sabato seguente coloni israeliani della colonia di Givout, situata all’interno di Gush Etzion, hanno anche abbattuto 40 ulivi di proprietà di tre fratelli ed un altro residente locale nella cittadina di Nahalin, ad ovest di Betlemme, nella Cisgiordania meridionale, secondo quanto affermato da Hani Fannoun, vice-sindaco di Nahalin (fonte: Wafa News).

Gli attacchi fanno parte delle continue e crescenti violazioni israeliane contro i palestinesi, le loro case ed i loro frutteti in diverse parti della Cisgiordania occupata.

A inizio giugno un gruppo di coloni israeliani si è infiltrato in terreni agricoli palestinesi nella zona meridionale di Burin[5] e ha abbattuto circa 36 alberi di ulivo di proprietà del cittadino palestinese Naser Qadus. Secondo fonti palestinesi non è la prima volta che i coloni abbattono ulivi di proprietà di Qadus. Nello stesso giorno i coloni hanno dato fuoco ai campi di grano nello stesso villaggio, ma l’incendio è stato rapidamente spento dai cittadini palestinesi.

Agli inizi di luglio, le IOF hanno sradicato decine di ulivi di proprietà palestinese, nel villaggio di Yasuf[6], nel distretto di Nablus, in Cisgiordania, con lo scopo di costruire una strada esclusivamente per coloni. I residenti locali hanno affermato che questa mossa è solo un preludio alla confisca di vasti tratti di terra palestinese a Yasuf e nei villaggi vicini per finire la nuova strada. Secondo le stime, con questo pretesto, verranno sradicati circa 3.000 ulivi. Le popolazioni palestinesi locali considerano questa nuova strada un progetto “pericoloso” che contribuisce a trasformare le colonie israeliane isolate nella zona meridionale di Nablus in grandi città, le quali minerebbero gli sforzi per la creazione di uno Stato palestinese.

Dopo pochi giorni da quegli attentati, fonti dirette di al-Khalil/Hebron hanno riferito che un’orda di coloni estremisti provenienti dalla colonia di Kiryat Arba hanno distrutto un uliveto di proprietà della famiglia palestinese Yousef Ismail, tagliando circa 70 ulivi di età superiore ai 20 anni nella zona di al-Uddeisa, a sud della cittadina di Sair[7]. Durante questo attacco, i soldati israeliani hanno anche fornito protezione ai coloni e si sono scontrati con i residenti locali dopo che questi sono intervenuti e hanno cercato di prevenire la distruzione di ulteriori ulivi.

Tra il 20 e il 21 luglio, i bulldozer delle Forze di Occupazione Israeliane (IOF) hanno demolito una casa di proprietà del cittadino palestinese Radi Tawfiq, situata a Qarawat Bani Hassan, per presunta costruzione senza licenza, e hanno abbattuto decine di ulivi a Salfit, nel nord della Cisgiordania. Durante la demolizione sono scoppiati scontri tra i soldati e i giovani locali, e le IOF hanno lanciato bombe lacrimogene, granate stordenti e proiettili di metallo rivestiti di gomma. Fortunatamente non sono stati segnalati feriti, ma nel frattempo le forze israeliane hanno demolito vaste distese di terreni agricoli palestinesi e distrutto circa 200 ulivi nel villaggio di Deir Istiya[8].

Nei primi giorni di agosto un gruppo di israeliani della colonia di Burkhin ha invaso il terreno agricolo di Zaher Taha e ha abbattuto 15 ulivi che aveva piantato 4-6 anni fa nella cittadina di Kafr ad-Dik, nel distretto di Salfit. Taha ha affermato che non è il primo attacco di questo tipo, spiegando che le bande di coloni attaccano costantemente il suo terreno agricolo. Infatti il contadino palestinese era già stato vittima nel 2011, quando le forze d’occupazione israeliane distrussero parte delle sue attrezzature e demolirono un pozzo d’acqua di oltre 100 anni che usava per l’irrigazione. Gli attacchi coloniali contro i cittadini palestinesi e le loro proprietà sono all’ordine del giorno in Cisgiordania e raramente vengono indagati dalle autorità israeliane.

A settembre, coloni sionisti degli insediamenti vicini hanno sradicato e rubato 45 ulivi dalla cittadina di Turmus’ayya[9], a nord-est di Ramallah. Non a caso i coloni intensificano i loro attacchi contro i palestinesi e la loro terra ogni volta che la stagione della raccolta delle olive si avvicina. L’olivo è l’obiettivo principale di quegli attacchi. Secondo i dati del Consiglio municipale, l’area totale di Turmus’ayya è di 18mila dunum[10] di cui 3.000 dunum sono il piano strutturale della città e 4.000 sono pascoli e campi coltivati ​​a ortaggi. Gli insediamenti coloniali hanno sottratto circa 7000 dunum di terre di Turmus’ayya. Dal lato settentrionale della città si trovano l’insediamento di Shilo e l’insediamento di Shvut Rachel, e sul lato nord-orientale c’è quello di Adi Ad che si disloca sulla maggior parte delle montagne orientali della città di Turmus’ayya. La presenza degli insediamenti illegali ha impedito, da Nord, ai cittadini palestinesi di espandersi e, da Est, ha convertito gran parte delle terre coltivate a olivi in ​​zone militari chiuse con accesso previa autorizzazione dell’Amministrazione Civile Israeliana.

