L’ideologia “Nakba 2.0” di Benny Morris

MEMO. Di Husam Shaker. Benny Morris conosce perfettamente il significato della parola Nakba. Tuttavia, non sembra avere problemi a ripeterla, e la considera più adatta al 21o secolo e, di fatto, un dovere. Come si può desumere dalle sue stesse parole, questa potrebbe essere la “Nakba 2.0”- che sarà una versione più intelligente e decisa rispetto alla prima che avvenne in Palestina durante la guerra del 1948. 

Morris, uno degli storici più conosciuti di Israele, è famoso per aver revisionato gli archivi riguardanti gli sfollamenti forzati dei Palestinesi. Ed ha smesso di utilizzare il termine “pulizia etnica” in riferimento alla Nakba che ha di fatto trasformato molti Palestinesi in rifugiati. Il suo lavoro – assieme a quello di altri pensatori che sono divenuti noti come “nuovi storici” – ha contribuito alla dismissione della propaganda israeliana, che ha diffuso affermazioni sui rifugiati e sulle evacuazioni di massa del popolo palestinese. 

Comunque, Morris non ha espresso posizioni di principio. Egli piuttosto non ha accettato quel che è accaduto solo da un punto di vista specifico, che ha deciso di rivelare più tardi quando ha affermato che la pulizia etnica non era ancora stata terminata. In questo si differenzia dai suoi colleghi che hanno mostrato invece una posizione ben chiara ed un impegno morale, come Ilan Pappé, l’autore della Pulizia Etnica della Palestina (2006). 

Benny Morris appare pubblicamente nel 21o secolo con chiare e spiccate tendenze di destra. Oggi egli parla come se fosse il mentore ideologico del governo di estrema destra guidato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Questo pregiudizio politico ha un enorme significato. Attualmente Morris sta utilizzando le sue competenze e la sua reputazione di storico prominente per giustificare la pulizia etnica dei Palestinesi, sottovalutando il processo o considerandolo necessario per l’esistenza dello stato di Israele. Morris ritiene che il dislocamento forzato o la pulizia etnica non siano poi così male, al contrario di come invece la pensano tutto il resto del mondo, i difensori dei diritti umani, dei valori, dei principi e delle varie Carte. Secondo lui l’unica alternativa a queste scelte è il genocidio. 

Morris esprime una preoccupazione esistenziale crescente per quanto riguarda “il destino di Israele”. Tuttavia, in questo caso, la preoccupazione sembra essere solo una scusa per riuscire a giustificare il comportamento risolutivo che le élite al potere intendono adottare nei confronti del popolo palestinese, senza prendere in considerazione nessun aspetto morale. Quando si arriva alla questione “essere o non essere”, trascurare i valori e rifiutare gli obblighi divengono, per questo tipo di persone, scelte ragionevoli. 

La giustificazione di Morris è la miglior interpretazione delle espressioni che terrorizzano gli israeliani, e che sono state proclamate dallo storico settantenne durante un’intervista rilasciata a gennaio al quotidiano Haaretz. Nell’intervista – dal titolo “Questo luogo è destinato ad affondare e gli ebrei rimarranno una minoranza perseguitata e potrebbero fuggire negli USA” – Morris ha rivelato una sua visione molto pessimistica. Ha affermato che “questo posto [Israele] sarà un paese mediorientale in rovina a maggioranza araba nel quale gli ebrei resteranno una esigua minoranza in mezzo ad un enorme mare arabo di Palestinesi. Una minoranza sottoposta all’oppressione o al massacro”. 

Morris ha scelto di lanciare i suoi avvertimenti contro questo terribile destino in occasione del suo ritiro dalla vita accademica. Tuttavia, si tratta del solito metodo, tristemente noto, che serve a riaccendere il senso di pericolo esistenziale degli israeliani, e che tipicamente introduce ai discorsi di mobilitazione israeliani che incitano ad azioni decisive e crudeli contro la fonte della minaccia, rappresentata dal popolo palestinese soggetto all’occupazione – e non contro “le armi chimiche di Saddam Hussein [ex-presidente iracheno]” o contro “l’olocausto di Ahmadinejad [Mahmoud, ex-presidente iraniano]” o contro “la bomba iraniana”, ad esempio. Questo discorso incontra quindi la crescente retorica fascista dei poteri decisionali israeliani. 

Le conclusioni di Morris sembrano quelle ideali per l’élite estremista al potere, che può adottarle per avviare una campagna risolutiva contro il popolo palestinese – oltre a tutto ciò che è stato commesso contro di loro fino ad ora – col pretesto che “se non li uccidiamo, ci uccideranno loro”. 

