“L’indipendenza” degli israeliani è la catastrofe dei palestinesi

Memo. Le celebrazioni per l’indipendenza di Israele sono sempre corredate da un significato implicito inevitabile; è anche la catastrofe palestinese – Nakba. Se da una parte gli israeliani hanno celebrato il loro 65° anniversario proprio questa settimana, decine di migliaia di palestinesi hanno manifestato per commemorare quella che per loro è stata una catastrofe. Quest’anno per i palestinesi il ricordo è stato ancora più amaro dal momento che la commemorazione  ha coinciso con l’ampliamento della Legge per la Cittadinanza israeliana, che impedisce la riunificazione dei palestinesi rimasti in Israele con i loro parenti emigrati in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza. Dalla sua messa in atto nel 1952, Israele si è servito di questa legge come strumento per limitare duramente la crescita della popolazione palestinese nel paese e prevenire il ritorno delle centinaia di migliaia di persone che erano state espulse nel 1948. Non sorprende dunque che, tra le attività svolte durante le celebrazioni del Nakba quest’anno la rivendicazione del diritto a rimpatriare occupasse una posizione di primaria importanza.

Con l’organizzazione di una marcia verso il villaggio abbandonato di Khabeeza, i dimostranti hanno voluto riaffermare il loro rifiuto a quella finzione storica che è stata la liberazione dal colonialismo nel 1948. Ciò che è realmente accaduto, secondo Jamal Zahalka portavoce del partito Balad, è che l’Inghilterra, ovvero la potenza straniera che dominava il paese, è stata sostituita da un’altra potenza, cioè Israele. Tuttavia, il processo di pulizia etnica non è stato completato con la cosiddetta Guerra d’Indipendenza israeliana e continua a gettare un’ombra sulle vite di quei palestinesi che sono rimasti nel 1948.

Le celebrazioni hanno rivelato un lato di Israele di cui si parla raramente e che spesso viene ignorato o tenuto nascosto. È emblematico il caso della città di Nazareth Illit; il sindaco di questa città ha fatto circolare un articolo intitolato “Nazareth Illit: per sempre un’identità ebraica”. Il contenuto e il tono del documento sono così forti che non solo hanno suscitato le ire dei palestinesi in Israele, ma anche quelle degli israeliani di origine ebraica. “Non si può più far finta di niente, non si può più accettare incondizionatamente quella legge che permette a ogni cittadino di vivere dove più gli piace”, recita il volantino, “è venuto il momento di proteggere le nostre case”. Ilan Gilon, membro del Parlamento – Knesset – per il partito Meretz, ha fatto appello alla corte suprema affinché venga aperta un’inchiesta per “affermazioni razziste”.

Nel contesto israeliano questa non è certo una novità. Il 20 luglio 1975 il giornale di Maariv riportava che alcuni manifestanti di origine ebraica minacciavano di usare la forza per prevenire “la trasformazione di Nazareth Illit in una città araba”. Ancora oggi, in città non esiste una scuola per gli studenti di origine araba, nonostante essi siano più di 2000.

In un’autentica democrazia, una frase come quella appena citata sarebbe stata condannata come un chiaro incitamento all’odio razziale e alla discriminazione, ma stiamo parlando di Israele; è questa la vera natura dell’ideologia che scorre attraverso tutti i livelli della società israeliana.

Nel Negev, l’amministrazione di Bir Saba’a ha annunciato la sua intenzione di celebrare “l’indipendenza” dello Stato di Israele nella moschea storica della città. Questa venne chiusa nel 1948, negando così il diritto a migliaia di musulmani di utilizzarla come luogo di culto. L’associazione locale Arab Land ha pubblicamente condannato quest’ultima iniziativa come provocatoria e irrispettosa.

Tuttavia, non è unicamente l’impedimento al diritto di culto che alimenta le tensioni. Ogni volta la profonda negazione dell’identità altrui da parte degli israeliani dimostra che questa loro attitudine è la regola e non l’eccezione. All’Università di Haifa, i funzionari hanno cancellato questa settimana un evento per la commemorazione del Nakba. Nonostante il comitato organizzativo degli studenti avesse ottenuto il permesso a dar vita all’evento ben due giorni prima, il ministro dell’Educazione, Gideon Sa’ar, soltanto undici ore prima ha fatto cancellare la manifestazione, temendo che sarebbero circolati volantini che avrebbero riportato nel testo la parola Nakba. Senza ombra di dubbio, ciò conferma che la discriminazione da parte degli israeliani non è circoscritta alla presenza fisica dei palestinesi, ma include anche la loro storia, la cultura e la vita intellettuale.

Ci sono state altre pesanti critiche riguardo le attività per la commemorazione del Nakba. In un modo molto peculiare il precedente ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ha affermato che ciò è una prova che qualsiasi accordo con il PLO/PA deve includere anche i palestinesi in Israele. Egli è stato un fervente sostenitore del “trasferimento”- in altre parole, espulsione- dei palestinesi da Israele. Per un non addetto ai lavori ciò potrebbe sembrare estremo, ma in Israele questo è perfettamente accettabile in quanto i cittadini non ebrei acquistano la cittadinanza come un privilegio concesso dalla legge, non per diritto di nascita.

Quei palestinesi che 65 anni fa sono rimasti nelle loro case non solo continueranno ad affermare il loro diritto a vivere sulla loro terra, ma anche a chiedere i loro diritti umani universali, incluso il diritto a tornare in patria per coloro che sono stati minacciati dalle milizie ebraiche e costretti con la forza ad andarsene. Nonostante fossero consapevoli del fatto che Stati come Israele avrebbero utilizzato le leggi di nazionalità per mettere in atto l’esilio forzato e negare il diritto a tornare in patria, gli autori della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani hanno scritto: “Ognuno ha il diritto di abbandonare ogni paese, incluso il proprio paese di nascita, e di ritornare nel proprio paese” (Articolo 13)”. Hanno scelto la parola “paese” per enfatizzare il concetto di luogo di residenza abituale in circostanze normali. La creazione dello Stato di Israele in Palestina, nel 1948, non nega ai palestinesi il diritto di vivere nella loro terra nativa, nel loro paese.

La discriminazione di cui si ha testimonianza oggi non è segno della bigotteria di un piccolo numero di funzionari come il sindaco di Nazareth o il precedente ministro degli Esteri. È una forma sistematica di discriminazione insita e supportata dalle leggi del paese. È una forma di discriminazione razziale che va contro i valori e gli standard di legalità del XXI secolo. Ed è per questo che “l’indipendenza” di Israele rimane una catastrofe, un Nakba, per i palestinesi.

 

Traduzione per InfoPal a cura di Chiara Biffi