Il 9 settembre i bulldozer israeliani hanno sradicato 22 ulivi in un boschetto palestinese nel villaggio di Ras Karkar, ad ovest di Ramallah, nella Cisgiordania occupata. Secondo fonti locali, l’area presa di mira era quella di Ras Abu Zeitun, a nord-est del villaggio, al fine di costruire una strada sterrata per i coloni, e i soldati israeliani hanno anche impedito agli agricoltori locali di raggiungere i loro boschi e le loro terre.

Il 19 settembre, l’esercito israeliano ha spianato con i bulldozer 200 alberi di diverso tipo appartenenti ad un palestinese di Biddya, ad ovest di Salfit. Mentre il 23 settembre, secondo testimoni osculari, i coloni hanno invaso un uliveto, scortati dai soldati israeliani, e hanno devastato un uliveto nel villaggio di Khilat Hassan[11].

Il 30 settembre, Muhammad Sabateen, il capo del Consiglio di Husan, ad ovest della provincia di Betlemme, ha dichiarato che le IOF hanno sradicato decine di ulivi dopo aver livellato nell’area di Khirbet Hammouda, ad ovest del villaggio. Secondo le stime, l’area distrutta è di tre dunum. Le IOF hanno anche demolito un pergolato ed un muro di contenimento del cittadino palestinese Adel Saadi Shousha, sostenendo che le terre in questione sono sotto la sovranità israeliana e che ai palestinesi è vietato entrarvi o rivendicarle.

Il 9 ottobre, come riporta l’agenzia di stampa SAFA, un colono israeliano ha lanciato molotov contro uliveti di proprietà palestinese nella zona occidentale del villaggio di Safa, dando fuoco a centinaia di alberi. Le fiamme sono continuate per oltre tre ore, poiché le forze d’occupazione israeliane hanno impedito ai residenti locali e ai proprietari terrieri, i cui boschetti si trovano dietro il Muro dell’Apartheid, di entrare nell’area per spegnere l’incendio e salvare gli alberi. Tuttavia, dopo che le fiamme avevano iniziato a diffondersi verso la colonia di Kfar Ha’oranim[12], le autorità israeliane hanno utilizzato aerei per controllare il fuoco.

Oltre ad episodi di devastazioni non mancano episodi di inquinamento volontario dei campi palestinesi da parte dei coloni israeliani, facendo subire ai proprietari palestinesi in Cisgiordania ingenti perdite finanziarie.

Il 19 ottobre coloni israeliani hanno inondato terreni di proprietà palestinese con acque reflue nel villaggio di Deir al-Hatab, nel governatorato di Nablus, interrompendo la raccolta locale delle olive. Secondo Ghassan Daghlas, i coloni di Elon Moreh sarebbero i responsabili per l’inondazione e per aver danneggiato gli alberi, minacciando il raccolto di quest’anno.

Il 22 ottobre coloni dell’insediamento illegale di Eli hanno aperto canali di scolo delle acque reflue e allagato zone di terreno agricolo, per lo più coltivate a ulivi nel villaggio di al-Lubban ash-Sharqiya[13]. Nella stessa giornata di giovedì, un’orda di coloni ha sparso chiodi di ferro sulla strada che porta all’area di al-Karm al-Gharbi, nel villaggio di Qaryut, per sabotare i veicoli palestinesi che passano e ostacolare il loro movimento.

Il 26 ottobre, coloni israeliani di Adi Ad[14] hanno sradicato, secondo fonti locali, più di 100 alberi di ulivo vicino a al-Mughayyir[15], mentre le IOF hanno distrutto terreni agricoli nell’area di Al-Marhat[16], estirpando ulivi, filari di vite e fichi. Fonti locali hanno dichiarato che le ruspe israeliane, sotto la protezione dei soldati IOF, hanno preso d’assalto l’area e hanno distrutto aree agricole, di proprietà di Ziad Zuhd, a Salfit.
Diversi paesi e villaggi nella provincia di Salfit hanno assistito alla crescita delle attività di insediamento in quelle settimane, in concomitanza con la settimanale repressione di tutte le attività che si oppongono all’occupazione sionista.
Nella provincia di Salfit ci sono 18 comunità palestinesi, a fronte di 24 insediamenti tra quelli residenziali e industriali. La percentuale di terre assegnata alle costruzioni palestinesi a Salfit è, oggi, di circa il 6% dell’area totale, a fronte di quella utilizzata dai coloni che è del 9%.
Le autorità di occupazione israeliane espandono i propri insediamenti, creando solo zone ebraiche (fenomeno conosciuto come “ebraicizzazione degli insediamenti”) e le collegano a impianti d’acqua, elettrici e fognari, per formare un blocco di insediamenti che controlla il 70% delle terre di Salfit.
L’ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha affermato, in un rapporto sulle violazioni israeliane nei Territori occupati, che la stagione palestinese della raccolta delle olive, iniziata il 7 ottobre, è stata interrotta da persone “ritenute o confermate come coloni israeliani in 19 incidenti”. Il rapporto ha affermato che “23 agricoltori palestinesi sono rimasti feriti, oltre 1.000 ulivi sono stati bruciati o danneggiati in altro modo e grandi quantità di prodotti sono stati rubati”. La maggior parte di questi sono avvenuti in Cisgiordania, nel periodo che va dal 12 al 25 ottobre, nelle vicinanze della città di Ramallah, afferma il rapporto, osservando che i coloni “hanno […] aggredito fisicamente i raccoglitori di olive palestinesi in tre occasioni, scatenando scontri”.

