L'utopia di una fiera ebraico-palestinese.

Da Liberazione

L’utopia di una fiera ebraico-palestinese

Angelo d’Orsi

La pulizia etnica della Palestina. Così s’intitola uno
straordinario, drammatico libro – quasi un reportage
documentatissimo e insieme una dolorosa introspezione
analitica – di colui che oggi è considerato il
maggiore storico "revisionista" israeliano, Ilan
Pappe, che pubblicato in edizione originale ( The
ethnic cleansing of Palestine , Oneworld Publications,
Oxford, 2006), sarà, dopo alcune traversie, tradotto
in italiano dall’editore Fazi, nel prossimo autunno.
Si tratta della più impietosa, e appassionata,
ricognizione della sessantennale tragedia palestinese,
che, insieme agli altri scritti e alle costanti prese
di posizione a favore della causa di chi oggi è
scacciato dalle sue case, come i loro genitori furono
scacciati prima di loro, ha provocato al suo autore
tali difficoltà in patria da costringerlo a emigrare
definitivamente in Gran Bretagna. Israele (e
l’Università di Haifa) ha perso una delle sue voci più
critiche, ma anche uno dei suoi intellettuali più
liberi e prestigiosi. Perché citare questo libro di
cui si attende con impazienza l’edizione italiana?
Perché torna utile per fare chiarezza in merito alle
polemiche, ogni giorno più aspre, sulla Fiera del
Libro di Torino edizione 2008. In uno dei numerosi
interventi – pressoché quotidiani – di Yehoshua
abbiamo letto (sulla Stampa di ieri) che quest’anno,
per celebrare il 60° della nascita di Israele, è cosa
buona e giusta fare di questo Stato l’ospite d’onore
della Fiera torinese; ma, ha aggiunto, il prossimo
anno sarebbe bello invitare la Palestina, posto che
questa abbia uno Stato.
Ora, sarà opportuno ricordare che Yehoshua, insieme
con Grossman e Oz (di solito chiamati in campo come il
trio critico della cultura israeliana), ha
giustificato con la guerra del Libano cose anche
peggiori, come il taglio dell’energia elettrica e
dell’acqua alla popolazione di Gaza. In secondo luogo,
va ribadito – e mi scuso dell’ovvietà, che tale non
deve apparire se sempre ieri, sempre sulla Stampa ,
Gianni Vattimo è stato costretto a precisarlo – che il
punto non è impedire il dialogo tra arabi ed ebrei, e
neppure tra palestinesi e israeliani (e chi lo afferma
o è sciocco o è in malafede, "lupo travestito da
agnello", per citare un’antica metafora sempre utile).
Il punto è, semmai, l’opportunità di invitare, nel
sessantennio della fondazione di Israele (che è per
gli arabi, e in specie per i palestinesi, un lutto, la
"Nakba"), uno Stato che pratica qualcosa che uno
studioso israeliano che gode del maggior credito
scientifico sul piano internazionale chiama senza
mezzi termini "pulizia etnica", e ciò senza fare
contestualmente l’invito al costituendo Stato
palestinese. Tanto più che questo invito a Israele, a
quanto si dice, sarebbe stato in qualche modo
richiesto dal governo di Tel Aviv (continuo
personalmente a considerare Gerusalemme una civitas
universalis che non può essere oggetto di
appropriazione da parte di un governo, di una
religione, di un’etnia qualsivoglia), il quale avrebbe
avanzato la stessa richiesta pure al Salone del libro
di Parigi. E, sempre stando a voci circolanti – che
attendono smentita -, precedenti accordi prevedevano
che l’ospite 2008 della Fiera di Torino sarebbe stato
l’Egitto.
Dunque, si tratta di una questione squisitamente
politica; e non ci si venga a dire che la cultura è
indipendente dalla politica. Che cosa ci ha insegnato
tutta la tradizione filosofico-politologica, da
Aristotele a Machiavelli? Da Tocqueville a Marx? Da
