Libano, se il jihad è fatto in casa.

Libano, se il jihad è fatto in casa

Altro che palestinesi. I miliziani di Fatah al Islam sono per lo più
originari del Paese dei cedri. Una verità scomoda, di cui nessuno ama
parlare nel rione di Abu Samra, a Tripoli, roccaforte storica del
salafismo libanese.

Michele Giorgio
Inviato a Tripoli (Libano)

«No, i loro nomi non mi dicono nulla, qui a Tripoli non li ho mai
sentiti», dice tenendo lo sguardo basso la velatissima commessa del
negozio di saponi tradizionali «Juliette». Il proprietario da parte
sua dice di essere occupato con un cliente e non risponde alle nostre
domande. Siamo nel rione di Abu Samra, roccaforte storica del
salafismo libanese, ma nessuno conosce i 20 salafuyyun, veri o
presunti, militanti di di Fatah al Islam incriminati (ieri) dal
giudice militare per partecipazione ad una «organizzazione
terroristica» e detenzione illegale di armi ed esplosivi. Davvero
strano perché gli incriminati sono tutti libanesi – tranne uno, di
origine siriana – e in gran parte di Tripoli.
Nessuno ha voglia di parlare della componente libanese di Fatah al
Islam, si preferisce addossare le responsabilità ai palestinesi anche
se è evidente che questo gruppetto che si nasconde nel campo profughi
di Naher al Bared è ben radicato nel nord del Libano. E, naturalmente,
dice ben poco agli interpellati anche il nome di Shehab al Qaddour,
«Abu Hureireh», il comandante militare di Fatah al-Islam, nato vicino
Akkar ma cresciuto a Tripoli dove ha studiato nella scuola di
Zahiriyyah. «Abu Hureireh? No, non so proprio chi sia», dice un
giovane scuotendo la testa. Vietato parlarne, specie ai giornalisti
stranieri che da queste parti non godono di molte simpatie. Sarà un
caso ma invece tutti conoscono bene il capo di Fatah al Islam, il
palestinese Shaker Abbasi. «Sì, qualche tempo fa girava qui nella zona
del mercato, nella città vecchia», ricorda qualcuno evidenziando un
prodigioso recupero della memoria.
Da quando sono cominciati i combattimenti tra l’esercito e i militanti
di Fatah al Islam nel campo palestinese di Naher al Bared, a
sette-otto km dalla città, molti abitanti di Tripoli preferiscono
tacere su questi argomenti «compromettenti». Con una presenza tanto
massiccia di pattuglie militari e posti di blocco ad ogni angolo e,
naturalmente, anche di agenti dei servizi di sicurezza, parlare dei
salafiyyun può avere conseguenze serie. Non teme ritorsioni invece il
predicatore Omar Bakri Mohammad – nel 2001 divenne noto per aver
definito «magnifici 19» i dirottatori dell’11 settembre – che ammette
senza problemi l’esistenza di un legame forte tra Fatah al Islam e il
movimento salafita sviluppatosi nella sua città. «Se non sarà trovata
al più presto una soluzione al conflitto in corso a Naher al Bared, i
combattenti di Al-Qaeda si moltiplicheranno in tutto il Libano»,
avverte, spiegando che in Fatah al Islam sta prevalendo la corrente
filo-Osama bin Laden su quella «autonomista».
Quanto siano fondati gli ammonimenti di Bakri Mohammed è difficile
valutarlo in una situazione, politica e sociale, tanto complessa come
quella libanese. Gli unici dati certi che stanno emergendo in questi
ultimi giorni sono la scarsa componente palestinese di Fatah al Islam,
almeno rispetto a quanto si riteneva all’inizio, e la funzione di
Tripoli, o meglio di alcuni quartieri della città, quale nido prima e
poi rifugio sicuro per il radicalismo salafita che da queste parti
guarda con cauto favore anche al partito «Mustaqbal» dell’ex premier
assassinato e, soprattutto, principale esponente musulmano sunnita
Rafiq Hariri, e ora guidato da suo figlio Saad. A indicarlo ad inizio
anno era stato anche un giornalista noto internazionalmente come
l’americano Seymour Hersh al quale certo non mancano ottimi contatti
negli ambienti governativi libanesi e in «Mustaqbal». Fanno perciò
sorridere i proclami del premier Fuad Siniora, portavoce ed esecutore
dei desideri degli Hariri, che da un lato lancia l’offensiva contro il
«terrorismo» – che per ora si è manifestata solo nella distruzione di
centinaia di case a Naher al Bared e nella fuga dai bombardamenti di
migliaia di profughi palestinesi – e poi lascia, ad esempio, ampio
spazio di manovra all’ideologo del salafismo libanese Daii al-Islam
al-Shahal che pure non nasconde il suo sostegno a Fatah al Islam e ad
altre organizzazioni – come Osbat al Ansar e Jund al Sham – che hanno
approfittato di un accordo del 1969 che impegna l’esercito libanese a
non entrare nei campi profughi palestinesi.
Al-Shahal smentisce di essere protetto dal regime ma, allo stesso
tempo, afferma che il salafismo è servito a ridare «dignità e
speranza» ai musulmani sunniti di fronte alla crescita numerica e
politico degli sciiti e, quindi, di Hezbollah. Aspetto che certo sta a
cuore a «Mustaqbal» e al premier Siniora. «Ci sentiamo presi di mira e
messi ai margini – spiega lo sceicco in riferimento alla "condizione"
dei sunniti libanesi – veniamo puniti severamente quando commettiamo
un errore. Così accanto a quelli che si sono uniti a Fatah al-Islam,
ci sono altre migliaia sono pronti a sacrificarsi (per il sunnismo) di
fronte all’impunità di cui godono altre sette (gli sciiti, ndr) in
questo paese». Più chiaro di così non si può ma al Gran Serraglio di
Beirut fingono di non sentire.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/31-Maggio-2007/art37.html

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