Le forze d’occupazione israeliane, ha affermato l’OCHA, “sono intervenute in uno degli scontri, ferendo 14 palestinesi e bruciando 30 alberi con i lacrimogeni”. Il rapporto ha aggiunto: “Accanto alla colonia israeliana di Mevo Dotan (Jenin), circa 450 ulivi sono stati bruciati e distrutti poco dopo che i contadini palestinesi del villaggio di Ya’abad sono stati attaccati dai coloni e cacciati dai soldati israeliani”. Feriti sono stati registrati in aree agricole vicine alla città di Huwara (adiacente a Nablus) e ai villaggi di Ni’lin e Beitillu. Centinaia di ulivi appartenenti ai palestinesi del villaggio di Saffa (a Ramallah), nell’area chiusa dietro il Muro, sono stati incendiati e danneggiati.

Le IOF, infatti, hanno emesso decine di ordini militari per la chiusura di migliaia di aree coltivate ad uliveti in varie parti della Cisgiordania, in concomitanza con l’inizio della stagione del raccolto.
Gli ordini militari hanno il fine di incoraggiare i coloni ad invadere i campi di ulivi palestinesi, rubarne il raccolto, tagliare gli alberi, oltre che a bruciare e danneggiare le terre dei palestinesi, poiché impuniti e protetti dai soldati israeliani. L’OCHA ha affermato che “molti degli incidenti sono avvenuti in aree ad accesso limitato, dove le autorità israeliane consentono ai palestinesi di entrare tra i due ed i quattro giorni durante l’intera stagione del raccolto” – “In altri 10 luoghi adiacenti alle colonie, non appena hanno avuto la possibilità di raggiungerli, gli agricoltori hanno trovato le loro olive raccolte, gli ulivi vandalizzati e i loro prodotti agricoli rubati”.

L’organismo delle Nazioni Unite ha sottolineato anche gli ingenti danni fatti all’agricoltura, alla pastorizia e all’apicoltura palestinese (40 alveari sono stati incendiati) specialmente nell’area di Farsiya, nella Valle del Giordano settentrionale, dove i pastori palestinesi sono stati aggrediti fisicamente da un gruppo di coloni e una delle loro pecore è stata uccisa.

Nonostante ciò le violenze sono continuate anche a novembre. Il 3 novembre decine di coloni, provenienti da Kida, hanno distrutto e sradicato decine di ulivi secolari nella zona meridionale devastato un uliveto e hanno spianato con i bulldozer vasti appezzamenti di terra appartenenti ad un residente, Jibril Mahmoud, nella cittadina di Jalud[17].

Ancora oggi episodi di terrorismo e violenza da parte di coloni estremisti, contro i palestinesi e le loro proprietà, sono all’ordine del giorno in tutta la Cisgiordania.

 

Politiche coloniali di demolizione di strutture palestinesi

La Commissione contro la colonizzazione e per la resistenza contro il Muro ha riferito che, nel 2019, Israele ha demolito 686 case e strutture in Cisgiordania, di cui 300 nella Gerusalemme occupata. Un regime di pianificazione restrittivo applicato dalle autorità israeliane rende quasi impossibile per i palestinesi l’ottenimento di permessi di costruzione in quella che gli Accordi di Oslo hanno etichettato come “Area C” della Cisgiordania, che cade sotto il controllo militare ed amministrativo israeliano, impedendo lo sviluppo di alloggi adeguati, infrastrutture e mezzi di sussistenza. Tutto questo ha il fine di accaparrarsi le terre palestinesi, espandere i propri insediamenti illegali ed espellere i palestinesi dalle loro terre, spesso con la scusa che i loro edifici non hanno permessi o licenze rilasciate dal governo israeliano. Attualmente vi sono circa 650.000 coloni israeliani che vivono nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est. Tutte le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale e, in particolare, la Quarta Convenzione di Ginevra proibisce ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione sulla terra occupata.

Il 7 gennaio l’Autorità Israeliana per l’Occupazione (IOA) ha costretto una famiglia di Gerusalemme a demolire la propria casa nel quartiere di Jabel Mukabber, ad est della Città Santa, con il pretesto della mancata licenza edile. Maher Nassar, il proprietario della casa, ha affermato che gli erano stati concessi alcuni giorni per radere al suolo la casa per evitare di pagare 80.000 shekel in caso fosse dovuta intervenire la municipalità israeliana. Ha aggiunto che gli israeliani lo hanno anche multato di 35.000 shekel per aver costruito la casa, nonostante avesse cercato di ottenere una licenza ufficiale, ma senza risultato.

Il 13 gennaio diverse jeep dell’esercito hanno invaso Masafer Yatta[18], dopo averla circondata, e hanno consegnato gli ordini di demolizione ai danni di otto case palestinesi di proprietà di Mohammad Mousa Makhamra, Ahmad al-Yatim, Mahmoud Issa Yatim, Khalil Issa Yatim, Ahmad Ismael Dababsa, Anan Mohammad Abed-Rabbo, e Qassem Abu Tohfa. I palestinesi a Masafer Yatta subiscono continue violazioni israeliane, compresa la demolizione di case e strutture, oltre alla distruzione delle loro terre.

