L’‘età dell’oro’ dell’immigrazione degli ebrei verso Israele è finita

jewish-immigrants-arriving-in-israelMemo. Di Rasha Barakeh. L’“età dell’oro” dell’immigrazione degli ebrei verso la Terra Santa è finita, e non c’è modo di cambiare questa situazione. Il progetto israeliano di attirare ebrei europei verso la Palestina si sta dimostrando ampiamente inefficace, nonostante quello che viene definito il “piano di emergenza” del governo.

All’inizio della settimana, il governo israeliano si è riunito per discutere del cosiddetto “piano di emergenza”, teso a portare consistenti gruppi di immigrati ebrei dalla Francia, dall’Ucraina e dal Belgio, nell’ottica della campagna ad ampio raggio in favore dell’espansione coloniale nei territori palestinesi.

Secondo il quotidiano israeliano Yehdiot Ahronot, il piano governativo per attirare migliaia di ebrei che attualmente vivono in Europa entrerà a pieno regime quest’anno. Il governo israeliano pensa di sfruttare i recenti episodi di antisemitismo verificatisi nel Vecchio Continente per incoraggiare l’immigrazione verso Israele.

Il governo ha stanziato circa 180 milioni di shekel in questo progetto, che verosimilmente sarà approvato a breve dal Presidente e dal ministro dell’Immigrazione.

Flussi migratori

George Karzam, studioso di flussi migratori ebraici verso i territori palestinesi, ha recentemente confermato che “nell’ultimo decennio, la migrazione dall’estero verso i territori palestinesi ha registrato un sostanziale calo”.

In un’intervista esclusiva, Karzam ha spiegato che l’immigrazione ebraica verso la Palestina ha raggiunto il suo apice in tre determinati periodi storici: durante il regime nazista in Germania negli anni ’30; durante la Nakba del 1948; e dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda. Karzam ha aggiunto che “negli anni immediatamente successivi alla Nakba e alla creazione dello stato di Israele, negli anni ’50, il flusso migratorio verso Israele ha riguardato soprattutto gli ebrei che vivevano in altri paesi arabi, come l’Iraq, lo Yemen, il Marocco e l’Algeria, all’epoca  sotto il dominio coloniale britannico o francese”.

“In virtù della natura aggressiva delle politiche di espansione coloniale da parte di Israele, ogni flusso migratorio ha determinato un aumento della violenza contro il popolo palestinese, fino a sfociare, ultimamente, nella sistematica oppressione e espulsione di ampie fasce della popolazione”, ha continuato.

In un recente articolo sull’immigrazione ebraica, Karzam ha specificato che, fino al 1948, Israele era riuscito ad attirare 550 mila ebrei in Palestina, attraverso le sue politiche di espansione. Dopo il 1948, i governi che si sono succeduti hanno indotto 3 milioni e 100 mila persone a emigrare verso i territori palestinesi. I flussi migratori si sono concentrati particolarmente nei due periodi storici già citati. Ma anche Karzam giunge alla conclusione che attualmente non sussistono validi motivi che potrebbero indurre gli ebrei che vivono nel Nord America o in Europa a trasferirsi in Palestina.

Nella sua ricerca, Karzam riporta dei dati: 77 mila ebrei si sono trasferiti in Israele nel 1999; la cifra è scesa a 60 mila persone nel 2.000, a 34 mila nel 2001 e a 33 mila nel 2002.

Nel mondo, vi sono all’incirca 14 milioni di persone di religione ebraica, di cui circa il 43% (pressappoco 6 millioni) vive in Palestina e in Israele. Ma, secondo Karzam, il governo Israeliano gonfia queste cifre, censendo i coloni due volte: sia nelle loro residenze israeliane che negli insediamenti illegali su territorio palestinese. Lo studioso, quindi, sostiene che in Palestina non vivano più di 5 milioni e 500 mila ebrei.

Percezione di insicurezza in Israele

Il 2000 costituisce un momento cruciale della storia, poiché segna la sconfitta militare di Israele in Libano, costretto a richiamare i militari presenti nel paese. Sempre in quell’anno, ha inizio anche l’Intifada di al-Aqsa. Sono proprio questi due episodi a segnare la fine della cosiddetta “età dell’oro” dell’immigrazione ebraica verso Israele, con il fallimento di ogni tentativo di incrementarla da parte del governo.

