Le scuse di Israele per aver sparato contro Palestinesi disarmati non sembrano sincere

MEMO. Di Hossam Shaker. Le immagini di ragazze o donne distese a terra in mezzo alla strada con il sangue che esce dalle loro teste sono ormai divenute “normali” dall’autunno del 2015. Donne, bambini e uomini sono tutti diventati vittime da aggiungere alla enorme quantità di statistiche, sempre crescenti, che i global media non smettono mai di menzionare quando raccontano di questo conflitto asimmetrico. Si tratta delle vittime palestinesi giustiziate sul campo dalle forze di occupazione israeliane – donne, bambini e uomini – presso gli umilianti e spesso letali posti di blocco militari lungo la Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est.

La tragedia di queste vittime non termina con degli spari frettolosi; i colpiti e morenti vengono lasciati sanguinare mentre i militari sorseggiano il loro caffè e continuano le loro regolari attività, dopo “aver neutralizzato” la presunta minaccia. Sui social media sono circolate immagini e video nei quali vengono mostrati dei militari e agenti di polizia israeliani che non cercano minimamente di arrestare i sospettati; prima sparano e, forse, solo dopo fanno domande. Da questi filmati è evidente che sono troppo propensi a premere il grilletto e a sparare contro un obiettivo che potrebbe essere anche più giovane dei loro stessi figli o più anziano delle loro stesse madri.

E la tragedia è ancora maggiore quando il nome della vittima viene comunicato soltanto ore o persino giorni più tardi, esercitando in questo modo una forte pressione psicologica sulla comunità che non sa se la persona colpita e morta possa essere un parente od un amico.

La settimana scorsa, precisamente il 18 settembre, una donna palestinese di nome Nayfa Ali Ka’abna, cinquantenne, è stata colpita ed uccisa dai soldati israeliani. Il suo nome è stato comunicato ufficialmente soltanto quattro giorni dopo essere stata praticamente giustiziata presso il check-point di Qalandiya, a nord di Gerusalemme. Dopo essere stata colpita, è stata lasciata per terra al lato della strada per un po’ tempo, adagiata su una pozza di sangue che pian piano aumentava. Per poter capire quel che è accaduto a Nayfa, conviene dare un’occhiata al crescente fenomeno delle esecuzioni sul campo nel corso degli ultimi quattro anni.

Hadil Al-Hashlamoun stava passando attraverso un posto di blocco militare israeliano il 22 settembre 2015 quando le hanno sparato. La narrazione israeliana ha sostenuto che la ragazza diciottenne non avesse rispettato l’ordine di fermarsi e che abbia quindi costituito un pericolo per i militari. La giovane stava frequentando il suo primo anno di università ed era conosciuta nel quartiere per la sua solidarietà con le famiglie palestinesi molestate dai coloni. E proprio per questo motivo, era obbligata ad attraversare il check-point ripetutamente. Il giorno dell’aggressione fatale, due soldati le hanno ordinato di fermarsi e poi le hanno subito sparato almeno 10 proiettili con i fucili automatici. Appena colpita dal primo proiettile, Hadil è caduta a terra, ma i militari hanno continuato a spararle addosso. La maggior parte dei proiettili ha colpito il petto e la parte superiore del corpo.

L’esercito di occupazione israeliano ha immediatamente sostenuto, come al solito, che la giovane donna aveva tentato di aggredire i soldati con un coltello e che i militari armati fino ai denti avevano agito “secondo il protocollo” dato che le loro vite erano in pericolo. Molte immagini apparse sui social media provano che la spiegazione degli israeliani è assolutamente falsa. La realtà di questo orrendo omicidio è stata documentata da un passante; i due militari hanno aperto il fuoco contro Hadil da una distanza di 4 metri e non si era visto nessun coltello. La brutalità di questo attacco è ancora peggiore per il fatto che la ragazza è stata lasciata a terra per circa mezz’ora dopo essere stata colpita. La giornalista Amira Hass ha riferito i dettagli di questo crimine su Haaretz del 3 novembre 2015, basandosi su fatti documentali che contraddicono la narrativa dell’esercito.

La famiglia di Hadil Al-Hashlamoun ha portato il caso in tribunale, ma il sistema giudiziario israeliano ha deciso che l’esercito ed i suoi soldati venissero assolti, come al solito. La famiglia è andata in appello, ma il risultato è stato lo stesso. Il caso è stato chiuso nel febbraio 2019 con i soldati assolti per tutti i reati contestati. Non è stata certo una sorpresa; il racconto delle Forze cosiddette di “Difesa” israeliane viene normalmente accettato come verità, senza alcun dubbio.

All’epoca tutto il mondo ha ignorato la tragedia di Hadil Al-Hashlamoun, dando un tacito semaforo verde alle autorità dell’occupazione perché possano continuare le esecuzioni sul campo col pretesto che le vittime “costituiscono un pericolo per le vite dei soldati”. Uccidere Palestinesi in questo modo è divenuto un fatto ricorrente della vita quotidiana, protetto da giustificazioni ingarbugliate di proposito. Tuttavia, l’idea che un coltello da frutta il cui riflesso si vede da lontano, in mano ad una studentessa, costituisca realmente una minaccia per le vite di un gruppo di soldati armati, che indossano armature, semplicemente non sembra veritiero. Inoltre, il fatto di sparare numerosi proiettili contro una ragazza, una donna, un uomo o un giovane e contro una parte del corpo che porterà a morte certa, suggerisce che i soldati israeliani hanno poco o nessun riguardo nei confronti delle vite dei Palestinesi.