Il 20 gennaio soldati israeliani hanno invaso la cittadina di Umm al-Kheir[19] e hanno consegnato ordini di demolizione contro 18 case. Le case sono di proprietà di membri delle famiglie di al-Hathalin, al-Masri, a-Tibna e al-Faqir. Fuad al-‘Amur[20] ha affermato che l’esercito sostiene che le case siano state costruite senza i permessi dell’Ufficio dell’Amministrazione Civile[21].

Il 6 febbraio all’alba, i soldati israeliani hanno sparato a Yazan Monther Abu Tabikh, 19 anni, con due proiettili letali al petto e ne hanno feriti altri sette, di cui due in modo potenzialmente letale, e hanno causato il soffocamento di molti altri a causa dei gas lacrimogeni. Uno dei palestinesi feriti è un ufficiale di polizia, identificato come Lu’ay Ahmad Badwan, 25 anni, della città di Azzun, colpito da un proiettile letale nella parte superiore del corpo. Questo è successo dopo che i soldati israeliani hanno invaso la città di Jenin e iniziato la demolizione di una casa appartenente alla famiglia di un prigioniero politico sfollando sette persone, tra cui due minori. Dopo la prima demolizione, avvenuta il 23 aprile 2018, la casa era stata ricostruita.

Secondo il Rapporto OCHA del periodo 21 gennaio – 3 febbraio 2020, in Area C[22] e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto i proprietari a demolire, dieci strutture palestinesi, sfollando nove persone e causando ripercussioni su altre 41. Cinque delle strutture demolite, compresa una precedentemente fornita come aiuto umanitario, erano situate in Area C, nel villaggio di Az Zawiya (Salfit) e ad Al Khalayleh, una piccola Comunità nell’area di Gerusalemme, separata dal resto della Cisgiordania dalla Barriera. Le restanti cinque strutture si trovavano a Gerusalemme Est, una delle quali in una Comunità (Khirbet Khamis) separata da Betlemme dalla Barriera. Tre delle strutture in Gerusalemme Est sono state demolite dai proprietari, a seguito del ricevimento di ordini di demolizione.

A metà febbraio, l’esercito israeliano ha emesso ordini di demolizione contro quattro strutture residenziali palestinesi a Masafer Yatta, secondo quanto reso noto da Fuad al-Amur, il quale ha riferito che le forze israeliane hanno consegnato avvisi di demolizione a quattro residenti con il pretesto che le loro case erano state costruite senza permessi israeliani, sebbene le autorità israeliane non rilasciano permessi per i proprietari terrieri palestinesi da quando hanno occupato la Cisgiordania nel 1967.

Secondo il Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 febbraio 2020, in Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o costretto i palestinesi a demolire 24 strutture, sfollando 23 persone e causando ripercussioni su altre 88. Tredici delle strutture demolite, di cui tre precedentemente fornite come aiuto umanitario, erano situate in Area C. Tra i casi più rilevanti, due si sono verificati vicino alla città di Hebron (Al Hijra) ed a Deir Qaddis (Ramallah), dove sono state demolite 3 strutture di sostentamento, 2 locali ad uso agricolo e 2 latrine. Sempre in Area C, nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito una abitazione ed una latrina fornite come assistenza umanitaria, sfollando una famiglia di sette persone. Le restanti 11 strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est, di cui 5 sono state demolite dai proprietari, a seguito degli ordini di demolizione.

Il 3 marzo l’esercito d’occupazione israeliano ha consegnato ordini di demolizione e di stop ai lavori per tre case nella cittadina di Nahalin, a ovest di Betlemme occupata, con il pretesto della costruzione senza licenza, dopo che l’amministrazione civile dell’esercito israeliano ha notificato ad Ahmed Mahmoud l’intenzione di demolire la sua casa nella zona di al-Bakoush. Altri due cittadini, Adel Najajera e Ra’ed Sawad, hanno ricevuto avvisi per interrompere i lavori ordinando loro di fermare la costruzione delle loro case, che si trovano nella stessa area, mentre qualche giorno prima l’esercito israeliano ha sequestrato due betoniere e ha costretto i cittadini a fermare i lavori di costruzione nell’area.

Il 5 marzo, le forze israeliane hanno demolito per ragioni “punitive” due case, sfollando sei palestinesi, incluso un minore. Le case demolite erano situate nelle città di At Tira e Birzeit (Ramallah), in area A e B; appartenevano alle famiglie di due palestinesi accusati di aver ucciso, nell’agosto 2019, una giovane colona israeliana e di averne ferito il fratello e il padre. Uno degli episodi di demolizione ha innescato scontri con le forze israeliane, durante i quali un palestinese è rimasto ferito.

Per mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite o sequestrate altre 14 strutture di proprietà palestinese, sfollando 29 persone e causando ripercussioni su altre 60 circa. Dieci di queste strutture erano situate in Area C e cinque di esse erano state fornite a titolo di aiuto umanitario. Queste ultime comprendevano due tende residenziali nella Comunità di pastori di Ein ar-Rashash (Ramallah) e una tenda residenziale, una latrina mobile e un sistema di pannelli solari nei pressi di Beit Jala (Betlemme). Le altre quattro strutture, di cui due demolite dai proprietari, erano a Gerusalemme Est. Dall’inizio dell’anno, a seguito di ordinanze delle autorità israeliane, a Gerusalemme Est sono state demolite 47 strutture, il 60% circa delle quali dai proprietari.