Nell’intervista Benny Morris dipinge un’immagine mostruosa dei Palestinesi senza azzardarsi a descriverli come esseri umani, proprio come fanno tutti i politici e gli ufficiali militari israeliani. Ciò è perfettamente appropriato per giustificare la loro uccisione, incolpandoli per il loro destino. Morris non è soltanto uno storico; è anche un brillante sostenitore del dislocamento forzato e della pulizia etnica. E lo ha dichiarato espressamente durante un’intervista del 2004 con Ari Shavit su Haaretz, quando ha detto: “Lo stato ebraico non sarebbe stato in grado di crescere se 700.000 Palestinesi non fossero stati sradicati dalle loro terre. E’ stato quindi necessario dislocarli”. 

L’impressione che emerge dalle successive posizioni di Morris, nel corso degli anni, è che il fallimento nel completare la pulizia etnica contro il popolo palestinese sia stata una grave mancanza. 

Essendo uno storico, è più facile per lui comprendere che la sopravvivenza delle popolazioni indigene nei loro paesi, senza sterminarle o spostarle, ha portato alla fine di tutte le occupazioni coloniali sperimentate nel mondo fino ad ora. Ciò è sempre accaduto in passato perchè cercare di stabilire un controllo totale sopra un altro popolo, sottoponendolo al potere dell’occupazione militare, non è mai stata una scelta ragionevole. Come potrebbe riuscire ora? Morris lo spiega attraverso chiari indicatori demografici, che descrivono la crescente popolazione palestinese in tutta la Palestina a partire dal Mandato (27.000 chilometri quadrati dei quali la Cisgiordania costituisce solo un quinto) ad un ritmo più veloce di quello degli ebrei israeliani, nonostante tutti i generosi ed instancabili sforzi finanziari per stabilire insediamenti illegali. 

Il problema demografico, secondo Morris, non è limitato alla Cisgiordania occupata e alla Striscia di Gaza assediata. Piuttosto, egli sembra essere chiaramente preoccupato dai Palestinesi che hanno ricevuto la cittadinanza israeliana forzatamente dopo la Nakba – i cosiddetti “Arabo-Israeliani” o “cittadini palestinesi di Israele” – e questo sentimento è condiviso da alcuni ministri del governo di Netanyahu. Morris continua usando espressioni umilianti che mettono in luce il suo razzismo. Tratta la maggior parte del popolo palestinese con un atteggiamento condiscendente, che non prevede la logica dei diritti e della giustizia. 

Morris appare come un individuo nel mezzo di una trincea ideologica, che usa la sua posizione accademica e le sue espressioni scientifiche a favore di un insolito progetto di occupazione. Ha palesato le sue inclinazioni politiche di destra e sembrava persino entusiasta di Netanyahu, solo a due mesi dalle elezioni generali del 9 aprile. 

Quel che Morris volutamente non menziona è che il governo Netanyahu – che comprende coloni ed altri figuri conosciuti per essere dei fascisti – ha già inserito nel suo programma lo spostamento forzato di Palestinesi da alcune città. Esso riguarda almeno l’area C della Cisgiordania, importante dal punto di vista strategico, con Khan Al-Ahmar, per fare un esempio, villaggio beduino situato ad est di Gerusalemme che è stato più volte minacciato di demolizione. I politici israeliani, tra i quali il dimissionario ministro della difesa Avigdor Lieberman, hanno ripetutamente chiesto lo spostamento forzato dei beduini. A novembre Netanyahu ha annunciato: “Khan Al-Ahmar sarà evacuata molto presto. Non vi dico quando, ma siate pronti”, ma il problema è che l’attuazione dello sfollamento forzato, in questa zona strategica, non sarà certo un pic-nic. 

I Palestinesi di Khan Al-Ahmar rimangono saldi, nonostante le dure condizioni di vita imposte loro. Hanno indetto una battaglia civile che ha raggiunto ogni angolo del globo ed hanno ricevuto supporto da varie parti. Restano aggrappati al luogo che le autorità di occupazione spingono perché abbandonino in favore dell’espansione degli insediamenti e per rafforzare il controllo delle terre, che dovrebbe restare senza nessun Palestinese. Le autorità israeliane agiscono allo stesso modo in altri 45 villaggi palestinesi che non sono riconosciuti neanche nella regione del deserto del Negev. Distruggono frequentemente alcuni di essi per cercare di far sfollare chi vi abita, come ad Al-Araqib e Umm Al-Hiran. Mentre la città settentrionale di Al-Fahm, occupata nel 1948 assieme alla sua popolazione palestinese, è sottoposta continuamente, da decenni, a minacce di deportazione di massa. 

