Libano. Un laboratorio della 'destabilizzazione creativa Usa'.

Libano. Un laboratorio della "destabilizzazione creativa" USA*

Chi sono e da chi sono usati i miliziani di Fatah al Islam? Nel nord del Libano gli USA vogliono impiantare una base militare. Che fine farà il modello interventista multilaterale di D’Alema alle prese con la destabilizzazione guidata da USA e Arabia Saudita?

 

Gli eventi sul territorio libanese incalzano e tutti indicano che stiamo andando verso una nuova estate di scontri e tensioni. L’onda di ritorno di questa situazione, in Italia saranno più immediati. In Libano infatti ci sono anche alcune migliaia di soldati italiani e il governo Prodi (con D’Alema soprattutto) ha investito moltissimo sull’intervento militare in Libano come sperimentazione di un modello di interventismo “multilaterale” a livello europeo nei teatri di crisi nell’area di influenza dell’Europa.

I recenti scontri intorno e dentro il campo profughi palestinese di Nahr el-Bared tra l’esercito libanese e i miliziani di Fatah al Islam, sembrano dover diventare il detonatore per una complessa operazione di destabilizzazione creativa  da parte degli USA nel Paese dei Cedri. Ci sono notizie importanti su questo che meritano di essere conosciute ma che vengono sistematicamente occultate o manipolate nei resoconti giornalistici a disposizione dell’opinione pubblica.

 

Chi è Al Fatah al Islam?

Il gruppo Fatah al Islam nasce come scissione di Al Fatah-Intifada che a sua volta era stata una sanguinosa scissione dall’ Al Fatah di Arafat nel 1983. La scissione fu guidata da Abu Moussa e portò ad un sanguinoso assedio dello stesso Arafat e dei suoi sostenitori nei campi profughi del Nord del Libano e nella stessa Tripoli, dopo la ritirata dei feddayn dal Libano nel 1982 a seguito dell’invasione israeliana Arafat era riuscito e rientrare in Libano ma dovette fare i conti con la scissione di Abu Moussa che ebbe all’epoca l’aperto sostegno della Siria. Successivamente, l’organizzazione di Abu Moussa subì una scissione del gruppo che darà  vita a Fatah al islam con una più accentuata connotazione religiosa.

Il gruppo di Fatah al Islam è praticamente estraneo ai palestinesi dei campi profughi in Libano ed è composto in larghissima parte da libanesi e da arabi provenienti da altri paesi: sauditi, marocchini, giordani, yemeniti, egiziani. Ma il dato più interessante (e più omesso dai reportage e dai notiziari) è che ai palestinesi questo gruppo risulta finanziato dal figlio di Hariri, il multimiliardario legato ai sauditi, ex premier libanese assassinato alcuni fa in un delitto dai contorni estremamente oscuri, utilizzato sistematicamente dagli Usa, dalla Francia e dalla destra libanese come casus belli contro l’influenza della Siria sulla situazione libanese. Il gruppo è stato tollerato, finanziato ed aiutato ad insediarsi nel 2006 nel campo profughi palestinese di Nahd el Bared. Hariri jr. oggi è il leader politico sunnita della coalizione che sostiene il governo filo-Usa di Siniora ed è uno dei più oltranzisti nello scontro con la Siria e con Hezbollah.

 

Il ruolo nefasto della famiglia Hariri (fiduciari sauditi)

Hariri intende usare i servigi del gruppo Fatah al islam per tre motivi:

a)      Ostacolare la crescita di prestigio di Hezbollah (sciita) tra i palestinesi dei campi profughi e tra i musulmani libanesi.

b)      Creare una alternativa nel campo sunnita all’influenza di organizzazioni politico-religiose come Hamas e Jihad islamica tra i palestinesi dei campi profughi in Libano

c)      Dare vita ad un gruppo sunnita per rilanciare uno scontro fratricida tra sunniti e sciiti libanesi e per rilanciare in grande stile l’attacco contro l’anello debole della società libanese: i profughi palestinesi

 

In queste settimane in Libano (ma anche in tutte le agenzie stampa internazionali) si tende ad addebitare a Fatah al Islam ogni attentato avvenuto recentemente in Libano e ad accreditarli – con un assioma che non si regge in piedi – come sostenuti contemporaneamente dalla Siria e vicini ad Al Qaida.