Nel sud di Hebron, le forze israeliane hanno demolito una sezione di una strada sterrata che collega cinque Comunità di pastori con il loro principale centro di servizi. Le Comunità, costituite da circa 700 persone, si trovano in una “zona per esercitazioni a fuoco” (Massafer Yatta), riservata da Israele all’addestramento dei suoi militari. Di conseguenza, per accedere al loro principale centro di servizi ed al mercato nella città di Yatta, i residenti devono percorrere una lunga deviazione. Tutti i 1.300 residenti in questa “zona per esercitazioni a fuoco” devono fronteggiare un contesto coercitivo che li mette a rischio di trasferimento forzato.

L’8 marzo le forze israeliane hanno confiscato delle attrezzature da costruzione nell’area di Birin[23] secondo quanto affermato da Fuad al-‘Amour, il quale ha dichiarato ad un corrispondente di WAFA che i soldati hanno confiscato due scavatrici appartenenti al residente locale Mohammed Abu Turkey. Sempre lo stesso giorno, l’IOA hanno consegnato ad una famiglia palestinese locale nella zona di Yarza, nella Valle del Giordano settentrionale, un ordine per la rimozione delle loro tende e delle loro stalle, secondo quanto affermato da un funzionario locale. Mutaz Bsharat, un funzionario responsabile del dossier della Valle del Giordano a Tubas, ha affermato che le forze israeliane hanno consegnato un avviso che ordina ai membri della famiglia Abu Thaher di rimuovere le loro tende e le loro stalle, che sono già state distrutte a dicembre del 2019 e a gennaio del 2020.

Il 26 aprile l’IOA ha emesso ordini di demolizione contro 22 case e strutture agricole palestinesi nel villaggio di Qarawat Bani Hassan, nel distretto di Salfit, in Cisgiordania. Il governatore di Salfit, Abdullah Kmeil, ha condannato le violazioni quotidiane dell’IOA a Salfit e in altre aree della Cisgiordania.

L’IOA in quel periodo ha sfruttato la crisi del coronavirus per intensificare le campagne di demolizione e le attività di insediamento in Cisgiordania occupata, chiedendo un’azione immediata da parte degli stessi palestinesi e dei gruppi per i diritti umani per affrontare l’attacco.

Secondo il Rapporto OCHA del periodo 28 aprile – 11 maggio 2020, dal 24 aprile, data di inizio del mese musulmano del Ramadan, all’11 maggio, 19 strutture sono state oggetto di demolizione o sequestro; nell’intero periodo del Ramadan del 2019, erano state 13, 1 nel 2018 e zero nel 2017. Questo significa, statisticamente che il numero delle demolizioni è sempre più aumentato.

L’11 maggio, nel villaggio di Kobar (Ramallah), le forze israeliane hanno demolito per ragioni “punitive” il piano superiore di una casa a due piani, sfollando due palestinesi. Le forze israeliane hanno anche distrutto un pozzo per l’acqua e hanno danneggiato 20 alberi, innescando scontri con i residenti. Dall’inizio dell’anno, questa è la quarta demolizione “punitiva”. A causa della mancanza di permessi di costruzione, in Area C sono state demolite o sequestrate dalle autorità israeliane 11 strutture di proprietà palestinese, mentre a Gerusalemme Est un’altra è stata auto-demolita dal proprietario; ne risultano colpite oltre 100 persone, ma non sono stati registrati sfollamenti. Sei di queste strutture sono state prese di mira sulla base dell’ordine militare 1797[24], che prevede la rimozione immediata di strutture prive di licenza, in quanto ritenute “nuove”.

Il 25 maggio le forze israeliane hanno consegnato avvisi per la demolizione di 10 pozzi d’acqua piovana appartenenti ai cittadini residenti nella parte occidentale di Az-Zawiya[25].

Oltre 35 famiglie palestinesi nella città di Betlemme sono riusciti ad ottenere una sentenza della corte israeliana che consente loro di rimanere nelle loro case, a seguito dei tentativi militari israeliani di demolirle.

Il capo del comitato palestinese locale contro il Muro dell’apartheid e le colonie, Hassan Brega, ha dichiarato che l’avvocato palestinese, Ghayath Naser, è riuscito ad ottenere da un tribunale israeliano una sentenza contro la demolizione di 38 case a Ein Aljowaiza, un quartiere di Betlemme.

L’avvocato, citato da Brega, ha affermato che le autorità militari israeliane hanno recentemente rilasciato ordini di demolizione nei confronti delle case di 38 famiglie, sostenendo che il quartiere rurale non è incluso nella mappa di pianificazione urbana, creata dalle autorità israeliane.

Il 28 maggio le forze israeliane hanno invaso la cittadina di al-Tirah, a sud-ovest di Ramallah, e hanno consegnato ordini di demolizione ai residenti di 6 case, con il pretesto che queste erano state costruite “senza permesso” nell’area C. L’esercito israeliano ha confiscato un trattore appartenente ad un residente del villaggio mentre stava arando il suo campo, aggiungendo che i residenti della cittadina sono sottoposti a continue molestie da parte delle forze d’occupazione, tra cui la distruzione di una strada che collega al-Tirah a Beit Awar.

Il 29 maggio la famiglia palestinese Bashir, nel quartiere di Jabal al-Mukaber, nella Gerusalemme est occupata, ha iniziato a demolire la sua casa di 85 metri quadrati, come ordinato dal municipio israeliano, portando alla traslocazione di 6 membri tra cui anche anziani disabili.