Più in generale, il governo di Israele attua una politica di dislocamento forzato lento e silenzioso, utilizzando mezzi come l’espansione coloniale, la restrizione dei mezzi di sussistenza dei Palestinesi, la confisca dei terreni, il controllo delle acque e delle risorse economiche e l’aumento delle limitazioni per le costruzioni residenziali e l’urbanizzazione. Israele causa loro problemi anche con campagne di arresti giornalieri e con l’alto numero di posti di blocco che separano città e villaggi le une dagli altri, oltre al “Muro di Separazione” eretto in tutta la Cisgiordania occupata, che le autorità occupanti hanno continuato a costruire nonostante le obiezioni giunte dai governi di tutto il mondo, oltre che dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dalla Corte Internazionale di Giustizia. 

I leader politici israeliani stanno monitorando l’influenza che queste condizioni di vita hanno sui Palestinesi che risiedono in Cisgiordania, come il membro del Knesset Bezalel Smotrich che sta seguendo con grande interesse in che modo l’occupazione costringa ogni anno quasi 20.000 Palestinesi della Cisgiordania ad andarsene. Tuttavia, egli punta anche sulla congiuntura per risolvere la situazione demografica, parlando a proposito del 30% della popolazione della Cisgiordania che desidera emigrare, in quanto essa può essere dislocata più facilmente incrementando i fattori che li spingono a spostarsi. 

Questi politici, che hanno una posizione convulsa, non si accontentano di osservare le conseguenze delle politiche di occupazione. Piuttosto essi premono per riuscire finalmente ad ottenere una realtà senza il popolo palestinese su queste terre. Smotrich ed i suoi colleghi del partito Jewish Home hanno adottato, nel settembre 2017, un “Piano Decisivo” che, secondo loro, sarebbe “meno costoso” delle guerre di Israele degli ultimi anni. Il piano prevede di guidare un gran numero di Palestinesi fuori dal loro paese e, contemporaneamente, l’intensificazione degli insediamenti in Cisgiordania, con lo scopo di “determinare un destino fermo ed eterno” in uno stato che dovrebbe essere soltanto ebraico; prevede inoltre un accordo risolutivo tra autorità israeliane ed esercito con tutti coloro che rifiutano l’occupazione. 

Questo piano fascista ha ricevuto anche un supporto ideologico da siti “accademici”, come suggeriscono le dichiarazioni di Benny Morris, che fornisce opinioni sufficienti per suscitare campanelli d’allarme in tutto il mondo. Ad esempio, egli sottovaluta le centinaia di massacri compiuti dalle forze sioniste durante la Nakba – come il massacro di Deir Yassin, vicino a Gerusalemme – che è particolarmente simbolico nella memoria collettiva del popolo palestinese. Egli ritiene anche che lo sfollamento forzato sia una opzione più leggera dello sterminio. 

Le affermazioni inappropriate di Morris non arrivano da sole e provocano importanti sviluppi. Infatti Morris parla mentre al governo degli USA vi è un presidente “scelto da Dio per questa posizione”, come ha dichiarato alla CBN la portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders, a gennaio scorso. Questa è una definizione coerente con l’opinione attuale degli ambienti USA ed israeliano, che considerano il presidente Donald Trump “un inviato dal cielo per Israele”. A differenza dei suoi predecessori, Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele e vi ha trasferito l’ambasciata americana. I suoi associati partecipano pubblicamente alle attività degli insediamenti coloniali e la sua amministrazione sta cercando di affamare ed impoverire i profughi palestinesi, per spingerli ad emigrare, riducendo le risorse dell’UNRWA. Inoltre, sempre sotto il suo governo, il Knesset israeliano ha promulgato la Legge dello Stato-Nazione che palesa le tendenze razziste dei detentori dei poteri decisionali israeliani. 

Benny Morris è d’accordo con queste tendenze, col suo tono prevenuto anche nei confronti di quei Palestinesi che costituiscono quasi un quarto della popolazione del suo paese e la cui nazionalità è stata loro imposta con la forza ma che non hanno alcun posto nell’identità e nella cultura di questo stato, secondo quanto affermato dalla stessa legge razzista. Lo storico fa il suo lavoro ideologico in un paese che rifiuta di stabilire i propri confini. Alcuni di coloro che detengono il potere decisionale sono desiderosi di intraprendere campagne definitive di pulizia etnica e chissà, magari qualcuno commentando da Washington la “Nakba 2.0” potrebbe dire che “Dio l’ha voluta!”.

Traduzione per InfoPal di Aisha Tiziana Bravi