La versione ufficiale di Israele a proposito delle esecuzioni sul campo è semplicemente non credibile. E’ un dato di fatto, comunque, che qualsiasi Palestinese che si stia facendo gli affari suoi può aspettarsi di essere colpito casualmente se si trova a piedi presso un posto di blocco militare. Fare una mossa sbagliata o mostrare un qualsiasi “comportamento inusuale” – termine molto vago – e ci si può trovare di fronte ad una scarica fatale di proiettili.

Ciò costituisce una minaccia ancora maggiore per coloro che hanno problemi di udito o di vista o che faticano a comprendere i gesti o gli ordini urlati dai soldati o dagli agenti di polizia, anche per la lingua diversa e per diversi modi di esprimersi. I check-point militari israeliani sono ormai profondamente radicati nella vita palestinese, ma rimangono pur sempre una minaccia per coloro che hanno problemi di salute o altre difficoltà di comunicazione. Se qualcuno ha un attacco o una crisi presso uno di questi posti di blocco, potrebbe pagarlo con la propria vita.

Dato l’elevato numero di questi episodi, i Palestinesi sono convinti che le autorità di occupazione non esitino un attimo nel giustificare qualsiasi esecuzione sul campo commessa dalle loro forze di sicurezza, ancor prima che possa aver luogo qualsiasi indagine – sempre che un’indagine venga svolta. Gli assassini non ci pensano più di tanto per piazzare un coltello vicino alle vittime a terra, per “provare” la loro narrazione disonesta.

Inoltre, anche nel caso una studentessa con un coltello avesse l’intenzione di attaccare i perfettamente addestrati ed armati soldati, perché questi non sono capaci di disarmarla? Spararle contro quando essa è lontana ben più di un braccio dai militari sembra essere una risposta estremamente sproporzionata. Man mano che l’elenco degli “assalitori che brandiscono coltelli” assassinati si allunga, quante invece delle loro vittime predestinate sono state effettivamente uccise? Assolutamente nessuna.

L’unica cosa certa in tutto questo è che le forze di occupazione israeliane sono in grado di uccidere i Palestinesi a loro piacimento e a cavarsela sempre. La scomoda verità, assente dalla propaganda evitata da Israele e dai suoi sostenitori, è che gli assassini di decine di uomini, donne e bambini palestinesi autoctoni, nelle esecuzioni sul campo in tutta la Cisgiordania occupata e a Gerusalemme negli ultimi anni, sono in realtà i membri di un esercito di occupazione che viola il diritto internazionale; non meritano la nostra simpatia. Sono le loro vittime che vivono – e muoiono – sotto l’occupazione militare e l’oppressione che meritano tutto ciò che possiamo fare per aiutarle.

Le esecuzioni sul campo sono una delle “manifestazioni di sovranità” che le forze di occupazione israeliane hanno monopolizzato nei loro numerosi check-point creati per ostacolare i Palestinesi nella loro vita quotidiana. Essi impediscono ai Palestinesi libertà di movimento, causano umiliazioni e forniscono opportunità per arrestare e, come abbiamo visto, uccidere.

Queste importanti violazioni hanno fatto in modo che un discreto numero di israeliani contro l’occupazione abbiano costituito un’associazione per i diritti umani alcuni anni fa con lo scopo di monitorare il comportamento delle forze di sicurezza presso i posti di blocco. Si chiama Machsom (Checkpoint) Watch, ma il governo israeliano è occupato a reprimere gruppi come questo, screditandoli e sostenendo che stanno “lavorando contro lo stato”.

Prima di poter accettare le scuse di Israele per le uccisioni dei Palestinesi effettuate ai check-point, dobbiamo riconoscere la presenza delle forze di occupazione nei territori palestinesi, e che il dispiegamento di truppe pesantemente armate che hanno lo scopo di dirigere e sconvolgere la vita quotidiana costituisce una minaccia reale ed attuale per i comuni cittadini Palestinesi di tutte le età, sia uomini che donne.

Nessun essere umano che usi la ragione, per non parlare di un membro di un esercito di occupazione brutale e di un regime oppressivo, può aspettarsi che le persone private della libertà, dell’indipendenza e del controllo della propria terra e risorse distribuiscano fiori ai soldati che trascorrono le loro giornate umiliandoli, torturandoli ed uccidendoli. I Palestinesi non hanno certo bisogno di qualcuno che li inciti ad agire contro le forze di occupazione; le politiche e le pratiche di Israele nei territori occupati fanno benissimo questo lavoro senza alcun bisogno di input da parte di qualcun’altro. Le decine di bambini e giovani colpiti ed uccisi dalle forze occupanti ai check-point erano loro stessi i testimoni degli omicidi, arresti arbitrari, intimidazioni ed umiliazioni delle loro famiglie, amici e concittadini.

Ignorare le esecuzioni sul campo che sono avvenute incoraggia maggiormente i soldati israeliani dell’occupazione a continuare a sparare a proprio piacimento; sembriamo tutti immuni alla vista di un Palestinese che giace in una pozza di sangue, per nessuna causa apparente, se non per la propaganda in corso di Israele sull'”incitamento” e sugli “attacchi con i coltelli”. Nayfa Ka’abna è soltanto l’ultima di una lunga lista di vittime come Hadil Al-Hashlamoun il cui sangue è stato versato ed è stato fatto fluire in un rigagnolo in modo così insensibile da giovani uomini e donne armati fino ai denti, dotati delle armi e munizioni più avanzate e moderne. Queste donne erano invece ancora più vittime di Israele e della sua continua occupazione, e delle quali al mondo intero sembra non importare nulla.

Traduzione per InfoPal di Aisha Tiziana Bravi