Karzam analizza anche l’aspetto socio-economico dell’immigrazione: molti ebrei che risiedono in Europa sono ben integrati nella società e ricoprono posizioni lavorative ben remunerate, pertanto non accetterebbero di percepire un reddito più basso in Israele.

Ma soprattutto, molti ebrei nutrono timori per la loro sicurezza e, nonostante i recenti attacchi antisemiti, in massima parte ritengono di essere meno esposti in Europa che non in Israele. Molti, anzi, credono che Israele non sia più in grado di proteggere gli ebrei che vivono nei suoi confini.

Anche l’incapacità israeliana di riportare vittorie definitive in Libano e a Gaza viene additata da Karzam tra i fattori che scoraggiano i flussi migratori. “Pertanto, il “Piano di Emergenza” di cui parla Netanyahu è già fallito in partenza, perché da una parte non esistono reali motivazioni che inducano all’immigrazione e dall’altra la sicurezza nazionale è compromessa dai rapporti con i palestinesi che, pur non sfociando in un aperto conflitto, non sono orientati verso la pace”, afferma.

Come già accennato, non sono molti i fattori che attraggono gli ebrei nordamericani ed europei a emigrare verso la Palestina. È proprio questa la ragione che ha spinto il governo di Netanyahu a sfruttare l’attacco contro la redazione di Charlie Hebdo in Francia per favorire una nuova ondata di immigrazione verso Israele. L’obiettivo del governo è di incrementare la popolazione negli insediamenti israeliani, anche attraverso la promessa di moduli abitativi e stabilità finanziaria.

Risposta non immediata

Said Suleiman, esperto di flussi migratori in Israele, d’altro canto, sostiene che l’ostilità manifestata in Europa nei confronti degli ebrei sia un fattore destabilizzante, che fa crescere la sensazione di pericolo nelle popolazioni di religione ebraica e potrebbe indurre “molti ebrei a trasferirsi, secondo i dettami del Piano di Emergenza varato da Netanyahu”.

Suleiman sottolinea che “Il piano avrà conseguenze dirette sui cittadini palestinesi che vivono in Israele entro i confini delimitati nel 1948, e che costituiscono circa il 20% della popolazione totale”.

“Una delle preoccupazioni del governo israeliano continua ad essere la popolazione araba, nonostante questa abbia registrato una notevole diminuzione: per questa ragione, continuerà a favorire l’immigrazione ebraica per cambiare lo status quo”, ha continuato.

In un recente studio ancora inedito, Suleiman scrive: “Le politiche razziste condotte da Israele nei confronti dei palestinesi hanno determinato un drastico calo nelle nascite, dovuto alle difficili condizioni di vita, all’aumento della disoccupazione e all’impossibilità di ottenere assicurazioni sanitarie per i bambini a prezzi accessibili. Tutti questi fattori sono riconducibili alle politiche israeliane dirette contro la popolazione palestinese”.

Il rifiuto al piano di Netanyahu

Sia Karzam che Suleiman hanno espresso dubbi in merito al successo del piano di emergenza varato da Netanyahu e si dicono convinti del fallimento delle politiche tese ad attirare persone di religione ebraica a emigrare in Israele.

Secondo Suleiman, gli ebrei che vivono in Europa non risponderanno immediatamente all’appello rivolto dal governo israeliano; Karzam, invece, prevede che “Israele riuscirà a far insediare in quell’area tra le 5.000 e le 7.000 persone, con un impatto molto modesto sull’attuale situazione demografica”.

In effetti, molti ebrei che vivono in Europa hanno respinto l’invito di Netanyahu, confermando quindi le perplessità dei due studiosi. In massa, gli ebrei danesi hanno palesemente rifiutato l’invito che Netanyahu aveva rivolto dopo l’attacco di domenica 15 febbraio contro la sinagoga di Copenhagen. Jib Gohel, portavoce della comunità ebraica danese, ha così risposto all’appello di Netanyahu: “È vero, siamo ebrei danesi, quindi siamo cittadini danesi”.

Traduzione di Romana Rubeo