Croce a Gramsci? Non inganniamo noi stessi, ripetendo
luoghi comuni, o peggio – e purtroppo è capitato; ma
c’era da aspettarselo – non banalizziamo la Shoah e lo
stesso antisemitismo che ha prodotto quell’orrore
senza pari nella Storia, bollando, appunto, come "il
solito antisemitismo rinascente", le voci critiche
sull’opportunità di fare dello Stato di Israele
l’ospite della Fiera di Torino.
Ciò detto, ha senso ed è utile il boicottaggio?
Personalmente nutro seri dubbi in proposito; ma non
per le ragioni, ahimé terribilmente banali, che
abbiamo letto troppo spesso in questi giorni anche su
fogli sui quali ci saremmo aspettati ragionamenti e
analisi, invece che scomuniche o liquidazioni
sommarie, come se fosse un falso problema. Invece di
boicottare, propenderei per un allargamento: invece
che lasciare, raddoppiare, insomma. Facciamo, subito
ora l’invito alla Palestina; un modo per far capire
che si crede davvero in quella soluzione dei "due
popoli, due Stati" tanto sbandierata. Ma ci si crede
davvero? A tale soluzione, sbandierata con grande
clamore e reiteratamente, a dirla tutta, gli analisti
più avveduti non credono affatto, e la politica
israeliana degli ultimi anni sembra andare in
direzione contraria: si legga in proposito un altro
libro, questo uscito in edizione italiana presso una
casa editrice rigorosamente cattolica, la Jaca Book di
Milano Palestina. Quale futuro? (pp. 300, euro 22). Si
tratta di un’opera collettiva curata da un altro dei
massimi specialisti, Jamil Hilal, storico, sociologo,
politologo e finissimo analista, provvisto (se non
vado errato) del doppio passaporto, palestinese e
israeliano. Le analisi – a carattere economico,
geopolitico, demografico, ideologico, ambientale. –
contenute nei diversi contributi raccolti in questo
utilissimo volume (che tanti chiacchieratori di
professione farebbero bene non a leggiucchiare, bensì
proprio a studiare, prima di tranciare giudizi ed
emanare verdetti) portano a una conclusione oggi tanto
necessaria, quanto inattuale, per usare una formula
celebre di Norberto Bobbio (lui si riferiva alla pace
mondiale, e invece di inattuale usava l’aggettivo
ancora più drastico di "impossibile"): ossia l’unica
soluzione duratura, credibile ed efficace, per salvare
i diritti degli uni e degli altri – ma, sia consentito
ricordare i tanti cristiani, ortodossi, copti e
cattolici. – sarebbe, per dirla con le parole di
Hilal: «La riunificazione della Palestina in uno Stato
democratico e pluralista», come «risposta alla pulizia
etnica che i palestinesi hanno subìto nel 1948 e alla
distruzione della loro società, che continua sotto il
colonialismo militare».
Ciò che più conta rilevare è, però, che questa è
anche, secondo gli autori del libro (tra i quali lo
stesso Pappe), «l’unica via d’uscita che gli
israeliani hanno dalla trappola dell’isolamento
etnico, dall’istituzionalizzazione di un sistema di
Apartheid e dalla continua oppressione di un altro
popolo». Ebbene, lancio una sfida: perché non
trasformare questa edizione della prestigiosa Fiera di
Torino, da vetrina propagandistica di uno Stato (da
tanti studiosi indipendenti definito come colonialista
e oppressore), in un laboratorio dell’unificazione tra
i due popoli? Forse sarebbe davvero un contributo,
magari minimo, ma importante sul piano simbolico:
nessuno pensa che una tale soluzione politica sia
imminente; e i più la giudicano pura utopia. Ma non è
forse l’utopia un messaggio lanciato in una bottiglia?
Chissà che presto o tardi, qualcuno non lo raccolga.

06/02/2008

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