Il 31 maggio il direttore della Camera di Commercio ed Industria Araba di Gerusalemme, Kamal Obeidat, ha affermato che la municipalità israeliana di Gerusalemme, con l’approvazione del comitato per la pianificazione e l’edilizia, ha distribuito ordini di evacuazione e demolizione rivolti a 200 strutture commerciali ed industriali palestinesi nel quartiere industriale di Wadi al-Joz, nella Gerusalemme occupata. Obeidat ha affermato che la “mossa razzista” israeliana mira a conquistare l’unica area industriale di proprietà palestinese a Gerusalemme, al fine di ebraicizzare ulteriormente la città ed alterarne l’identità.

A maggio, le missioni dell’Unione Europea (UE) a Gerusalemme e Ramallah hanno rilasciato una dichiarazione, riguardante l’escalation di demolizioni di case di proprietà palestinese ordinate e condotte dalle autorità israeliane nella Cisgiordania occupata nel corso del 2020, osservando che non solo è continuata durante il mese di Ramadan, ma è triplicata rispetto al 2019.

“In linea con la posizione di lunga data dell’UE sulla politica di insediamento di Israele – illegale ai sensi del diritto internazionale – e le azioni intraprese in tale contesto, come trasferimenti forzati, sfratti, demolizione e confisca di case, l’UE sollecita le autorità israeliane a fermare le demolizioni di strutture palestinesi”.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) ha documentato 106 violazioni del diritto internazionale umanitario nei Territori Palestinesi Occupati da parte delle forze di occupazione e dai coloni israeliani dal 21 al 27 maggio 2020.

Inoltre Israele ha continuato ad ampliare le colonie illegali e le relative infrastrutture nella Cisgiordania occupata, compreso lo smantellamento di una roulotte e la demolizione di una casa ancora in costruzione nella zona centrale della Valle del Giordano, con la giustificazione della mancanza di autorizzazione per la costruzione. Tali permessi sono quasi impossibili da ottenere da parte dei palestinesi.

Il 5 luglio l’autorità israeliana di occupazione (IOA) ha approvato la demolizione della casa palestinese, nella città di Ya’bad[26], appartenente alla famiglia del prigioniero Nazmi Abu Bakr, un palestinese di 49 anni detenuto nelle carceri israeliane in condizioni disumane con accuse false. La famiglia ha presentato una petizione contro la demolizione che è stata respinta dall’IOA. Il 6 luglio le squadre municipali israeliane hanno ordinato la demolizione di 30 strutture palestinesi ad al-Isawiya, nella Gerusalemme occupata. I funzionari israeliani hanno anche fotografato gli edifici, tra cui alcune strutture abitate ed altre ancora in costruzione. Oltre alle restrizioni alla costruzione, i residenti palestinesi di al-Isawiya erano stati sottoposti a campagne di demolizione rivolte principalmente a case e strutture commerciali.

Il 14 luglio le autorità israeliane nel distretto di Jenin hanno consegnato 3 ordini di demolizione a diversi negozi appartenenti a Omar Alkilani, Zaid Herzallah e Easam Attatra della cittadina di Ya’bad, a sud-ovest di Jenin. Il pretesto per la demolizione è quello della “costruzione senza licenza” e che, una volta demoliti gli edifici, ai proprietari sarà vietato ricostruirli. La cittadina di Ya’bad è stata esposta a frequenti invasioni di truppe israeliane e violenza contro i suoi residenti, i quali sono stati sequestrati dalle truppe israeliane nello stesso periodo.

Il 22 luglio le IOF hanno consegnato un ordine di demolizione contro una casa in costruzione e quattro strutture agricole nello stesso villaggio. Il 23 luglio le IOF hanno informato i proprietari di tre case nell’area di Jabel Ruwaisat, nel villaggio di al-Walaja, a ovest di Betlemme, sostenendo che le case sono state costruite senza permessi. Lo stesso giorno anche due cittadini nell’area di Khilat al-Samak nello stesso villaggio hanno ricevuto comunicazioni di demolizione contro un pozzo e diverse strutture agricole utilizzate per l’allevamento del bestiame. Ai cittadini sono stati concessi alcuni giorni per abbattere le loro proprietà con le proprie mani per evitare di sostenere spese esorbitanti qualora l’amministrazione israeliana avesse provveduto.

Secondo il Rapporto OCHA del periodo 14-27 luglio 2020, nell’Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 30 strutture di proprietà palestinese, sfollando 25 persone e creando ripercussioni su altre 140. In un episodio accaduto il 21 luglio, sebbene l’affermazione è stata contestata dalle autorità sioniste, le autorità israeliane hanno demolito una struttura alla periferia della città di Hebron che era pianificata per essere utilizzata come centro diagnostico contro il COVID-19. Questa e altre tre strutture sono state demolite in base all’“Ordine Militare 1797”. Le Organizzazioni Umanitarie e per i Diritti Umani hanno ripetutamente manifestato preoccupazione per questa procedura che, sostanzialmente, impedisce alle persone destinatarie dei provvedimenti di essere ascoltate da un organo giudiziario.