Con il pretesto di estirpare questo gruppo dal campo profughi palestinesi (i cui abitanti a causa dei bombardamenti e dell’esodo sono già scesi da 30.000 a 5.000), il governo Siniora e l’esercito libanese stanno rilanciando la campagna per il disarmo dei campi profughi palestinesi, a cui fino ad oggi era stato consentito di tenere armi leggere per l’autodifesa a seguito dei massacri avvenuti nei campi profughi fino al 1990. I palestinesi tornano così ad essere l’agnello sacrificale e il corpo estraneo delle tensioni interlibanesi e delle ingerenze internazionali sul Libano, incluse quelle crescenti dell’Arabia Saudita in stretta alleanza con gli Stati Uniti e la Francia.

 

Gli USA vogliono rimettere piede in Libano

Nel mese di aprile, il quotidiano libanese Aldiyar  ha riferito che presto verrà costruita una base NATO sul terreno di una grossa base aerea abbandonata a Klieaat nel Libano settentrionale. La base servirà per i quartieri generali di una Forza di Dispiegamento Rapido della NATO, per squadroni di elicotteri e unità delle forze speciali. La copertura ufficiale preparata dai governi Usa e da quello libanese è che la base fornirà addestramento per l’esercito libanese e le forze di sicurezza. La costruzione della base è stata sostenuta dal pentagono e dall’ufficio del segretario alla difesa USA. Con il pretesto di riportare la sicurezza nel nord del Libano e di mettere fini ai disordini, il governo Siniora e i suoi sponsors internazionali (USA, Francia, Arabia Saudita) puntano alla richiesta di tutela militare internazionale sul paese. Da qui l’arrivo di ingenti aiuti militari all’esercito libanese da parte di USA e Arabia Saudita ma anche il ventilato progetto di inviare un contingente militare statunitense in Libano annunciato dal Sottosegretario di Stato USA Mc Cormack. Gli USA erano stati cacciati militarmente dal Libano nel 1984 e da allora non avevano più potuto mettere piede nel paese, neanche nel quadro della missione multinazionale Unifil 2. Si apre dunque una posta molto pesante e pericolosa.

 

Salterà la “pax dalemiana”? La missione Unifil 2 è a rischio

Se gli USA decidono di inviare un contingente militare in Libano, magari composto da un “centinaio di consiglieri militari” per l’esercito libanese, è chiaro che ritengono inefficace ed inefficiente la missione militare Unifil 2 già presente sul campo ma dislocata nel sud del paese. Significa anche che ritengono inadeguata alla “stabilità del Libano” la linea adottata dai governi europei (Italia, Spagna e Francia soprattutto) attraverso la missione Unifil 2. Significa anche – e concretamente – che gli USA hanno deciso di far saltare la “pax europea” in Libano e sobillare nuovamente il fuoco della guerra civile e degli interventi militari esterni sgretolando il modello messo in piedi da D’Alema per l’ingerenza sugli assetti del Mediterraneo Sud

In questi dieci mesi trascorsi dalla guerra di luglio in Libano e dal successivo intervento militare italiano ed europeo attraverso Unifil 2, in molti – anche a sinistra e nel movimento per la pace – si sono rifiutati di guardare alla situazione libanese con l’attenzione e le analisi dovute. Ci si è appiattiti e talvolta nascosti dietro la “diversità” dell’interventismo militare multilaterale sostenuta da D’Alema rispetto a quello USA, ritenendo che la diversità tra i due modelli fossero delle alternative politiche sul piano delle relazioni internazionali.

Ciò spiega l’ostinato e ipocrita rifiuto del confronto con le valutazioni politiche di Hezbollah o dei comunisti libanesi, i silenzi, gli abbagli (“nell’Unifil 2 ci saranno anche i russi e i cinesi”, sic!) o lo sbracamento sull’illusione dell’autonomia di una indefinita “società civile libanese”, specchietto delle allodole utile solo per far arricchire un po’ di ONG “molto governative” con i finanziamenti della cooperazione italiana in Libano.

Questo appiattimento e la rinuncia ad analizzare e denunciare le forme moderne del neocolonialismo, hanno prodotto un deserto politico in cui diventa urgente reimpiantare semi di analisi e di iniziativa internazionalista. In Libano si annuncia una estate piena di tensioni che metteranno a dura prova tutti gli assetti interni e regionali, inclusi gli interessi italiani nell’area.

Vogliamo cominciare a ragionare e prendere in esame momenti di discussione e iniziative sin da ora o dovremo come al solito aspettare i bombardamenti, i lutti e le autocritiche postume?

 * Il seguente articolo uscirà sul prossimo numero di Contropiano disponibile dal 9 giugno prossimo alla manifestazione nazionale contro Bush

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