L’ultima deportazione dei Falasha in Israele

Di L.P. Gli interventi gestiti dai servizi segreti israeliani “operazione Mosè”, “operazione Giosuè” e “operazione Salomone”, effettuati tra il 1984 e il 1991, avevano deportato in massa in Israele persone di etnia Falasha, storica minoranza ebraica di origine etiope. Alla fine degli anni settanta, minacciati da carestie e repressione del governo etiope passarono in Sudan, per poi subire dai governi sudanesi le stesse ostilità. Fu così che Israele scelse di “portarseli a casa”, con l’intento di riunificare tutto il “focolare ebraico”. Prima vennero rinchiusi in campi di concentramento e in seguito la maggior parte venne deportata attraverso tre operazioni aeree. La promessa era vivere in pace in Terra Santa, invece, una volta arrivati incontrarono condizioni sociali pessime.

Giovedì 21 maggio sono atterrati all’aeroporto Ben-Gurion, vicino al Tel Aviv, 119 falasha che vivevano da anni in condizioni emergenziali e di povertà nei campi di transito di Addis Ababa e Gondar.

A fine marzo, poco prima che l’Etiopia chiudesse le sue frontiere per Covid-119, erano già arrivati 14 nuclei familiari falascià (72 persone in tutto). Poi il governo dello Stato ebraico avevo sospeso i voli per motivi sanitari. Tempo fa la Knesset aveva approvato e pianificata per marzo 2020 l’immigrazione per 250 ebrei etiopi”, secondo quanto riporta AfricaExpress.                                                                                    

Anche se alcuni di loro hanno raggiunto importanti ruoli militari ed occupano posizioni rilevanti nella Knesset, come la ministra per l’Immigrazione Pnina Tamano-Shata, la loro condizione lavorativa in Israele non è semplice e guadagnano un terzo in meno rispetto alla media.

Oggi nello Stato sionista vivono 140.000 falasha, per lo più in miseria e soggetti a discriminazioni di ogni genere. Essendo “neri” sono vittime del suprematismo bianco askenazita che oltre a discriminare i palestinesi, oppone a sé qualsiasi minoranza etnica ebraica come gli haredi, i mizhrai che non hanno carnagione chiara. Contestano sempre di più il crescente razzismo, il razzismo di genere verso le donne e che solo la metà di loro riesca ad ottenere il diploma contro il 63% del resto della popolazione. Molti infatti, per non sentire su di loro il peso dello stigma, preferiscono farsi chiamare Beta Israel, visto il significato negativo della parola “falasha” in lingua amarica, ovvero “emigrato” e “straniero”.

Molti dei falasha appena arrivati hanno per anni vissuto nel mito idealizzato del “Paradiso Terrestre” presente in Israele e, purtroppo per loro, basterà poro per ricredersi.