Secondo l’OCHA, agosto 2020 è stato un mese terribile per le popolazioni palestinesi in Cisgiordania soprattutto a causa di un forte aumento degli spostamenti legati alla demolizione ad agosto. 21 strutture demolite o sequestrate all’interno o adiacenti all’area di espansione dell’insediamento E1, mentre 7 strutture di aiuto finanziate dai donatori sono state demolite/sequestrate. Le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 88 strutture di proprietà palestinese, tutte (tranne una) per mancanza di permessi di costruzione, che sono quasi impossibili da ottenere per i palestinesi. Di conseguenza, un totale di 202 persone sono rimaste sfollate e altre 450 hanno avuto conseguenze sui propri mezzi di sussistenza o sull’accesso ai servizi. Rispetto alle medie mensili tra gennaio e luglio 2020, agosto ha registrato un aumento quasi quadruplicato del numero di sfollati (202 contro 58) e un aumento del 55% del numero di strutture interessate (88 contro 56). Nell’Area C, 63 strutture sono state demolite o sequestrate dalle autorità israeliane questo mese. Sette erano state fornite come assistenza umanitaria, per un valore di oltre 9.300 euro. Altre nove strutture di aiuto finanziate da donatori, per un valore di oltre 50.000 euro, hanno ricevuto ordini di arresto dei lavori. L’incidente più grave è avvenuto il 25 agosto nella comunità beduina palestinese di Wadi as-Seeq (Ramallah), dove sono state demolite nove strutture, tra cui tre case e cinque rifugi per animali: 24 persone, di cui 11 bambini, sono rimaste sfollate e altre 13 hanno visto colpiti i propri mezzi di sussistenza. In sei incidenti separati nell’Area C, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 21 strutture situate all’interno o accanto a un’area nota come E1 prevista per l’espansione dell’insediamento di Ma’ale Adummim nel governatorato di Gerusalemme. Lo scorso marzo, le autorità hanno avanzato due piani dettagliati che prevedono la costruzione di quasi 3.500 unità abitative di insediamento in E1; il periodo per la presentazione delle opposizioni ai piani è terminato il 28 agosto. L’approvazione di questi piani potrebbe accelerare il trasferimento forzato di circa 3.700 palestinesi che vivono in 18 comunità beduine situate in quest’area. Sempre questo mese, le autorità israeliane hanno demolito una casa e un serbatoio d’acqua nella comunità di pastori di Fraseen a Jenin usato per l’irrigazione, il bestiame e il consumo domestico. Questa comunità, dove la maggior parte delle strutture ha ricevuto ordini di demolizione, si trova tra l’insediamento israeliano di Hermesh[27]. La demolizione a Fraseen è stata eseguita sulla base dell’Ordine Militare 1797, che è ancora considerato dalle autorità israeliane come “pilota” e per il quale comunità umanitaria ha ripetutamente mostrato preoccupazione poiché restringe in modo significativo la capacità delle persone colpite di essere ascoltate dinanzi a un organo giudiziario.

A Gerusalemme Est, ad agosto sono state demolite 24 strutture di proprietà palestinese, metà delle quali dai loro proprietari a seguito dell’emissione di ordini di demolizione. Le demolizioni effettuate dai proprietari delle strutture sono aumentate nel 2020, rappresentando oltre il 50% di tutte le demolizioni a Gerusalemme Est, rispetto al 26% nel 2019. L’aumento è attribuito a un emendamento alla legge israeliana sulla pianificazione e l’edilizia entrata in vigore lo scorso anno, che multa i proprietari di una struttura illegale per ogni giorno aggiuntivo in cui la struttura viene utilizzata. Le multe si aggiungono alle alte tasse che i proprietari devono pagare al comune qualora non demoliscano la struttura da soli. Inoltre, una casa in costruzione è stata demolita in una sezione del quartiere di Sur Bahir a Gerusalemme Est, designato come Area A, dove l’Autorità Palestinese è responsabile delle questioni di pianificazione. La demolizione è stata effettuata citando motivi di sicurezza, legati all’ubicazione dell’edificio in una ‘zona cuscinetto’ adiacente alla Barriera.

Secondo il Rapporto OCHA del periodo 22 settembre – 5 ottobre 2020, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 42 strutture di proprietà palestinese, sfollando 53 palestinesi e creando ripercussioni di diversa entità su circa 150 persone. La maggior parte delle strutture demolite (39), di cui 15 fornite come assistenza umanitaria, e tutti gli sfollamenti, sono stati registrati in Area C. Queste includevano sei strutture abitative, dislocate nelle Comunità di Ar Rakeez e Mantiqat Shi’b al Butum, sulle colline a sud di Hebron, situate in un’area chiusa destinata da Israele all’addestramento militare, sfollando 27 persone. Nel villaggio di Kisan (Betlemme), nello stesso episodio, sono state demolite altre 8 strutture, sfollando 13 palestinesi. Inoltre, a Khirbet Yarza (Tubas), Ni’lin (Ramallah) e Deir Samit (Hebron), 6 strutture sono state demolite sulla base di un “Ordine militare 1797”, che consente la demolizione entro 96 ore dall’emissione del medesimo. A Gerusalemme Est sono state demolite tre strutture di sostentamento.

Nonostante manchino ancora due mesi alla fine dell’anno, il 2020 risulta essere l’anno peggiore in termini di demolizione israeliane di unità abitative a Gerusalemme Est. Così ha affermato l’ONG Ir Amin[28] in un rapporto pubblicato di recente, sottolineando che in precedenza solo il 2016 era stato l’anno con il più alto numero di unità abitative demolite a Gerusalemme Est. La ragione principale del picco di demolizioni è l’emanazione dell’emendamento 116 della Legge sulla pianificazione e l’edilizia che aumenta le sanzioni contro la costruzione non autorizzata e limita anche la capacità della Corte di intervenire per conto delle famiglie che cercano di legalizzare le proprie case. Ir Amim ha anche accusato Israele di discriminare i Palestinesi a Gerusalemme Est per quanto riguarda i piani di costruzione e i permessi a lungo termine. La politica a lungo termine di Israele, basata sul rifiuto di avviare o approvare nuovi piani dettagliati per i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, è alla radice della costruzione non autorizzata: l’impatto combinato della discriminazione nella pianificazione e dell’aumento delle demolizioni domestiche è stato descritto e analizzato nel rapporto di Ir Amim sulle demolizioni domestiche a Gerusalemme Est nel 2019.

Al 5 novembre Yvonne Haley, coordinatrice ad interim dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari per i Territori palestinesi occupati (OCHA), ha dichiarato che le autorità d’occupazione israeliane (IOA) hanno demolito 689 strutture in Cisgiordania e a Gerusalemme dall’inizio di quest’anno, sfollando 869 palestinesi. Tenendo conto anche della vulnerabilità della popolazione durante il Covid-19, Haley ha chiesto ad Israele di fermare le demolizioni illegali, poco dopo che decine di palestinesi sono rimasti sfollati nella Valle del Giordano, ed ha ribadito che la distruzione massiccia di proprietà e lo sfollamento di persone protette in un’area occupata costituiscono gravi violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra.

Recentemente le politiche coloniali di demolizioni proseguono soprattutto dopo che il 2 novembre, le autorità d’occupazione israeliana hanno approvato un piano di distruzione di decine di imprese palestinesi nel quartiere di Wadi al-Joz, nella Gerusalemme Est occupata, come parte di un futuro piano di costruzione di un nuovo insediamento chiamato “Silicon Valley”.

 

[1] Ente militare israeliano che governa i Territori palestinesi occupati

[2] Agenzia di ricerca con sede a Londra

[3] Attivista palestinese contro gli insediamenti illegali israeliani e funzionario dell’Autorità Palestinese che controlla le attività illegali dei coloni nella Cisgiordania settentrionale.

[4] Costruita illegalmente su terre palestinesi di Nablus, di al-Sawiya e sulle vicine terre di Yetma.

[5] Villaggio palestinese a sud della città di Nablus, in Cisgiordania.

[6] Circondato da tre colonie, è uno dei villaggi più colpiti a Nablus dall’attività coloniale israeliana

[7] Villaggio a nord-est di al-Khalil/Hebron, nella Cisgiordania occupata

[8] Città palestinese di 5.200 abitanti situata nel Governatorato di Salfit nel nord della Cisgiordania, a 15 chilometri a sud-ovest di Nablus

[9] Turmus’ayya si trova a 23 km a nord-est di Ramallah e la sua popolazione totale è di circa 4.200 persone divise in due famiglie principali: Awad e Jabara, oltre alle piccole famiglie di origine di rifugiati.

[10] Unità di misura terriera pari a 2.500 m² di terra

[11] Villaggio ad ovest di Salfit, nella Cisgiordania occupata

[12] Noto anche come Menora o Giv’at Ehud, è un insediamento illegale israeliano nella Cisgiordania occupata.

[13] A sud di Nablus, nella Cisgiordania occupata.

 

[14] Insediamento illegale costruito sulle terre del villaggio di al-Mughayyir

[15] Villaggio ad est di Ramallah, in Cisgiordania. Secondo gli accordi di Oslo, il 94,1% dell’area totale del villaggio di al-Mughayyir è classificata come Area C, ovvero un’area su cui Israele ha il pieno controllo.

[16] Zona ovest di Salfit, rivendicata come propria da Israele.

[17] A sud di Nablus, nella Cisgiordania occupata

[18] A sud di Hebron, nella Cisgiordania occupata, è oggetto di continue invasioni e violazioni che colpiscono i residenti, le loro case e le loro terre, oltre ad essere classificata come Area C, sotto il pieno controllo militare israeliano

[19] Nella zona di Masafer Yatta, a sud di Hebron, nella Cisgiordania meridionale

[20] Coordinatore del Comitato per la protezione di Masafer Yatta

[21] Ramo amministrativo ed esecutivo dell’occupazione illegale israeliana in Cisgiordania

[22] Costituisce circa il 60% della Cisgiordania occupata che Israele vuole annettere dopo aver espulso gli autoctoni palestinesi. Il piano Trump-Kushner, annunciato il 28 gennaio 2020, sancisce tale espulsione della popolazione palestinese e il trasferimento delle loro terre al governo israeliano.

 

[23] A sud di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata,

[24] Provvedimento che consente la demolizione di edifici “non autorizzati” entro 96 ore dalla consegna della notifica

[25] Ad ovest di Salfit, nella Cisgiordania settentrionale occupata

[26] A Jenin, in Cisgiordania

[27] Avamposto di insediamento stabilito circa un anno fa come fattoria agricola

[28] ONG israeliana le cui attività includono “monitoraggio “e” esposizione” delle pratiche di ebraicizzazione messe in atto dal Governo israeliano a Gerusalemme Est.